Ha scritto Roberto Saviano in “Non ci sono untori ma cittadini spaesati” pubblicato sul
settimanale “L’Espresso” del 23 di agosto ultimo: (…). …credevamo di aver trovato
l’untore nel cinese, nel runner, nel povero cristo solitario che passeggiava sulla
spiaggia, cacciato in malo modo da un elicottero munito di altoparlante. Solo
io scorgo il ridicolo in una donna o un uomo che prende aria, da solo, e che
viene redarguito niente meno che da un elicottero in volo solo per lui? Del
ridicolo e dell’antieconomico al tempo stesso? Ora spero che almeno su questo
punto siamo tutti d’accordo: non c’erano untori, ma piuttosto era l’economia
che non si poteva fermare. L’economia delle regioni più produttive d’Italia che
hanno deciso di salvare il Pil a scapito di “qualche” vita. Anche se tale
decisione non pare essere stata mai condivisa con la popolazione di quei
territori. Quegli “untori” dei quali parla Saviano
sono, sociologicamente parlando, i cosiddetti “margini” di una società
che sfrutta e che esclude ma che li ha abbondantemente utilizzati se non
sfruttati nel corso della prima fase della pandemia tuttora in corso. Ed a
proposito di quei “margini” delle società tutte, con qualsivoglia assetto
socio-economico abbiano in esse instaurato gli umani, indifferentemente dal
loro colore o coloritura, ne scrivevo sul terzo numero (Gennaio/Giugno
2011) della rivista semestrale “Il piede
e l’orma” (Pellegrini Editore) - numero allora volutamente dedicato ai
cosiddetti “Margini” socio-economici dei nostri progrediti alveari umani -
come presentazione di un mio “racconto breve”: «Dei “margini”. L’idea dei “margini” mi spinge a pensare, in
natura, a quelli dei lembi fogliari che hanno al riguardo una loro tassonomia e
che restano immutati. Frutto essi, quei “margini”,
del genotipo – ovvero de “il gene
egoista” come direbbe il famoso biologo inglese Richard Dawkins - che
modella e plasma per sempre – a meno di importanti interazioni ambientali – il
fenotipo di tutti gli esseri viventi. Ben diversa cosa i “margini” sociologici, che di continuo mutano, si rendono e sono
sempre frastagliati, contorti, incerti, sì da non aversi mai “margini” ben definiti, netti, lineari.
“I margini” sociologici
costituiscono, a mio parere, una “condizione”
ineliminabile nell’esistenza degli umani. È che gli stessi, “i margini” per l’appunto, hanno una
loro propria “fluttuazione”, un
avanzare ed un regredire, come l’eterno movimento della risacca, e nel tempo
avanzano ed indietreggiano e diversamente si conformano in sintonia e/o in
conseguenza delle “condizioni materiali”
che le politiche sociali, i tempi e le vicissitudini della storia umana,
favoriscono e preparano. Il racconto breve ha uno sfondo storico, politico e
sociale che potrebbe aver fatto il suo tempo nelle ubertose contrade del bel
paese; quello dell’“emigrante” con
la sua classica valigia di cartone, stretta dallo spago robusto, che parte
dalla sua terra “avara” e “maligna” per vendere esclusivamente le
sue braccia, per un lavoro con bassi contenuti professionali e di
specializzazione, sul mercato delle braccia interno ed internazionale di
allora. La “marginalità” vissuta al
tempo del racconto si è intanto trasformata ed evoluta – o involuta - nella “marginalità” dell’oggi per la quale, a
causa e per effetto della globalizzazione soprattutto della finanza
speculativa, ha risucchiato nei suoi violenti gorghi ben altro tipo di
prestatori d’opera, oggigiorno di elevata istruzione e di vastissime
competenze, per i quali, a seguito della dissennata politica sociale messa in campo dalla “destra” illiberale
nel bel paese, ritrovano amaramente la loro terra d’origine “avara” e “maligna”, tanto da doverla abbandonare verso frontiere altre, con
diverse competenze e speranze sì, ma costretti a rivivere la condizione
d’essere come respinti e situati nei novelli “margini” ed “espulsi dalla comunità” d’origine, in
una condizione non nuova di “extra-comunitari”».
Scriveva
ancora Roberto Saviano ben dopo l’avvenuta “ripartenza” del bel paese, “ripartenza”
sotto alcuni aspetti improvvida considerate oggigiorno le nefaste conseguenze
che al momento fanno quasi presagire una forse inevitabile “rinchiusura”: Oggi,
dopo qualche giorno di tregua speso a seguire il caso di cronaca nera e il
gossip (che a quanto pare devono dominare le prime pagine estive), dopo aver
malamente archiviato, almeno nei discorsi pubblici, ciò che è accaduto alla
caserma dei carabinieri di Piacenza e all’interno del carcere di Torino, è
tornata la caccia agli untori che sono: 1) gli immigrati; 2) i ragazzi che frequentano
discoteche; 3) chi per le vacanze è andato all’estero. Non mi produrrò in
alcuna difesa di queste categorie perché già c’è chi le difende o le
criminalizza per racimolare una manciata di voti. Ma d’altro canto mi domando
come sia possibile dare risposte granitiche sull’origine dei nuovi contagi -
che ci sono e con i quali dobbiamo fare i conti - se non esiste ancora in
Italia alcuna mappatura della popolazione. Non sono stati fatti tamponi a
tappeto e, del resto, a leggere tra le righe, quando aumentano i tamponi
eseguiti, aumentano anche i contagi, a prescindere dalle categorie di individui
esaminati. Non vengono fatti i sierologici e le comunicazioni che la politica
fa sono confuse e fuorvianti. Dagli ospedali campani lamentano la scarsa
comprensione da parte delle persone dei comunicati diramati dalla Regione.
Turisti con i trolley sono andati in ospedale direttamente dall’aeroporto -
dicono - correndo il rischio di contagiare, se infetti, le persone in coda con
loro. Se il presidente De Luca annuncia che prevederà quarantena e (forse)
tamponi per chi viene dall’estero (da qualunque estero, così da surclassare
tutti i suoi colleghi governatori che hanno disposto tamponi e quarantena solo
per viaggiatori provenienti dai paesi dove il rischio contagio si è dimostrato
maggiore) e se quelle stesse persone, partite quando non c’erano restrizioni,
devono rientrare al lavoro perché se non lavorano non guadagnano, che
alternative hanno? Credo ben poche, e pretendere che la sanità pubblica
chiarisca subito le loro condizioni di salute senza bloccare in casa chi non
può permettersi di essere inattivo e quindi improduttivo, sia un diritto a
fronte di una politica che comunica troppo e spesso senza prima verificare le
effettive capacità del sistema sanitario. Ma dove tutto è determinato da
strategie elettorali, dove tutto è deciso dalla politica, è normale che a farne
le spese sia il cittadino comune. Come può un dirigente ospedaliero criticare
una comunicazione fatta da quegli stessi politici da cui la propria carriera
dipende? Più semplice e indolore prendersela con l’anonimo cittadino che, al
cospetto dell’inefficienza dello Stato, cerca la via più breve per poter
tornare al lavoro. Stiamo per affrontare una sfida difficile quanto quella che
ci siamo lasciati alle spalle, forse addirittura più drammatica perché ora
sappiamo esattamente ciò che ci aspetta. Il mio invito alla politica è a
fidarsi delle persone, a rispettarle, per evitare che, in una fase tanto
delicata come questa, siano loro a perdere fiducia nelle direttive che devono
essere concordate a livello nazionale, che devono essere ragionevoli e
rispettose dei cittadini. E che, soprattutto, devono tenere conto delle reali
possibilità di azione, senza scadere in una eterna smargiassata.
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