Non finiranno di stupirci i cosiddetti “esperti” chiamati a dipanare la matassa del Covid. A parte quelli che vivono perennemente sul piccolo schermo e che ad ogni loro “strambata” pubblicano un ponderoso testo che pochi o pochissimi leggeranno, tutti gli altri si barcamenano sulle ipotesi più o meno plausibili su di un Covid divenuto “diverso”, più “buono” e via discorrendo.
Pochi, anzi pochissimi, sono stati
quelli che ad ogni assalto degli interroganti pseudo-esperti abbiano avuto il
coraggio e l’onestà intellettuale di rispondere perentoriamente: “Non ne
sappiamo nulla di questo Covid”. Punto e basta. Tra questi annovero il
professor Massimo Galli dell’Ospedale “Luigi Sacco” di Milano, la ricercatrice virologa
Ilaria Capua e la dottoressa Maria Rita Gismondo, direttrice di “microbiologia
clinica e virologia” sempre dell’Ospedale “Luigi Sacco”. Per il restante
campionario dei cosiddetti “esperti”, uno sconforto. Nella vicenda del Covid
avere scartato i molto telegenici “esperti” mi ha aiutato a non credere alle
fandonie a larghe mani disseminate ed in pari tempo ad attingere a quelle
figure professionalmente valide dispensatrici di sapere non finalizzato al
lucro a tutti i costi. È stata la dottoressa Gismondo che proprio ieri, 3 di
ottobre, su “il Fatto Quotidiano” ha voluto allargare gli orizzonti proponendo
molto pacatamente un nuovo “sguardo” sul Covid in un “pezzo” che ha per titolo “E se fosse una sindrome e non una
pandemia?”: Richard Horton, il 26 settembre, ha pubblicato su Lancet un articolo
che non rimarrà inosservato. Il titolo è già eloquente, COVID-19 is not a
pandemic (“il Covid-19 non è una pandemia”). L’autore sostiene che l’approccio
nella gestione della diffusione, ma soprattutto della patologia sia sbagliato,
perché la crisi sanitaria è stata affrontata come determinata dalla malattia
infettiva. Affermazione scioccante che mina alla base otto mesi di gestione del
fenomeno. Horton non è un matto, è uno degli editorialisti più quotati di
Lancet. Con qualsiasi altra firma avremmo abbandonato l’articolo con una
smorfia sarcastica. Invece è Horton. Certamente non è un “negazionista”, ma uno
che ha un orizzonte sempre “più in là”. Condanna i governi che hanno gestito la
crisi solo come una catena di contagio virale da interrompere. Sostiene che, in
realtà, interagiscono due categorie di malattie: l’infezione dovuta a
SARS-CoV-2 e una serie di malattie non trasmissibili. Queste condizioni si
raggruppano all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente
radicati nelle nostre società. Secondo Horton non è una pandemia, ma una
sindrome (più elementi patologici). Significa che è necessario un approccio più
sfumato. Limitare il danno richiederà un’attenzione maggiore alle malattie non
trasmissibili e alla disuguaglianza socioeconomica. Le sindemie sono
caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra condizioni e stati,
interazioni che aumentano la suscettibilità di una persona a danneggiare o
peggiorare i loro risultati di salute. Da qui la deduzione logica che,
piuttosto che esclusivamente tracciare il virus, bisogna agire sulle condizioni
che lo favoriscono. Eliminare, ove possibile (esposizione degli anziani e dei
malati cronici), migliorare le condizioni sociali. Detto così, ci stupisce
meno, visto che molti di noi abbiamo affermato che si tratta di un
opportunista. Dobbiamo, lo fa intendere anche Horton, eliminare le opportunità
che rendono facile al virus di colpirci. Traggo un approfondimento nel
merito da “Caro Darwin sono un virus di
successo” di David Quammen – divulgatore scientifico – pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 2 di ottobre: Nessuna persona dotata di
buonsenso può contestare che il Covid 19 rappresenta una grande tragedia per
l’umanità, una tragedia perfino nel senso in cui veniva usato questo termine
nella Grecia antica, secondo la definizione di Aristotele, con il disastroso
esito legato a un qualche peccato d’orgoglio del protagonista. Protagonista che
questa volta non è Edipo o Agamennone: stavolta siamo noi quel protagonista
presuntuoso che si è attirato addosso il disastro. La portata e la devastazione
della pandemia sono frutto di sfortuna, certo, e di un mondo pericoloso, certo,
ma anche di catastrofiche carenze di preveggenza, volontà comune e capacità di
leadership da parte dell’umanità. Ma andiamo oltre questo bilancio di
manchevolezze umane, per il momento, e consideriamo l’intero evento dal punto
di vista del virus. Misuriamolo usando la fredda logica dell’evoluzione: la carriera del SARS-CoV-2 fino a questo momento, in
termini darwiniani, è una grande storia di successo. Questo coronavirus
ormai famigerato un tempo era una creatura insignificante che se ne stava
quieta e tranquilla all’interno del suo ospite naturale: alcune popolazioni di
animali, probabilmente pipistrelli, nelle grotte e in quel che resta delle
foreste della Cina meridionale. L’esistenza di questo nascondiglio vivente,
chiamato anche “riserva virale” è logicamente necessaria quando un qualsiasi
nuovo virus compare all’improvviso sotto forma di infezione umana. Perché?
Perché tutto viene da qualche parte e i virus vengono da creature cellulari
come animali, piante o funghi. Un virus è in grado di replicare se stesso,
funzionare come se fosse vivo e durare nel tempo solo abitando le cellule di
una creatura più complessa, come una sorta di parassita genetico. Generalmente,
il rapporto fra il virus e la sua riserva virale rappresenta un adattamento
evolutivo antico. Il virus persiste mantenendo un profilo basso, senza causare
problemi, senza proliferare in modo esplosivo, e in cambio ottiene sicurezza a
lungo termine. I suoi orizzonti sono modesti: una popolazione relativamente
piccola, una diffusione geografica limitata. Ma questo rapporto fra organismo
ospitante e organismo ospitato non è imperturbabilmente stabile, né rappresenta
la fine della storia. Se un diverso tipo di creatura entra in contatto con
l’organismo ospitante, predandolo, catturandolo o magari semplicemente
condividendo la stessa grotta, il virus può essere spinto fuori dalla sua
comfort zone e catapultato in una nuova situazione: un nuovo potenziale
organismo ospitante. All’improvviso, è come una torma di ratti che salta giù a
riva da una nave approdata in un’isola remota. Il virus può prosperare in
questo nuovo habitat, oppure fallire e morire. Se riesce a prosperare, allora
può insediarsi non solo nel primo nuovo individuo, ma in tutta la nuova
popolazione. Può scoprire di essere in grado di penetrare in alcune delle
cellule del nuovo organismo ospitante, replicandosi in abbondanza e
trasmettendosi da quell’individuo ad altri. Questa cosa è chiamata “salto di
specie” (in inglese si usa anche un termine più vivido, spillover, che
significa “tracimazione”, “traboccamento”). Se questo salto di specie dà luogo
a una malattia fra una dozzina o due dozzine di persone, si ha un focolaio. Se
si diffonde in un intero Paese, un’epidemia. Se si diffonde ovunque, una
pandemia. Immaginate di nuovo quella torma di ratti che sbarca su un’isola dove
prima i ratti non c’erano. Gli animali scoprono, con grande piacere, che
l’isola è abitata da diverse specie endemiche di uccelli, ingenui e fiduciosi,
abituati a deporre le loro uova a terra. I ratti mangiano quelle uova. Ben
presto l’isola perde tutte le sue sterne, le sue folaghe, i suoi pivieri, ma ha
ratti in abbondanza. Col tempo, i ratti acquisiscono anche la capacità di
stanare le lucertole dai loro nascondigli fra rocce e tronchi, e se le
mangiano. Sviluppano agilità nello scalare gli alberi e mangiare le uova dai
nidi degli uccelli. Ormai quell’isola si può tranquillamente chiamare “Isola
dei Ratti”. Per i ratti, è una storia di successo evolutivo. Se l’isola
sperduta in questione è un essere umano appena colonizzato da un virus
proveniente da un animale non umano, chiamiamo quel virus una zoonosi e
l’infezione che ne risulta una malattia zoonotica. Più del 60 per cento delle
malattie infettive umane, Covid 19 compreso, ricade in questa categoria delle
zoonosi di successo. Alcune malattie zoonotiche sono provocate da batteri (come
il bacillo responsabile della peste bubbonica) o altri tipi di patogeni, ma
nella maggior parte dei casi sono virali. I virus non hanno niente contro di
noi. Non hanno scopi, non hanno progetti. Seguono gli stessi semplici
imperativi darwiniani che seguono i ratti o qualsiasi altra creatura guidata da
un genoma: estendersi quanto più possono in numero, spazio geografico e tempo.
Il loro istinto primario è fare quello che Dio comandava agli esseri umani che
aveva appena creato nella Genesi 1:28: «Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra, soggiogatela». Per un virus sconosciuto, che resiste dentro
la sua riserva virale (un pipistrello o una scimmia in qualche regione sperduta
dell’Asia o dell’Africa, o magari un topo nel Sudovest degli Stati Uniti), il
salto agli esseri umani offre l’opportunità di compiere il mandato celeste. Non
tutti i virus di successo riusciranno a “soggiogare” il pianeta, ma alcuni
andranno vicini a soggiogare quantomeno gli esseri umani. La pandemia di Aids
andò così. Un virus degli scimpanzé oggi noto come SIVcpz passò da un singolo
scimpanzé a un singolo essere umano, forse per contatto ematico durante una
lotta mortale, e prese piede fra gli umani. Evidenze molecolari sviluppate da
due team di scienziati ci dicono che tutto questo probabilmente è successo
oltre un secolo fa, nell’angolo sudorientale del Camerun, in Africa centrale, e
che il virus ha impiegato decenni per diventare provetto nella trasmissione da
uomo a uomo. Ora lo chiamiamo “H.I.V.-1 gruppo M”: è il ceppo pandemico,
responsabile di gran parte dei 71 milioni di infezioni umane conosciute a
tutt’oggi. Il SARS-CoV-2 ha fatto qualcosa di simile, anche se il suo successo
è avvenuto in tempi molto più rapidi. Non è il virus infettivo umano di maggior
successo sul pianeta: questo titolo spetta ad altri, forse al virus
Epstein-Barr, una specie di herpesvirus altamente contagiosa, che si è
insediata in almeno il 90 per cento di tutti gli esseri umani, provocando
sindromi in alcuni e rimanendo latente nella maggior parte. Ma il SARS-Cov-2 è
partito col botto. Ora, a scopo illustrativo, immaginiamo un diverso scenario,
che coinvolge un virus diverso. Nelle foreste di montagna del Ruanda vive un
piccolo pipistrello insettivoro, il rhinolophus hilli, della famiglia dei
rinolofidi. Questo pipistrello esiste, ma è stato avvistato solo raramente ed è
classificato fra le specie in stato di conservazione critico. Poniamo che un
coronavirus usi questo pipistrello come riserva virale. Chiamiamo questo virus
RhRW19 (un’abbreviazione in codice di quelle che usano i biologi), perché è
stato individuato all’interno della specie rhinolophus hilli (Rh) in Ruanda
(RW) nel 2019 (19). Il virus è ipotetico, ma è plausibile, considerando che
sappiamo che molti tipi di rinolofidi nel mondo ospitano coronavirus. L’RhRW19
è sull’orlo dell’estinzione, perché questo raro pipistrello è il suo unico
rifugio. La scialuppa di salvataggio sta imbarcando acqua da tutte le parti ed
è quasi affondata. Ma poi un contadino ruandese, che ha bisogno di
fertilizzante per il suo fazzoletto di terra, entra in una grotta e si porta
via qualche palata di guano di pipistrello. Il guano viene dal rhinolophus
hilli e contiene il virus. Spalando e respirando, il contadino si infetta con
l’RhRW19. Lo passa a suo fratello, e il fratello lo porta in un ambulatorio
provinciale dove lavora come infermiere. Il virus circola per settimane fra i
dipendenti dell’ambulatorio e i loro contatti, facendo ammalare qualcuno e
uccidendo una sola persona, mentre la selezione naturale migliora la sua
capacità di replicarsi all’interno delle cellule delle vie respiratorie umane e
di trasmettersi fra una persona e l’altra. Una dottoressa in visita si infetta
e si porta dietro il virus a Kigali, la capitale del Ruanda. Ben presto il
virus arriva all’aeroporto, nelle vie respiratorie di persone che non avvertono
ancora sintomi e si stanno imbarcando su voli diretti a Kinshasa, Doha e
Londra. Ora possiamo dare a questo virus potenziato un nome diverso:
SARS-CoV-3. È una storia di successo che non si è ancora verificata, ma
potrebbe verificarsi. Ma l’evoluzione non è pensata per compiacere l’homo
sapiens. Il SARS-CoV-2 ha fatto una grande mossa di carriera saltando dalla sua
riserva virale agli esseri umani. Ha già realizzato due dei tre imperativi
darwiniani: espandere il suo numero ed estendere la sua portata geografica.
Solo il terzo imperativo rimane una sfida da vincere: perpetuarsi nel tempo.
Riusciremo mai a liberarcene interamente, ora che è un virus umano?
Probabilmente no. Riusciremo mai a lasciarci indietro i patimenti di questa
emergenza? Sì. I virus sono capaci di evolversi, rapidamente e con efficacia.
Ma noi esseri umani siamo in gamba, a volte.
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