“L’ipotesi dell’apocalisse
finanziaria, del default italiano poi europeo poi mondiale volteggia sulle
nostre teste. Ma provate a materializzarla, a capire come cambierebbe
concretamente il mondo, che cosa perderemmo, a quali rinunce saremmo costretti,
e non ci riuscirete. La povertà classica aveva il volto antico della fame, del
freddo, della penuria. E la povertà futura? Il rapporto tra prodotto interno
lordo mondiale ed economia finanziaria è uno a otto: i beni concretamente
prodotti dagli esseri umani con il loro lavoro sono appena un ottavo del folle
vortice virtuale che si chiama economia finanziaria. (…). L’istinto sarebbe
contare quanto frumento rimane in granaio, quante patate e quanto vino in
cantina, quanti soldi nel portafogli, quanto gasolio in caldaia. Non riuscire a
farlo, e non poterlo fare, genera un’angoscia inedita, un disorientamento
assoluto, come quando si ignora il volto del nemico. La sola cosa che abbiamo
capito con certezza è che la totale perdita di nesso tra la vita materiale (il
lavoro, il cibo, i manufatti, persino il denaro che pure è già un’astrazione) e
l’economia mondiale è un segno di malattia. E la malattia fa sentire insicuri
perfino più della povertà.” Così
Michele Serra nella Sua rubrica sul quotidiano “la Repubblica” dell’otto di
settembre dell’anno 2011. Ove si diceva di una “malattia” che stia affondando
l’economia finanziaria globalizzata e non solo. Da un pezzo, lo si è detto e
ridetto tantissime altre volte, si ha la sensazione che quella “malattia”
abbia investito le democrazie al loro interno. È pur vero che l’infezione data
da lunghissimo tempo, dal tempo del finto cowboy divenuto presidente; è pur vero
che il fuoriuscirne non è alla vista. È che ora l’incubazione si è fatta
evidente ed i sintomi si sono manifestati oltre ogni ragionevole dubbio. I
bubboni scoppiano facendone fuoriuscire il male contenuto. Come se ne uscirà?
Come promesso inanello in questa sezione pensieri e riflessioni tra i più
autorevoli. Questa volta vi si propone, in parte, un “pezzo” pregiato di
Barbara Spinelli che ha per titolo “Riconquistare
il futuro”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 5 di ottobre
dell’anno 2011. Scrive nella parte finale del Suo “pezzo” che “la
crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che in
Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci vorranno
40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia)
raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non di
crescita zero, purché sia un crescere diverso”. È il punto nodale dal
quale partire per il dopo “crisi”. Scriveva a quel tempo Adriano
Sofri che “occorre coraggio per
affrontare dentro la crisi l´idea di un altro modo di muoversi, di abitare, di
impiegare il vento e la monnezza e il tempo, di imparare e insegnare. (…)”.
Verità e coraggio sono due termini che ricorrono spesso nelle letture proposte.
Verità e coraggio per “riconquistare il futuro”,
anzi quel futuro negato alle giovani generazioni. Ha scritto Barbara Spinelli: (…).
La crisi, inasprendo ineguaglianze divenute smisurate lungo gli anni, pesa sui
popoli da tempo. Ma questa volta gli animi sono impauriti, disorientati, come
se mancasse loro una bussola che indichi dove sta, veramente, il Nord. (…).
Anche se diversi, i popoli hanno però questo, in comune: non sanno la storia
che fanno. Vivono come in una caverna: fuori c'è un aperto da cui dipendono -
l'Europa, il mondo - ma di cui non sanno nulla. Non vedono il futuro, sempre
aperto visto che lo scriviamo noi. Non vedono che il futuro è ormai
cosmopolitico nei fatti, non nella teoria. La cosa che più temono è cambiare
ottica. Ogni novità appare ominosa, mai si presenta come occasione d'imparare
la vita all'aperto. Come in Balzac, gli impauriti accettano che il passato
domini il presente, e del presente diventano i proscritti. (…). …i popoli sono
impreparati, ma perché qualcuno li vuole così: incavernati, frammentati, dunque
malleabili. Dicono che la formazione dell'opinione pubblica - ingrediente
fondamentale in democrazia - è stata guastata dal dominio politico sulle tv.
(…). Paul Krugman spiega bene come tali poteri si nutrano di dottrine economiche
completamente divorziate dalla realtà, fondate sulla menzogna: la menzogna
secondo cui non c'è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui
la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza
di regole (New York Times, 29-9-11). (…). …la crisi economica somiglia alla
guerra che Samuel Johnson descrive nel '700: le sue ‘maggiori calamità sono la
diminuzione dell'amore della verità, e la falsità dettata dall'interesse e
incoraggiata dalla credulità’. Questo fanno i moderni pretendenti politici:
invece di guidare incoraggiano la credulità, assecondano gli interessi di chi
vuol conservare privilegi e ineguaglianze che la deregolamentazione liberista
ha creato. (…). È perché i politici non sono all'altezza - la politica è nulla,
senza pedagogia delle crisi - che i popoli s'immobilizzano. Il populismo
lusingandoli li sfrutta, per occultare quel che accade: una crisi che rovina
non solo l'economia, ma quel che tiene unite le società e dunque la democrazia.
(…). Secondo alcuni, il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di
alfabeto, proscritto dal presente: ecco il popolo-Golem che i populisti
plasmano. Ora i popoli gli si rivoltano contro. Erano consumatori, anziché
cittadini. Costretti d'un colpo a consumare meno, sgomenti, si riscoprono
cittadini. La paura può divorare l'anima, la storia non essendo progressista lo
testimonia. Ma può anche aguzzare la vista. Nell'800, una prima previdenza
pubblica nacque perché il socialismo incuteva spavento. Bismarck, in Germania,
fu il primo a creare lo Stato che protegge i deboli e l'interesse generale,
trasformando la paura di perdere il passato in costruzione del futuro. Così la
destra storica in Italia. Le prime norme a tutela del lavoro, della vecchiaia,
dell'invalidità, degli infortuni vennero dal liberale Giolitti. La destra di
oggi non somiglia in niente a quella di ieri. (…). Se oggi i governanti
volessero ritentare la via di Bismarck, dovrebbero abituare i popoli a pensare
che da soli non ce la faranno. Ogni giorno constatiamo che la statura conta,
nella globalizzazione: sei forte se rappresenti non uno staterello (la Padania
ad esempio) ma se competi con le grandezze demografiche della Cina, dell'India,
del Brasile, degli Usa, della Russia. Inizialmente il populismo sorge come
risposta democratica alle oligarchie. Un laccio stringe il capo al suo popolo,
e questo laccio, simbolo della sovranità popolare, comanda su tutto, non
tollerando né istituzioni intermedie né autorità sovranazionali. Il populismo
semplifica, quando per uscire dalla crisi urge complicare, differenziare i
poteri. Si parla spesso di una ricaduta nel Trattato di Westfalia, che consacrò
gli Stati sovrani assoluti. Si dimentica che l'Europa nel 1648 era in ascesa,
mentre oggi precipita frantumandosi. Due guerre mondiali l'hanno emarginata
storicamente, e resuscitare Westfalia è grottesco oltre che pericoloso. (…). Il
deserto tra leader e popolo non resta vuoto, viene occupato da nuove
oligarchie: più mafiose di prima, indifferenti al bene comune. Al posto del
legame sociale s'insedia l'identità (etnica, religiosa, sessuale) fondata sul
rigetto dell'altro. Le liste di politici gay, apparse in rete giorni fa, è un
episodio da Ultimi Giorni dell'Umanità. In una democrazia decente i giornali le
ignorano. Se non lo fanno è perché il populismo è l'aria che tutti respiriamo.
La crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che
in Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci
vorranno 40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile,
Russia) raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non
di crescita zero, purché sia un crescere diverso. Fu inventata per questo
l'Europa unita. Perché non aveva più senso, costruire il futuro facendosi
governare dalle menzogne sul passato.
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