A lato. "Obridos" (Portogallo, 2020), acquarello di Anna Fiore.
Correva con il cuore gonfio e gli occhi pure; sentiva le gambe venirgli
meno, eppure riusciva ancora a correre. Spesso alzava il braccio libero e con
la manica del cappotto asciugava le lacrime che come rivoli prima distinti, si
univano poi a gocciolare sotto il naso.
La valigia gli pesava, quella valigia
di cartone su cui i rappezzi erano chiazze notevoli; l’aveva legata con dello
spago per evitare che si potesse aprire. Avrebbe voluto fermarsi, poggiarla
sull’erba ancora umida, respirare quell’aria fresca, aspirare ancora il profumo
di quei campi meravigliosi, già vestiti a festa per la primavera. Eppure non si
fermava; si sarebbe messo a piangere più forte e poi non avrebbe trovato la
forza di proseguire. Non voleva vederla, non voleva soprattutto vedere che
piangeva dalla finestra, con la testa candida, nel suo vestito nero che mai
aveva tolto. Tante volte l’aveva vista piangere; quando il papà li aveva
lasciati e quando lui si era ammalato di quella brutta malattia. Aveva tanto
sofferto e questo era ancora un altro dei momenti dolorosi della sua vita. La
vedeva comunque; era sempre alla finestra con il braccio alzato in atto di
saluto e benedizione. Andava via da lei, da quella casa odorosa e silenziosa e
da quel paesetto che lo aveva visto nascere, crescere e andare sui campi a
lavorare con la gente del luogo. Percorreva quella strada che diritta porta al
casello ferroviario, una strada che aveva percorso con i compagni solo per
andare a vedere il treno che passava. Pensava che un giorno sarebbe ritornato,
a riabbracciare la mamma, a portarla via con sé o magari, per rimanere sempre
in quel posto, che per lui era il più bello del mondo. Magari, con un po’ di
soldi fatti lassù, avrebbe comprato un pezzo di terra, vi avrebbe fatto una
casa nuova per la mamma e per la sposa. Ma ora bisognava andare via, con un
dolore immenso ed una grande paura; di non poterla più rivedere. Camminava ora
più lentamente, come per prendere ancora tempo e per fermare lo sguardo ancora
su quei posti, su quegli alberi già carichi, sui rovi spinosi, sulle case
annerite. Sapeva che lassù avrebbe desiderato tanto essere al suo paese,
parlare con gli amici, giocare all’osteria con loro e raccontarsi tante cose,
le cose che si raccontano e si credono proprio perché raccontate e sentite nel
paese, fra gente semplice ed onesta. D’estate, capitava spesso qualcuno che
veniva dalla città rumorosa a prendere un po’ di pace; il suo arrivo coincideva
con il periodo in cui per i campi vi era più lavoro. Ma alla sera, benché
fossero stanchi di una giornata passata duramente, si riunivano all’osteria,
perché lui, il cittadino, veniva a gustare un buon bicchiere di vino. E gli
occhi erano per lui e le orecchie pure; e raccontava e faceva vivere di cose che
a loro erano negate. Ed in lui i rumori della città, le miriadi di luci al
neon, il via vai della gente, formavano immagini magnifiche, anche se non aveva
mai visto nulla di simile. Il racconto poi, di tante avventure, animava in quei
poveretti sentimenti che nella campagna lasciano il posto alle cose belle e
sane della natura. Negozi, strade, viaggi e donne erano divenuti immagini vive
di un mondo lontano e tanto desiderato. Ma poi, partito il cittadino, restavano
tutti a raccontarsi ancora delle cose di cui erano rimasti più interessati e
scoprivano così un mondo più bello che essi non avevano la fortuna di abitare. Ma
ora andava via, aveva l’occasione di andare ad abitare quel mondo, ma gli
tormentava tanto di lasciare quello, che si svegliava pian piano, prima con un
fruscio di erbe alte, poi col canto degli uccelli e che si animava di uomini e
di animali che andavano al lavoro. Li vedeva tutti, le bestie innanzi e loro
dietro, con gli indumenti che erano stati a letto con loro, per sentire meno
freddo in quelle case basse, umide ed oscure. Le bestie fumavano per le narici
e gli uomini si scaldavano le mani con l’alito caldo. Li vedeva andare per i
campi illuminati dal primo sole, sparire lontano o dietro una curva a gomito di
quelle viuzze polverose. Passava accanto a loro, li salutava, ascoltava ancora
una volta la loro voce, le loro parole che fuggivano come il vento; li guardava
negli occhi per dire loro qualcosa, li superava poiché andava di fretta. Lasciava
dietro il rumore delle ruote dei carri sulle pietre, ma lasciava anche un mondo
che amava tanto. Lasciava tutto per ritrovarlo; la chiesa dove i ragazzi del
luogo, prima che i lavori dei campi li sottraessero precocemente ai loro svaghi
infantili, si riunivano per sentire il parroco, ma soprattutto per giocare con
i giochi che in questi luoghi si conoscono; l’orto della chiesa, dove non
visti, avevano tante volte sottratto alla vigilanza amorosa del prete, i frutti
più belli e saporosi; ma poi, lui almeno, quando si era trovato faccia a faccia
col prete, aveva confessato ed in cambio aveva quasi sempre ricevuto una
carezza, di quelle che i fanciulli di campagna, unici al mondo, non ricevono
mai. Ed il muro di pietre, di fianco alla chiesa, dove la domenica sedeva con
gli altri a raccontarsi sempre le solite cose ed a vedere uscire dalla messa
gli altri del paese; quante volte su quelle pietre si era strappato il fondo
dei pantaloni, già tante volte rappezzati, e quante lucertole aveva acchiappato
fra quelle pietre, dopo che le aveva viste spuntare per prendere anch’esse un
po’ di sole! Pensava ora quando in quella chiesa avevano fatto il funerale per
il papà, con tanta gente semplice e buona, nei loro semplici vestiti di tutti i
giorni e li aveva abbracciati tutti, mentre piangeva, e si era sentito in quel
giorno un po’ meno solo, ora che tutti andavano per il suo papà; e la mamma
piangeva forte, anche durante la messa, ed era stato abbracciato a lei e poi le
comari avevano dovuto accompagnarla a casa, mentre lui lo avevano portato in
un’altra casa dove gli avevano dato del vino e del pane. Il suo povero papà non
aveva mai lasciato quel posto se non per fare la guerra, una guerra che non
voleva e che non sapeva perché si dovesse fare. Poi era tornato a coltivare il
suo campiello, a mettere su famiglia; li aveva lasciati che lui era ancora
piccolo, che ancora sul suo viso mancava quella peluria che prelude, più che
alla barba, ad un deciso passaggio nell’età. Voleva bene al suo papà, perché
sapeva fare tante altre cose oltre al lavoro nei campi ed anche perché alla
sera, sfinito dal lavoro, non andava all’osteria a bere ma restava con loro a
fumare ed a suonare l’organetto. Li aveva lasciati senza dir nulla, perché
quando si muore d’improvviso non si ha il tempo di dire nulla. Ora camminava
più velocemente, sentiva che la valigia pesava molto di più; andava alla
stazione a prendere il treno, che lo avrebbe portato lassù, lontano dalla sua
casa, a lavorare, lontano dai suoi campi. Andava alla stazione a prendere un
treno lungo e nero, su cui non era mai stato, ma che prima avrebbe voluto
almeno una volta provare. Ma ora no, non voleva vederlo, sperava anzi che esso
non arrivasse affatto, così sarebbe tornato indietro dalla mamma, nella sua
casa, a mangiare le buone cose della sua terra. Ora avrebbe svoltato, avrebbe
iniziato a scendere per una via polverosa, che si fa’ solo a piedi tanto è
stretta e tortuosa; dopo non avrebbe più visto le case, la chiese, il suo
mondo. Rallentò ancora, volle poggiare la valigia per terra, per riposare la
mano; si voltò e vide ancora quelle case, ma non le distinse bene perché
piangeva. Si asciugò ancora con la manica, si soffiò il naso, continuò a
guardare e a piangere; raccolse una pietra, la guardò, la baciò come se fosse
stata tutt’altra cosa, poi riprese la valigia e svoltò. Una cosa avrebbe voluto
dire e non la disse, poiché sarebbe stato più forte ancora: “Addio mamma”, poiché
sapeva che non l’avrebbe più rivista.
Il mio “racconto breve” “L’emigrante” (1967) è stato pubblicato
con il titolo “Sfuggire ai margini” sul terzo numero – Gennaio/Giugno 2011 -
della rivista semestrale “Il piede e
l’orma” (Pellegrini Editore). Scrivevo nella “presentazione” di quel
“racconto breve”: Dei “margini”. L’idea
dei “margini” mi spinge a pensare, in natura, a quelli dei lembi fogliari che
hanno al riguardo una loro tassonomia e che restano immutati. Frutto essi, quei
“margini”, del genotipo – ovvero del “gene egoista” come direbbe il famoso
biologo inglese Richard Dawkins - che modella e plasma per sempre – a meno di
importanti interazioni ambientali – il fenotipo di tutti gli esseri viventi.
Ben diversa cosa i “margini” sociologici, che di continuo mutano, si rendono e
sono sempre frastagliati, contorti, incerti, sì da non aversi mai “margini” ben
definiti, netti, lineari. “I margini” sociologici costituiscono, a mio parere,
una “condizione” ineliminabile nell’esistenza degli umani. È che gli stessi, “i
margini” per l’appunto, hanno una loro propria “fluttuazione”, un avanzare ed
un regredire, come l’eterno movimento della risacca, e nel tempo avanzano ed
indietreggiano e diversamente si conformano in sintonia e/o in conseguenza
delle “condizioni materiali” che le politiche sociali, i tempi e le
vicissitudini della storia umana, favoriscono e preparano. Il racconto breve
“L’emigrante” ha uno sfondo storico, politico e sociale che potrebbe aver fatto
il suo tempo nelle ubertose contrade del bel paese; quello dell’“emigrante” con
la sua classica valigia di cartone, stretta dallo spago robusto, che parte
dalla sua terra “avara” e “maligna” per vendere esclusivamente le sue braccia,
per un lavoro con bassi contenuti professionali e di specializzazione, sul
mercato delle braccia interno ed internazionale di allora. La “marginalità”
vissuta al tempo del racconto si è intanto trasformata ed evoluta – o involuta
- nella “marginalità” dell’oggi per la quale, a causa e per effetto della
globalizzazione soprattutto della finanza speculativa, ha risucchiato nei suoi
violenti gorghi ben altro tipo di prestatori d’opera, oggigiorno di elevata
istruzione e di vastissime competenze, per i quali, a seguito della dissennata
politica sociale messa in campo dalla
“destra” illiberale nel bel paese, ritrovano amaramente la loro terra d’origine
“avara” e “maligna”, tanto da doverla abbandonare verso frontiere altre, con
diverse competenze e speranze sì, ma costretti a rivivere la condizione
d’essere come respinti e situati nei novelli “margini” ed “espulsi dalla comunità” d’origine, in una
condizione non nuova di “extra-comunitari".
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