Ha scritto Giuseppe Genna in “Le tenebre e la speranza” pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
dell’11 di ottobre 2020: (…). …il passaggio forse più drammatico
dell’intera enciclica (“Fratelli tutti” di Francesco
vescovo di Roma n.d.r.) sta nel negare che la pandemia sia un
castigo di Dio, quasi che non avesse a che fare col genere umano e le sciagure
che commina a ciò di cui dovrebbe prendersi cura. (…). La frantumazione di ogni
sogno e il crollo della coscienza storica, la sperequazione economica e la
collettivizzazione della rabbia, la connessione pervasiva che crea la
disconnessione tra sé stessi e il mondo, l’incultura violenta che tende a
scartare l’ultimo. Sono i segni tragici di un fato
planetario assunto e realizzato con progressiva accelerazione dall’umano. Non
una volta viene posta la domanda da dove il male provenga. Una fenomenologia
cupa, l’analisi gelida di un mondo altrettanto gelido, che più si sovrappopola
e più diviene deserto. Questo urlo di Munch emesso dal mondo e, insieme al
mondo, da Francesco, conferma lo stato delle cose: un “Metropolis” ubiquitario
preme alle porte della percezione e della vita umana. È uno degli atti più
disperati che si siano visti compiere a un pontefice, detto che la storia dei
Papi è una reiterazione rinnovata di disperazioni dal carattere storico e
cosmogonico (…). In questa discesa agli inferi, che sono poi il mondo che abitiamo
nel nostro tempo travagliato e duro, «è la realtà stessa che geme e si
ribella». Non la natura, non l’umanità: la realtà stessa. (…). Le cose
piangono, la mente umana ne è toccata. (…). Ha ben ragione il vescovo
di Roma a rivolgersi agli uomini del secolo ventunesimo con le forme ed i toni
utilizzati nel Suo scritto. Non può esserci in questo tempo una mistificazione
tale che le responsabilità collettive degli umani passino in un subordine per il
quale figuri la volontà preminente ed ostinata di un dio tesa ad infliggere la “peste”
per un “castigo celeste”. Un messaggio così lanciato sarebbe valso semmai a
quegli uomini del diciassettesimo secolo che nel volume “Tutte le vite di Spinoza” - di Maxime Rovere - patiscono la “peste”
di quel tempo. Scrive Rovere (a pag. 223) a proposito della “peste”
che sconvolse Amsterdam ed il Paese intero nell’anno 1665: Così è la peste. Senza preavviso
le persone si macchiano come la frutta, impallidiscono, marciscono e muoiono.
Nessuno sa perché né come. Non c’è preavviso, la minaccia mortale che grava
sulla città si abbatte sul vostro vicino, sul marito, su uno dei vostri figli,
su di voi… Assai diffusa nell’Antico Testamento, la peste è un evento che
avvelena tutto. Il sapore del pane, un corvo che passa in volo sopra le vostre
teste, un cattivo odore, la strada che scorre sotto i vostri piedi, una vecchia
che tossisce, la prima lettera di una pagina… Tutto si carica di segni e di
terrori. Intorno ai morti che vengono caricati a mucchi sui carri vi è una
pletora di strani comportamenti. Chi si confessa spontaneamente sulla pubblica
piazza, chi riconosce i propri crimini in lacrime, molti, fuori di sé dalla
paura, si lanciano dalle finestre. Quando una casa è colpita dal lutto, i
medici portano via i bambini, sbarrano porte e finestre, insistono affinché gli
abitanti restino chiusi in casa, in modo da non contaminare gli altri. Poi le
famiglie si smembrano, i vicini si evitano, ci si lascia a gemere, strisciare,
gridare, rantolare, crepare dietro la porta. L’angoscia, tra i cittadini che
hanno perso la ragione, è talmente forte che il 21 gennaio 1665 gli Stati
generali devono decretare un giorno ufficiale “di digiuno e preghiera per
scongiurare la collera di Dio e il fuoco della pestilenza”. No, la peste non è
una malattia. La peste è la manifestazione terribile di un male profondo che
l’umanità si porta dentro. Sono ben pochi quelli che la considerano l’effetto
di cause fisiche, perché uccide senza che si sappia mai da dove è venuta. Di seguito “Ed io avrò cura di te” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di
scuola lacaniana - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di ottobre
2020: Ne La peste Albert Camus descrive l’esperienza della malattia e della
morte nella forma estrema di una epidemia pestilenziale. Il pastore della città
invasa dalla peste tiene due prediche in due diversi momenti dell’ondata
epidemica. Una all’inizio quando la curva del contagio ha appena iniziato la
sua tremenda impennata; l’altra nel suo punto più alto quando i morti hanno
prevalso sui vivi e l’avvenire è diventato pesantemente incerto. Nella prima
predica Paneloux parla dal pulpito in una chiesa gremita di fronte ad un popolo
impaurito e smarrito. La sua voce è forte e ammonitrice ed impone una lettura
teologica della peste fondata sul principio della maledizione: il male che ci
ha colpiti non è affatto estraneo al male che abbiamo fatto. La peste è il
flagello che Dio ha scatenato contro l’uomo affinché l’uomo possa comprendere
la gravità dei suoi peccati. È la frusta con la quale Dio richiama l’uomo alle
sue responsabilità. Se la peste semina morte tra gli uomini è per riportarli
sulla retta via. Non è semplicemente una terribile malattia quanto un giusto
castigo, un segno della provvidenza che spetta agli uomini riconoscere e
accettare al fine di redimere i propri peccati. In questa prima predica la
violenza della peste acquista un significato teologico rivelando da una parte
la natura spietata della giustizia divina e, dall’altra, quella
irrimediabilmente peccaminosa dell’uomo. Il principio che è alla base della sua
interpretazione è quello di una concezione rigidamente proporzionale e retributiva
della giustizia di Dio: più l’uomo è cattivo e più severa è la sua punizione.
Ma se fosse come il prete ha raccontato al suo popolo terrorizzato non dovrebbe
esistere il dolore e la morte dell’innocente. Solo il malvagio dovrebbe
assaggiare la frusta di Dio, solo il colpevole dovrebbe essere sanato
attraverso la sofferenza. Ma i conti chiaramente non tornano. È lo scandalo che
s’incarna nel grido di Giobbe: perché il giusto è colpito nonostante la sua
santità? Perché non c’è alcun rapporto tra il bene fatto e il male subito?
Perché anche il giusto e l’innocente possono cadere sotto i colpi del male? Tra
la prima e la seconda predica la peste ha falcidiato la popolazione senza
distinguere tra giusti e colpevoli. La sua furia maligna ha colpito ciecamente,
senza distinzioni. Ma tra la prima e la seconda predica il Padre ha visto
morire tra le sue braccia, in una lenta e straziante agonia, un bambino. Questa
esperienza ha demolito traumaticamente la teologia della maledizione che aveva
ispirato la prima predica: Dio non può volere la morte di chi non ha colpe, il
dispositivo della giustizia retributiva che proporziona la punizione al male
commesso viene bruscamente demolito dalla tragedia del dolore e della morte
dell’innocente. Per la seconda volta il Padre convoca il suo popolo prendendo
la parola «in un giorno di gran vento» e in una chiesa «fredda e silenziosa».
La morte ha decimato la popolazione, la gente teme di uscire di casa vivendo
impaurita e confinata nel chiuso delle proprie abitazioni. La voce del prete
appare «più dolce e riflessiva», le sue parole non hanno più alcun tono di
rimprovero; non dice più «voi» ma «noi». Il suo ragionamento sovverte uno ad
uno i principi teologici che avevano ispirato la sua prima predica: non è vero
che la peste ha un significato morale, non è vero che in essa si manifesta la
volontà di Dio, non è vero che è la sua punizione inflitta agli uomini per i
loro peccati, non è vero che è un segno della provvidenza. La sola cosa vera è
che la peste è un male “inaccettabile” che porta la morte ovunque e che la
nostra ragione non è in grado di spiegare perché la sua violenza sé stessa
inesplicabile, illeggibile, senza ragione. Mentre allora nella prima predica
l’accento cade su Dio e sulla giustificazione teologica della peste, ora invece
cade sull’uomo: se non possiamo spiegare l’evento assurdo e inaccettabile della
peste c’è almeno qualcosa che possiamo imparare e che possiamo fare di fronte
al trauma senza senso del male, del dolore e della morte? Al piano astrattamente
teologico della prima predica subentra quello etico della seconda, al piano
della maledizione quello della cura. Questo male ci rende responsabili in modo
profondamente differente da come la responsabilità dell’uomo veniva descritta
nella prima predica. In quel caso era la responsabilità di aver compiuto il
male e di avere conseguentemente scatenato la violenza di Dio. Ma nella seconda
predica Dio si è allontanato dall’uomo lasciandolo solo di fronte al carattere
spietato non della sua giustizia, ma della sofferenza in quanto tale. Dunque,
cosa fare? È qui che le parole del Padre illuminano il presupposto di ogni
esperienza umana della cura. Egli racconta come durante la grande pestilenza di
Marsiglia degli ottantuno religiosi presenti nel convento della Mercy solo
quattro sopravvissero alla peste. E di questi quattro tre fuggirono per salvare
la loro vita. Ma almeno uno fu capace di restare. È questa l’ultima parola che
il padre consegna ai suoi fedeli: essere tra quelli che sanno restare. Saper
restare è effettivamente il nome primo di ogni pratica di cura. Significa
rispondere all’appello di chi è caduto. In termini biblici è ciò che illumina
la parola «Eccomi!» che rende umana la cura umana non abbandonando nessuno alla
violenza inaccettabile del male. Non dando senso al male ma restando accanto a
chi ne è colpito.
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