Generazioni a confronto al tempo della “peste”.
1- Tratto da «Noi "senior", fanti esposti in prima linea»
di Bernardo Valli, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 25 di ottobre: Da
quando l’inquietudine nella metropoli è cresciuta, la mia siepe di capelli
bianchi suscita reazioni insolite. Più marcate. Nelle vetture del metrò che mi
capita di frequentare (sulle linee Montmartre-Opéra-Montparnasse) mi viene
ceduto il posto con maggior frequenza. Di solito non ci facevo caso. Rifiutavo.
Orgoglio? No, mi sembrava che nella ressa fosse meglio stare in piedi. Ma forse
la troppa attenzione dedicata alla mia età mi infastidiva, anche se era dovuta
a un naturale riguardo. Respingevo l’offerta persino nelle ore di calca,
schiacciato come una sardina tra parigini, bretoni, magrebini e senegalesi.
Coloro che volevano cedere il posto ai miei capelli bianchi sono aumentati in
modo sorprendente. Ed è accaduto con l’epidemia del coronavirus. Le vittime più
numerose di questa sinistra sorpresa del Ventunesimo secolo sono gli individui
di entrambi i sessi adesso chiamati nelle nostre società anziani o persone di
età avanzata o senior, o con altre espressioni garbate, invece di “vecchi” come
un tempo, vocabolo asciutto che può suonare impietoso. Quella dei senior è la
parte più vulnerabile dell’umanità. E quindi, questa è la mia impressione, il
trattamento che le è riservato (di cui usufruisco) è al tempo stesso rispettoso
e a volte inconsciamente pietoso. La convinzione di molti, non del tutto
infondata, è che si tratti di una specie ormai fuori gioco, non più rivale o
concorrente o complice d’avventure, alla quale si debbano dedicare riguardi
adeguati, negli affari o nella complicità privata, che può essere amicizia.
L’attenzione prestata ai senior è spesso dettata dal senso di superiorità o
dalla generosità, o naturalmente dall’affetto. Non dimentico la solidarietà
laica (le pensioni sono cosa recente), e naturalmente il rispetto formale,
comandamento dell’educazione del cittadino. I tempi dei beneficiari sono corti
e gli agguati alla loro salute sono tanti. Sui senior non si può contare a
lungo. La vecchiaia sfugge alla nostra volontà: la si subisce con stati d’animo
diversi; si tratta di riconoscere, ha detto un filosofo, che «è quel che
accade». È pazienza. L’epidemia rispolvera concetti dimenticati. Nelle nostre
società si dedicava sempre meno spazio al pensiero di fin di vita. Le
distrazioni, gli interessi seri o ameni, i sempre più intensi ritmi di vita, lo
occupavano. Quasi lo cancellavano. Quasi si dimenticava la morte. Nelle
metropoli, per non intralciare il traffico, i funerali si dirigono verso i
cimiteri di primo mattino, quando le strade sono deserte. Con l’eccezione di
quelli ufficiali, avvengono con discrezione, sono convogli clandestini. Ora
l’epidemia obbliga a cortei funebri notturni senza seguito, per timore di
contagio. Il loro passaggio, oltre a turbare la circolazione, renderebbe ancora
più fragili i cittadini più sensibili, già investiti dalle continue
informazioni sull’epidemia. Più di due millenni fa, guardando i muri sgretolati
della sua villa e i rami secchi dei platani del giardino, Seneca vi scorgeva
un’immagine della vecchiaia che incombeva sul suo corpo e se ne rallegrava pensando
che l’età senile lo avrebbe liberato dalle passioni. Fu poi costretto al
suicidio. Vi fu obbligato per motivi politici, ma si può vedere nel suo
suicidio imposto anche un esempio estremo di come la rara felicità che
accompagna la vecchiaia può essere stroncata. La cicuta ha preso altri nomi.
Gli anziani, quelli di tarda età, i senior, rappresentano in questa inquietante
stagione una fanteria esposta in prima linea davanti a un nemico da evitare per
farla franca, non avendo ancora le armi per renderlo innocuo. La vecchiaia
sfugge alla nostra volontà, nonostante i rimedi che hanno allungato la vita.
Può presentarsi con l’immagine del vegliardo glorioso che offriva il gagliardo,
più che ottantenne, Victor Hugo, oppure con quella sofferente, degradata di
François-René Chateaubriand, altrettanto ottantenne. La diversa vecchiaia dei
due scrittori non era dovuta ai più o meno grandi successi, alla fama. O al
denaro. La filosofa Corine Pelluchon ha scritto parole che restano sagge anche
oggi con l’epidemia. L’esistenza conserva, dice, il suo valore fino a che si
accorda con quella degli altri, attraverso l’amicizia, l’indignazione, l’amore,
la compassione... E non perde di vista le illusioni che pensava perdute, non
lasciando che l’ardore vitale raffreddato si spenga. Me ne rendo conto.
Generazioni a confronto al tempo della “peste”.
2- Tratto da “Nonni contro nipoti, le
generazioni divise dalla pandemia” di Michele Serra, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” di oggi martedì 27 di ottobre: (…). Vecchiaia e giovinezza hanno
necessità differenti, e di conseguenza costumi difformi. La clausura pesa meno
a chi ha già potuto vivere i suoi anni promiscui, già sperimentato i suoi
eccessi, già compiuto i suoi bagordi. Mentre chi si affaccia alla vita ha urgenza
di viverla, impazienza di consumarla. E dunque sì, la frenesia dei giovani non
si concilia con l’incolumità dei vecchi, e non per malvagità o per distrazione,
ma perché la vita ha un’inerzia invincibile, spesso sorda e cieca. E questa
inerzia, in tempi di contagio, è tutta a svantaggio dei vecchi e della loro
fragilità. Ma questo, come dire, è la parte inevitabile (una delle tante parti
inevitabili) della catastrofe chiamata Covid. Evitabile, magari, è che su
quella zattera tutto sommato ancora solida e quasi confortevole che è la
società contemporanea (con le ambulanze, gli ospedali, la ricerca medica, i
vaccini e tutto il resto) ci si accapigli e ci si azzanni come i naufraghi del
Medusa. Di un sindacato dei vecchi, e di un sindacato dei giovani, non abbiamo
proprio bisogno. (…). Sabato 19 settembre passai, di sera tardi, in piazza
delle Erbe a Verona, che era gremita di migliaia di ragazzi, molti senza
mascherina, tutti col bicchiere in mano. Già si contavano, precisi come
sentenze, i primi numeri nefasti, il contagio stava risalendo giorno dopo
giorno. Già si sapeva tutto, dunque, a meno di essere un negazionista, dunque
un ebete o un farabutto. Una parte di me augurò a quei ragazzi che lo spritz
gli andasse di traverso, perché era evidente la loro incoscienza, evidente che
quel gregge non solo non era incolume: era a disposizione del virus. Era il
banchetto del demonio, per dirla come la direbbe un virologo di Radio Maria. Ma
un’altra parte di me ha pensato che quell’adunata, e altre consimili, era
arginabile solo fino a un certo punto. Cioè non più di tanto. Faceva parte,
quell’adunata, della natura, proprio come il coronavirus.
Era stata allestita
dagli ormoni maschili e femminili, che a quell’età sono incoercibili. Anche
dall’egoismo, certo, che a quell’età è incoercibile. E dunque, e insomma,
stabilii un compromesso tra il me disgustato (io, tra l’altro, la movida la
odio per davvero: puzza di Bisanzio prima della caduta) e il me comprensivo. Non
sto dicendo che va assolto chi se ne frega delle disposizioni e se ne va in
giro senza mascherina, e si intruppa, e si strofina. (Quella sera, in piazza
delle Erbe, avrei applaudito una carica dei carabinieri a cavallo). Sto dicendo
che non possiamo illuderci di ridurre a prudenza, a ragionevolezza, a legge e
ordine ciò che è anche natura, dunque disordine, anche se facciamo benissimo a
cercare di ridurre a prudenza, a ragionevolezza, a legge e ordine, ciò che è
natura, dunque disordine. Disordinata è la pandemia, l’enorme boccia che ha
travolto come birilli le nostre vite. Disordinate la malattia, la paura, la
morte, che taglia il conto dei giorni senza alcun riguardo per le nostre
agende. Ma la nostra quota d’ordine, di autodifesa, di dignità, di sicurezza,
non possiamo giocarcela sul tavolo del match vecchi/giovani. No, per carità. I
giovani sono stati bravissimi, nella clausura della scorsa primavera,
disciplinati e gentili, lo si dice in tutte le famiglie e lo si dice perché è
vero. I vecchi sono bravissimi anche da prima, sovvenzionando con le loro pensioni
e i loro risparmi i mojito e gli spritz (interminabili) dei loro nipoti.
Metterli gli uni contro gli altri non è solo sbagliato, è anche
controproducente. Se c’è una cosa che le catastrofi possono insegnarci, oltre
al fondamentale fatto che no, non siamo invulnerabili, è che bisogna cercare di
sopportarci, capirci, perfino volerci bene. I nipoti non sono depressi per
colpa dei nonni che li obbligano a restare a casa, sono depressi anche per loro
autonome mancanze, e debolezze, e indugi; i nonni non muoiono per colpa dei
nipoti che li contagiano, muoiono generalmente perché da vecchi capita più
facilmente di morire. I rispettivi portavoce (comitati, sindacati, associazioni
a vario titolo indignate) cerchino di abbassare i toni, che il lutto chiede di
parlare a voce bassa.
"Voglio dirvi la differenza fra il lupo e l'uomo:nessuna,solo una, in vecchiaia...il lupo va nei boschi ad aspettare la fine da solo:l'uomo, più la sente venire, più cerca compagnia, anche se è noioso e gli è noiosa".(Riccardo Bacchelli). "Saper invecchiare è il capolavoro della sapienza e uno dei più difficili capitoli della grande arte del vivere".(Henri Amiel). "Un uomo non è vecchio finché è alla ricerca di qualcosa".(Jean Rostand). "Chi accumula libri, accumula desideri. E chi ha molti desideri è molto giovane, anche a ottant'anni".(Ugo Ojetti). "Dignità del vecchio è la sua canizie:e la vecchiaia è corona al suo capo, se accompagnata da bontà".(Niccolò Tommaseo).Grazie di questo post per le numerose verità che racchiude, tutte preziose fonti di riflessione. Ti auguro una giornata serena. Agnese A.
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