A lato: "Saint Ives" (Cornovaglia), "acquarello" (2019) di Anna Fiore.
Tratto da «Siamo
abitati dal nostro Io e dalla nostra Specie» di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di settembre
2020: E i loro interessi sono in naturale conflitto. Ma la nostra infelicità
sta anche nel non saper esprimere noi stessi per ciò che siamo.
Circa l’ambivalenza
dell’amore materno vorrei che ci persuadessimo che noi siamo abitati da una
doppia soggettività: l’Io, che conosciamo perfettamente perché regoliamo la
nostra vita a partire dai suoi progetti, dai suoi desideri, dalle sue
aspirazioni, e la Specie che non tiene conto degli interessi dell’Io, ma
unicamente del suo interesse alla propria conservazione e perpetuazione. Dal
punto di vista della Specie noi siamo suoi semplici funzionari, riforniti di
sessualità per la procreazione e di aggressività per la difesa della prole.
Dopo di che la Specie ci priva dell’una e dell’alta, per avviarci alla
vecchiaia e infine alla morte nella più assoluta noncuranza degli interessi
dell’Io. Se consideriamo che una donna che vuole generare deve assistere alla
deformazione del suo corpo, al trauma della nascita, alla soppressione del suo
tempo per la dedizione costante alla cura del neonato, del suo sonno, della
sospensione del suo lavoro, della sua socializzazione, per l’economia del suo
Io generare è una perdita secca, mentre per l’economia della Specie è un
guadagno assoluto. Di qui l’ambivalenza dell’amore
materno, che non è solo amore ma anche, in taluni momenti, odio, come
lasciano intendere alcune espressioni quali: “ti mangerei”, “ti ammazzerei”,
dette dalle madri ai loro neonati in tono amorevole, ma non propriamente
carino. Tutto questo per dire che quando le mamme provano sentimenti negativi
nei confronti dei loro neonati non si devono colpevolizzare. È il risultato del
naturale conflitto tra gli interessi dell’Io e quelli della Specie. Per quanto
riguarda la felicità, io sto con la definizione greca che la chiama
“eu-daimonia”, buona riuscita del tuo demone, ossia di ciò a cui propriamente
aspiri, di ciò a cui sei portato, in una parola della tua autorealizzazione.
Naturalmente conoscendo i tuoi limiti e guardandoti bene dal non oltrepassarli,
perché altrimenti vai incontro alla tua rovina. Perché magari sei un bravo
scultore, ma non come Michelangelo, un bravo attore ma non come Mastroianni,
una brava ricercatrice ma non come Rita Levi-Montalcini. Per questo devi
conoscere bene te stesso e non inseguire i tuoi miti. La conoscenza di sé è
praticabile con un’indagine interiore, ma siamo ancora attenti alla nostra
interiorità? O siamo distratti dal rumore e dalla fascinazione del mondo? Se
uno giunge a realizzare sé stesso, non si pone quella domanda che assilla
quanti si chiedono il senso della loro vita. Perché il senso è in ciò che hai
fatto e che fai. E se hai sbagliato strada è perché, come diceva Eraclito: “Non
hai indagato profondamente te stesso”, che è il compito che nella vita attende
ciascuno di noi e che molto spesso ci esoneriamo dal compiere. Capisco che
nella nostra società, così com’è regolata dal profitto, dall’efficienza e dalla
produttività, non sempre ci è concesso di realizzare noi stessi in ciò che
facciamo. E questa è la ragione dell’infelicità collettiva,
dell’insoddisfazione al termine di ogni nostra giornata. E allora dobbiamo
chiederci: e se per ottenere tutte le comodità e i vantaggi che una società
evoluta, come riteniamo sia la nostra, avessimo forse perso l’unica ragione per
cui siamo al mondo, che è poi quella di poter esprimere noi stessi per ciò che
siamo? E se proprio qui si nascondesse la ragione vera della nostra infelicità?
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