Tratto da “La
mia vita di amori e guerre”, intervista con Woody Allen di Riccardo
Staglianò pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di agosto
dell’anno 2019: (…). "È una delle cose tristi della vita. Le relazioni tra uomini
e donne hanno un'accordatura molto fine e delicata. Se nel suo organismo manca
anche un piccolo elemento, tipo lo zinco o il ferro, può avere anche tutti gli
altri ma quella singola mancanza alla fine la può uccidere. Lo stesso avviene
nelle relazioni. Devi avere tutto, altrimenti falliscono. O continuano tra
troppi conflitti".
Restando nella metafora, magari può aiutare qualche integratore? "Certo, c'è chi prova con la terapia di coppia, chi con lo yoga, a volte funziona ma non troppo spesso. Le cose che ti fanno star bene, avere una barca o guardare il baseball o fare una passeggiata in montagna, sono quelle che aspetti con trepidazione. Se invece stare insieme diventa un lavoro - molta gente dice della propria relazione "bisogna lavorarci" -, un'incombenza, allora non è più divertente. Le relazioni dipendono moltissimo dalla fortuna.
(…). Io mi sono sposato per la prima volta a vent'anni. Era una ragazza molto carina ed è stata una svolta importante perché il matrimonio ci ha costretto a uscire dalla casa dei genitori, trasferirci a Manhattan e cominciare a lavorare e guadagnare. Siamo stati sposati per qualche anno e poi ci siamo allontanati, naturalmente. Ma siamo ancora amici adesso che lei ha ottant'anni".
Restando nella metafora, magari può aiutare qualche integratore? "Certo, c'è chi prova con la terapia di coppia, chi con lo yoga, a volte funziona ma non troppo spesso. Le cose che ti fanno star bene, avere una barca o guardare il baseball o fare una passeggiata in montagna, sono quelle che aspetti con trepidazione. Se invece stare insieme diventa un lavoro - molta gente dice della propria relazione "bisogna lavorarci" -, un'incombenza, allora non è più divertente. Le relazioni dipendono moltissimo dalla fortuna.
(…). Io mi sono sposato per la prima volta a vent'anni. Era una ragazza molto carina ed è stata una svolta importante perché il matrimonio ci ha costretto a uscire dalla casa dei genitori, trasferirci a Manhattan e cominciare a lavorare e guadagnare. Siamo stati sposati per qualche anno e poi ci siamo allontanati, naturalmente. Ma siamo ancora amici adesso che lei ha ottant'anni".
Cosa ha imparato da allora? "Mah, che è
essenzialmente fortuna. Poi, ovvio, devi imparare come si litiga e fare un
passo indietro affinché le abitudini seccanti dell'altra persona non ti
feriscano troppo. Imparare la tolleranza. Ma il grosso lo fa la fortuna
dell'incontro".
(…). Ho letto che lei era talmente
insoddisfatto di Manhattan, il capolavoro di cui ora si festeggia il
quarantennale, che non voleva che United Artists lo distribuisse. Com'è
possibile? "Non c'è alcuna correlazione tra gusti del pubblico e
dell'autore. Quando finisco un film il più delle volte lo trovo deludente
rispetto a come l'avevo scritto. Vedo un sacco di errori. Nel caso di Manhattan
mi sembrava eccessivamente predicatorio, didascalico, avevo spiegato e detto
troppo. Il messaggio del film non si deve mai trovare in bocca a un
personaggio. Altre volte invece faccio un film, come Hollywood Ending, che a me
piaceva molto e non è piaciuto quasi a nessuno. Raramente, come in Match Point,
trovo invece che è venuto esattamente come doveva venire. La verità è che
quando scrivi è tutto perfetto ma poi, come dice il mio amico Marshall
Brickman, "ogni giorno sul set arriva un camion pieno di nuovi
compromessi". Vorresti 200 comparse ma hai i soldi solo per 50 e così
via".
Gatsby (protagonista del film “Un
giorno di pioggia a New York” nelle sale dal 10 di ottobre dell’anno 2019 n.d.r.),
seppur molto giovane, va dallo psicoanalista. Pensa ancora che salvi la vita? "Io
ci sono sempre andato. Per me funziona, certo meno di quanto uno desidererebbe,
ma aiuta. Credo che se ognuno si fermasse per un'ora al giorno per parlare dei
suoi sentimenti più profondi senza inibizioni a un professionista che ascolta,
anche senza dire niente, col tempo comincerebbe a capire delle cose sul suo
conto. C'è gente che non si ferma mai a pensare a sé stessa".
A un certo punto fa dire a un personaggio
che tutti i giornali sono tabloid, affamati di gossip: lo crede anche lei? "No,
sono un grande fan dei giornali. Ho fatto un film che si intitola Scoop e
volevo fare prima il giornalista sportivo, poi mi ha affascinato la cronaca
nera. Ho sempre avuto un'idea epica del giornalismo, col cronista che scopre
qualcosa che alla fine salva il tipo dalla sedia elettrica. Penso che sia uno
dei pochi mestieri al tempo stesso drammatici ed eccitanti".
La battuta più amara del film è "Il
tempo vola. E vola in economy". Come si attrezza per la traversata? "Purtroppo
è la verità. Passa alla svelta per tutti, poveri o ricchi, ed è un viaggio
assai scomodo. Ciò però non ha cambiato la mia routine. Sul lavoro sono stato
molto fortunato ma esistenzialmente sono nella stessa barca di tutti, gli
sfortunati e quelli con molto più successo di me. Come ho mostrato una volta in
un film (Stardust Memories) siamo passeggeri di treni diversi ma tutti con la
stessa destinazione finale".
Ha qualche trucco per non pensarci? "Certo,
dal momento che non c'è niente che puoi fare, almeno bisogna provare a non
pensarci. Distrarsi. Qualcuno lo fa guardando il calcio, o aiutando gli altri,
o drogandosi ma alla fine proviamo tutti a nasconderci da una realtà molto
spiacevole, per evitare che ci paralizzi".
Ai tempi di Manhattan stilò una lista di
"ragioni per cui valeva la pena vivere". L'ha aggiornata da allora? "All'epoca
una spettatrice mi mandò una lettera per rimproverarmi di non aver incluso i
figli. Ma io non ne avevo ancora. Adesso non farei mai l'errore di non citare
le mie due figlie Manzie e Bechet".
Di quella lista non esiste più il ristorante
Elaine's. Perché era così speciale? "Ci ho cenato tutte le sere per dieci
anni, allo stesso tavolo. Fuori poteva esserci una tormenta di neve, magari era
mezzanotte ma dentro incontravi il sindaco di New York, i campioni del
basketball, Antonioni, Fellini o Simone de Beauvoir. Era incredibile! Un posto
unico, al contempo tranquillo e rilassato. Non ci sarà mai più niente del
genere".
Le abitudini sono il suo forte. A partire
dal font Windsor EF Elongated dei titoli dei film... "Certo! Quando ho
cominciato tutti spendevano un sacco di soldi per i titoli mentre io volevo
spenderne solo per il film. Quindi ho trovato quel carattere, che bastava per
tutto ciò che volevo dire. Coi soldi che risparmiavo ci potevo prendere dieci
comparse o due giorni di riprese in più".
Registi preferiti? Persone che la fanno
ridere? "Scorsese, sempre amato, o Francis Ford Coppola, ma anche Paul T.
Anderson. Sono i primi che mi vengono in mente. Quanto al ridere, buona
domanda. Lo scrittore S.J. Perelman mi fa ridere sonoramente: non devo
impegnarmi, l'onere del divertimento è tutto su di lui. Rido anche con vecchi
film, con W.C. Fields o Groucho Marx. Poi guardo il comico Mort Sahl, è un
genio che potrei stare a guardare tutto il giorno, ma non mi fa ridere a bocca
aperta come gli altri citati. Non conosco i comici contemporanei perché non
vado più nei locali. In tv, quando torno da cena alle 10 o alle 11, vedo giusto
un po' di baseball o i tg. E non guardo le serie. So che sono buone, perché
gente che rispetto mi dice "questa è magnifica", ma il mio stile di
vita non mi mette in contatto con loro".
In che modo il pubblico europeo è diverso da
quello americano? "Il vostro è più sofisticato. Quando noi guardavamo
stupidaggini con Doris Day voi avevate già a che fare con Fellini. Eravate più
adulti. Noi abbiamo sempre un piede nell'escapismo mentre voi fate film più
duri, conflittuali. Però, nonostante le dicerie, i miei film che vanno bene in
America tendono ad andar bene anche in Europa".
Qualche tempo fa Philip Roth, con mossa
piuttosto rara, annunciò che avrebbe smesso di scrivere perché sentiva di aver
dato il meglio. Mai sfiorato da tentazioni simili? "No, Roth era una
persona molto più profonda, intelligente e colta di me. Io farò film sin quando
qualcuno mi pagherà per farli".
E quando non lavora cosa fa? "Niente,
perché lavoro sempre. Ma diciamo che mi sveglio presto, faccio un po' di tapis
roulant, mi metto a scrivere a macchina (non ho un computer), pranzo con mia
moglie, lavoro un altro po', mi alleno al clarinetto e andiamo a cena fuori. È
una vita tranquilla dove non succede niente ma che a me va benissimo. Monotona
e bella. Scrivo sette giorni alla settimana. Sul letto. Mi diverte come altri
si divertono a pescare. L'anno prossimo uscirà una mia autobiografia (il #MeToo
aveva osteggiato anche quella). È tanto che non scrivo per il New Yorker perché
ormai non c'è più spazio: metà della pagina è presa dalle illustrazioni! E non
ci sono altri posti dove pubblicare scrittura comica. Oggi c'è molta più
politica".
A proposito, com'è per lei vivere
nell'America trumpiana? "Che posso dire? Significa Trump 24 ore al giorno,
7 giorni alla settimana. Io l'ho diretto in Celebrity, ma sono stremato dal
vederlo dappertutto. Mai vista una copertura analoga. È come uno tsunami di
pubblicità. Vorrei anche altre notizie, i risultati di baseball, le critiche
teatrali. Sul suo conto non c'è niente da dire che non sia già stato detto
migliaia di volte".
So che non vuole parlarne, ma non coglie una
discreta ironia nel fatto che l'aver fatto alle donne le cose che Trump ha
detto di aver fatto non gli abbiamo impedito di diventare presidente mentre lei
è vittima da anni di una campagna di riprovazione intensissima? "Colgo un
milione di ironie! Che posso dire? Ha a che fare con i meccanismi di ciò che
diventa notizia, che fa comprare i giornali o accendere la tv. E se sei un
personaggio pubblico devi abituarti. E comunque sono cose che vanno e vengono.
Ho sempre pensato che l'unica risposta sia alzarsi presto e sgobbare senza
sosta. Me lo ricordo da quando ho iniziato: non leggere le recensioni, non
credere quando scrivono che sei un genio o un idiota. Non pensare ai soldi ma
solo a lavorare bene. Così avrai abbastanza per campare, con un pubblico,
magari piccolo, e tutto il resto andrà a posto da solo. È il modo in cui ho
vissuto la mia vita. Sveglia presto, dopo quello stupidissimo tapis roulant -
lo odio! -, e mettersi sotto a scrivere. Non vado alle prime dei miei film, non
vado alle feste, vivo una vita tranquilla di solo lavoro".
Ma crede che, alla fine, la caccia alle
streghe finirà? "Tutte le cacce alle streghe finiscono prima o poi. Per
definizione non sono una buona cosa. Tendono a esaurirsi col tempo, si smorzano
fino a spegnersi".
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