Tratto da «Giulia, l’amore e
l’accusa di essere un “mascalzone”. Le “Lettere” mai viste di Gramsci»
di Simonetta Fiori, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11
di ottobre 2020: (…). Prima di trasferirci al numero 3 di via Arcivescovado a Torino,
sotto le finestre dell’Ordine nuovo, dove il direttore Antonio Gramsci tiene
una pistola sulla scrivania perché nel biennio rosso non si può star
tranquilli, occorrerà soffermarsi sulla prima vera notizia culturale: le
Lettere dal carcere tornano a circolare integralmente (…). …da svariati decenni
per leggere il romanzo epistolare più bello del Novecento bisognava rivolgersi
a Sellerio, che nel 1996 ha pubblicato per la cura di Antonio Santucci un
elegante cofanetto azzurro con tutte le lettere, ormai fuori diritto. (…). Ogni
edizione porta con sé nuove lettere e nuovi documenti, e ha ragione Ernesto Franco
quando lo definisce «un libro forse interminabile». Qui siamo a quota 489
missive di cui 4 inedite, le datazioni si fanno più certe, alcuni brani cassati
dallo stesso prigioniero e ora reintegrati aprono piccoli squarci su sogni
presto svaniti («Ho pensato di essere finalmente diventato una bolla e di
essere da domani fuori», scrive il 6 novembre del 1932 nell’illusione di
beneficiare dell’amnistia. «Chissà quanti viaggi»). Ma il merito principale del
curatore è di aver ripercorso le incredibili traversie di un libro postumo –
involontario e conteso – con la serenità di chi vuole lasciarsi alle spalle le
zuffe politiche novecentesche. (…). Breviario civile per più generazioni di
italiani, le Lettere dal carcere sono un libro unico. A differenza di molti
altri epistolari, pur fornendo ai Quaderni una preziosa intelaiatura
esistenziale, non sono soltanto un supporto documentario ma hanno l’autonomia
di un’opera compiuta. Scritte tra il novembre del 1926, dopo l’arresto del
leader comunista a Regina Coeli, e il gennaio del 1937, a tre mesi dalla morte,
annotate nelle condizioni più disparate, nella solitudine d’una cella o in uno
spazio condiviso, su un foglio intero o piegato a metà, le lettere sono il
racconto d’un pensiero che non s’arrende. E d’un uomo che affida alle parole,
soprattutto alle domande, la costruzione di un’intimità impossibile con gli
affetti lontani. Del grande romanzo – disse Calvino – possiede «la vastità,
l’intreccio di mondi e di filoni». E come succede con i classici, a ogni epoca
– e ogni stagione della vita – può variare la navigazione dentro il testo,
privilegiando di volta in volta punti di vista differenti. Il libro può essere
letto anche come uno straordinario romanzo d’amore, affollato di figure
femminili potenti le cui voci risuonano nelle note di questa nuova edizione. La
storia di Giulia e delle sue sorelle. In primo piano è la moglie Julka, la più
bella tra le figlie di Apollon Schucht, la jeune fille dall’ovale perfetto e
dallo sguardo bizantino che Gramsci conosce per caso nel 1922, in Russia, nel
sanatorio della Foresta d’argento: là era ricoverata anche Genia, la sorella
maggiore invaghita del rivoluzionario sardo che mai avrebbe perdonato a
entrambi la fuga sentimentale. E poi c’è Tania, la terza sorella, la moderna
Antigone che negli anni della carcerazione fascista tesse il filo tra il
prigioniero e il mondo esterno. «Nessuno come te sa toccare l’anima di
Antonio», scrive a Giulia per incoraggiarla a rompere il suo silenzio. Le
insicurezze affettive di Gramsci rimbalzano in quelle della moglie distante, in
un gioco di specchi a tratti struggente. «Qualche volta mi sembra che tu scrivi
precisamente quello che io provo e penso, mentre io l’ho espresso con altre
parole perché non ricordo bene l’italiano o perché sono ignorante», gli scrive
Giulia il 17 luglio del 1933. E lui, due anni più tardi, rivolto alla cognata:
«Sono incapace di esprimere i miei sentimenti in maniera tanto chiara e vivace
come fa Julicka: le sue lettere sono preziose da ogni punto di vista». In
questa singolare triangolazione, qui valorizzata da brani epistolari inediti,
il ruolo essenziale è svolto sempre da Tania, forse anche lei un po’ innamorata
di Gramsci, «ma queste sono cose per cui non vale lo scambio di persona», la
scuote brutalmente il prigioniero. Sarà Tania la prima delle sorelle Schucht a
sparire di scena, a 46 anni, uccisa dal tifo. Non prima di aver messo in salvo
le lettere e i quaderni. Nell’universo affettivo di Gramsci è centrale anche la
figura di Peppina Marcias, la madre coraggio che a 37 anni si era ritrovata
sola con sette figli da mantenere, il marito in galera per peculato. È a lei
che nell’aprile del 1929 Antonio racconta la storia della piccola Edmea, quando
sotto le finestre dell’Ordine Nuovo s’era appalesato «uno strano gruppo di
gente: una vecchia, un giovanotto fornito d’un bastone grosso come un paracarro
e una giovane donna con una bambina al collo». La vecchia raccontò a tutti i
tipografi che Gramsci aveva sedotto la figlia. In realtà si trattava di un
equivoco, perché il Gramsci ingravidatore fuggiasco non era il direttore del
giornale ma il fratello Gennaro, responsabile amministrativo, che Antonio vide
allontanarsi furtivamente nascosto dietro un paio di occhiali da sole.
Naturalmente Gramsci indurrà “Nannaro” a riconoscere la bambina e da allora Mea
sarebbe entrata nel suo cuore, come dimostra anche la lettera inedita che
pubblichiamo in pagina. Ma intanto la storia aveva preso a circolare nella
stampa nemica, «e io venivo dipinto come un mascalzone vizioso, cocainomane,
con le dita cariche di anelli», annota con la consueta ironia. Al di là dei
diversi percorsi politici e ideali, le Lettere dal carcere appartengono a
tutti. Per le finestre spalancate sulla verità, da qualsiasi parte essa arrivi.
E per il senso di fraternità umana, che è proprio dell’arte. Lo scrisse
Benedetto Croce quando uscì la prima edizione. A distanza di tanti anni pare
difficile dargli torto.
"Scrivere è prendere l'impronta dell'anima".(Multatuli). "Scrivo per lo stesso motivo per cui respiro, perché, se non lo facessi, morirei". (Isaac Asimov). "Riempi il tuo foglio coi respiri del tuo cuore".(William Wordsworth). "La vita si vive o si scrive".(Luigi Pirandello). "Scrivere è una forma di terapia. A volte mi chiedo in che modo tutti coloro che non scrivono, compongono o dipingono riescano a sfuggire alla follia, alla melanconia, al panico che è insito nella condizione umana".(Graham Greene). Grazie, Aldo, per aver condiviso questo scritto così appassionante e buona continuazione.
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