Tratto da “Il
vaccino della scrittura” di David Grossman, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 17 di ottobre 2020: (…). Qui, oggi, noi scrittori, poeti,
traduttori, redattori, editori, agenti ma soprattutto lettori, paragoniamo
tristemente le circostanze odierne a quelle degli anni passati e ci chiediamo
quale sia il nostro compito nell'attuale realtà. Potremmo dare un qualche
contributo? Creare una sorta di "anticorpo" o di "vaccino
spirituale" al virus? Contrapporre qualcosa di significativo al senso di
restrizione e di annientamento generato dalla pandemia? Credo che questo
"qualcosa" sia la nostra capacità di osservare. Il modo in cui
guardiamo il mondo e descriviamo ciò che vediamo. L'osservazione è il fulcro
della nostra arte. Ciò che fa di noi degli scrittori, e forse le persone che
siamo. E c'è molto da osservare. E da raccontare. In quasi tutti gli ambiti
della vita avvengono, e avverranno, cambiamenti. Sistemi economici, politici,
sociali, culturali collasseranno o assumeranno nuove fisionomie. Probabilmente
anche i rapporti tra le persone, tra famigliari, tra amici, tra coppie
muteranno. Forse la prossimità alla morte farà sì che donne e uomini, dopo la
pandemia, vedano la loro vita in una luce diversa e non vogliano più accettare
compromessi. E forse scopriranno quanto siano significativi e importanti i
rapporti di amicizia e d'amore. Ma fino a quel momento il coronavirus
continuerà a imperversare e, come sempre, man mano che le fondamenta della
società verranno minate e la sicurezza personale e nazionale diminuirà,
probabilmente assisteremo a un aumento degli episodi di nazionalismo, di
fondamentalismo religioso, di xenofobia, di razzismo e a gravi violazioni della
democrazia e dei diritti civili. E noi scrittori osserveremo, scriveremo,
documenteremo e metteremo in guardia da chiunque cerchi di attuare
manipolazioni linguistiche e cognitive. Da chiunque minacci i nostri diritti
civili e umani. Un evento come l'attuale pandemia di coronavirus avviene forse
una volta in un secolo. Il destino ha voluto che accadesse a noi. È una
malattia orribile, letale, che ci fa sentire impotenti. Osservarla, osservarne
le conseguenze, è come fissare il sole. Ma gli scrittori hanno sempre fissato
questo o quel sole e raccontato ciò che hanno visto. È la natura di questa
strana professione. Vogliamo osservare quest'epoca e ricordare com'eravamo. In
che modo abbiamo resistito o non resistito. Dove si sono rivelate le nostre
debolezze - individuali e sociali - e in quali momenti abbiamo scoperto di
essere più deboli di quanto pensassimo e più forti di quanto credessimo. Saremo
testimoni attivi, curiosi, acuti. Scrivere, non necessariamente della pandemia,
è anche il nostro modo di resistere ai cliché, a vuoti slogan, ad affermazioni
indiscriminate che spianano la strada all'istigazione, al pregiudizio e al
razzismo. Ciò che facciamo riuscirà a indebolire anche minimamente lo slancio
del coronavirus? Ovviamente no. Però ci permetterà di rafforzare un poco il nostro
sistema immunitario. Di ricordare a noi stessi chi eravamo prima della
pandemia. E di quanto potrebbe essere bello e luminoso il mondo dopo che saremo
usciti da questo incubo. Prima di concludere vorrei raccontarvi una storia così
come mi fu riferita da Abraham Sutzkever, uno dei più grandi poeti yiddish,
vissuto nel ghetto di Vilnius durante la seconda guerra mondiale. Così
Sutzkever mi narrò della notte in cui scappò dal ghetto: "Mi convinsi del
potere racchiuso nella poesia nel marzo del 1944, quando dovetti attraversare
un campo minato. Nessuno sapeva dove fossero le mine. Vidi persone fatte a
pezzi. Vidi uno stupido uccello che si era avvicinato troppo. Qualunque
direzione prendessi, qualunque passo facessi, avrebbe potuto significare la
morte. Ma fra me e me ripetevo una melodia" (e per "melodia" lui
intendeva una poesia). "E al ritmo di quella melodia camminai per un
chilometro nel campo minato, e ne uscii". Poi disse la seguente,
sorprendente, frase: "Potresti ricordarmi che melodia era? Io non
ricordo...". E io posso immaginarlo con un sorrisetto, quasi a dirci che
la melodia la si dimentica sempre. Sta a noi reinventarla, con parole nostre,
per non sentirci impotenti, sconfitti, persino nel mezzo di un campo minato.
Per avere ancora speranza.
"La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell'anima e canta la melodia senza parole, e non si ferma mai".(Emily Dickinson)."La pioggia si fermerà,la notte finirà, il dolore svanirà. La speranza non è mai così persa da non poter essere trovata".(Ernest Hemingway). "Il cielo ha dato tre cose agli uomini per compensare le difficoltà della vita:la speranza, il sonno e il sorriso". (Immanuel Kant). Grazie di quanto è preziosamente racchiuso in questo post...Buona giornata e buona continuazione.
RispondiEliminaGrazie, a tutti i pensatori, scrittori, ci divisori di idee alate.
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