A lato: "Worcester Cathedral" (2019), "acquarello" di Anna Fiore.
Tratto da “Siamo uomini o digitali?”, intervista di Enrico Franceschini allo scrittore Ian McEwan pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 31 di agosto dell’anno 2019:
(…). Lei era un "city boy", un ragazzo di città, anzi di una delle più grandi città della terra: come si sente in campagna? "In realtà sono cresciuto in Estremo Oriente e in Nord Africa, seguendo mio padre, militare di carriera, e poi a 12 anni i genitori mi hanno spedito in una boarding school del Suffolk, cui ha fatto seguito l'università nel Sussex, perciò fino alla laurea non avevo grande familiarità con Londra. Ma a quel punto mi ci sono trasferito ed è diventata la mia città, fino a sette anni or sono quando ho venduto la casa che avevo a Fitzrovia (il quartiere londinese di fianco vicino al British Museum, ndr) e sono venuto qui".
Era stanco di Londra? "Di Londra non ci
si può stancare, a meno di essere stanchi della vita stessa, come afferma la
celebre frase. Ma suppongo che il trasferimento sia stato un inconscio
preparativo per un ultimo atto, per una vita più contemplativa. Sebbene non in
solitudine: scopri che un sacco di gente è felice di venire a trovarti, se hai
una grande casa in campagna, inclusi figli e nipoti. Questi ultimi, in
particolare, ora che ho 71 anni diventano più importanti".
Scrive meglio, nella quiete e nel silenzio? "Non
ci sono le sirene di ambulanze, polizia e pompieri, che attraversano senza
sosta Londra. E non suona quasi mai il telefono. Ma questo non dipende da dove
vivi. Negli anni Settanta, il telefono suonava di continuo. Ora non più,
comunichiamo con email, messaggini e Whatsapp. Ritirarsi in campagna, del
resto, oggi non significa più isolarsi: internet ci tiene collegati no stop con
tutti e con tutto".
Le manca Londra? "Ci vado spesso, è a
un'ora e mezzo di treno e con mia moglie vi abbiamo tenuto un piccolo punto
d'appoggio. Il mio amore per Londra è immutato. Com'è noto, ho votato contro la
Brexit, e ritengo che Londra, pur con tutti i suoi problemi, sia uno dei
migliori esempi di diversità razziale sul pianeta, dove gente di ogni lingua,
cultura e religione convive relativamente bene".
Entrare nella casa di uno scrittore è sempre
interessante. Ma è anche un'intrusione. Provando ad abbattere il corrispettivo
della quarta parete televisiva, posso chiederle se le fa piacere accogliere un
giornalista? "Lo faccio molto raramente. E solo con i giornalisti del
continente. I giornali inglesi sono poco rispettosi della privacy".
Per restare in argomento, si annoia a
promuovere i suoi libri con interviste, presentazioni, dibattiti? "Se lo faccio troppo, comincio a
detestarmi. Scrivere libri e parlare dei libri che uno scrive sono due attività
contrastanti. Ma talvolta andare in giro a presentare libri e incontrare
lettori è divertente".
Era meglio nell'Ottocento, da questo punto
di vista? "Non necessariamente. Victor Hugo e Charles Dickens sono stati
probabilmente gli inventori del marketing della letteratura. Nel Novecento ci
fu una fase, in particolare per alcuni autori, in cui l'esposizione ai lettori
era vicina a zero: penso a T.S. Eliot, Samuel Beckett, James Joyce. Altri, come
Hemingway, non si sottraevano a una certa dose di pubblicità. Ma è innegabile
che festival e incontri letterari si siano moltiplicati. Il fenomeno ha duplici
conseguenze".
Una è che gli scrittori passano più tempo a
pubblicizzare i libri e meno a svolgere un ruolo pubblico? È in declino la
figura dell'intellettuale impegnato? "Ci sono scrittori che conducono una
vita molto ritirata e per conto mio devono essere liberi di farlo. Viceversa,
quando sono stato in Israele, tutti gli scrittori e gli intellettuali che ho
conosciuto non facevano altro che parlare del conflitto israeliano-palestinese:
anzi della "situazione", come lo definivano senza bisogno di
specificare. Ammiro Bernard Henri-Levy che è praticamente impegnato su ogni
causa da una vita. E in Gran Bretagna ci sono scrittori come Jonathan Coe, John
Lanchester, James Meek, un po' tutto il gruppo legato alla London Review of
Books, che conducono importanti campagne politiche. Io sono meno politicizzato,
non milito in alcun partito, non penso che uno scrittore debba sempre cercare
di incidere sulla realtà".
Sulla Brexit, tuttavia, una sua battuta
passerà alla storia: "Basta aspettare che i vecchi muoiano e un secondo
referendum avrà un risultato diverso dal primo". "Sa come mi è venuta
in mente? Mia moglie fa da sempre volontariato in un ospizio. Quando la Gran
Bretagna abbandonò il sistema imperiale per introdurre il sistema metrico
decimale, gli anziani ospiti si lamentavano con lei dicendo: "Non potevano
aspettare che morissimo, per cambiare sistema? Ecco, la Brexit è un'alleanza
inconsapevole tra anziani che volevano indietro il mondo di una volta e ceti
impoveriti dall'austerità. Nessuno è riuscito a convincerli, purtroppo, che è
stato il governo conservatore a impoverirli, non la Ue".
Se uno scrittore non incide sulla realtà,
può cercare di alterarla: come lei ha fatto in "Macchine come me". Lo
definirebbe un libro di fantascienza o fantapolitica? "Ammetto che il
titolo è ispirato da un libro di Asimov. E che, da giovane, i miei primi
romanzi flirtavano con la fantascienza. Ma non è un genere che prediligo. Il
motivo è che non amo fare previsioni. Mi pare un esercizio futile, perlomeno
per la narrativa: nella vita tutto è imprevedibile, figuriamoci il futuro
dell'umanità".
Allora ha preferito prevedere il passato. "Cosa
sarebbe accaduto se la Gran Bretagna avesse perso la guerra delle Falkland? Se
Margaret Thatcher fosse stata sconfitta dal laburista euroscettico Tony Benn
alle elezioni successive? E se ci fosse stato lui, nell'albergo dove l'Ira
organizzò un attentato? Ho immaginato tutto questo per dimostrare come il presente
che stiamo vivendo non sia l'unico possibile. E che le grandi svolte spesso
sono conseguenza di piccole coincidenze, non di una logica ineluttabile. Basta
cambiare un tassello e la Storia avrebbe preso un altro corso".
La variante del passato più importante del
romanzo, tuttavia, ha a che fare con la scienza, non con la politica. "Mi
ero occupato per un documentario di Alan Turing, il grande scienziato inglese
che decrittò il Codice Enigma dei nazisti dando un contributo decisivo alla
vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale e poi mise le basi
dell'informatica. Negli anni Cinquanta Turing prevedeva che entro breve avremmo
avuto macchine intelligenti. Invece non accadde. Turing fu processato per
omosessualità, che allora era un reato, condannato alla castrazione chimica e
si suicidò. Ebbene, nel mio romanzo non viene processato, non si toglie la
vita, crea il primo computer e nel 1982 l'Inghilterra ha i primi robot, le
prime macchine intelligenti del tutto simili a noi".
Se non fosse crollato l'Impero Romano, forse
l'Europa avrebbe avuto il Rinascimento nell'anno Mille e le macchine volanti di
Leonardo sarebbero diventate realtà nel Dodicesimo secolo... "C'è un'ampia
letteratura sulla Storia fatta con i "se". Che possono disegnare
anche scenari regressivi: uno tipico è "se Hitler fosse riuscito a
invadere il Regno Unito". Gli inglesi ne vanno pazzi".
Il robot al centro di "Macchine come
me" si chiama Adam: come il primo uomo della Bibbia. Ma pur essendo assai
più intelligente degli uomini, qualcosa lo differenzia. "In testa al libro
ho messo un'epigrafe di Kipling: gli uomini non sono fatti per distinguere la
verità dalla menzogna. Ovvero non sempre capiscono se la persona che hanno di
fronte racconta balle. Un robot potenzialmente sì. E questo potrebbe sembrare
un progresso. Ma come sarebbero le relazioni umane se tutti sapessimo, tutto il
tempo, cosa pensa la persona che abbiamo davanti? Credo che non resterebbe in
piedi alcun matrimonio".
Fellini sosteneva che sarebbe bello un mondo
in cui si può dire la verità a tutti senza fare del male a nessuno: poiché ciò
non è possibile, è necessario mentire. "Il mio non è un elogio della
menzogna. Ma ci sono menzogne che effettivamente si dicono a fin di bene:
capita a chiunque di avere un familiare o un amico gravemente malato, che non
vuole sapere che gli resta poco da vivere. E in assoluto non credo che un mondo
perfetto, in cui sappiamo tutto, sarebbe più felice di quello attuale, in cui
ci accontentiamo di cercare di capire, procedendo nel buio, fra sprazzi di
luce".
Il robot Adam afferma che, in un mondo
perfetto dominato dalle macchine, non ci sarebbe più bisogno di romanzi. "Lo
faccio dire a lui, ma non sono d'accordo: perché non credo che il mondo sia
davvero perfettibile. Dei romanzi ci sarà sempre bisogno, per aiutarci a capire
chi siamo. È vero però che molta poesia trae ispirazione dalla sofferenza. Per
tacere delle canzoni d'amore: nessuno ne ha mai scritte sui matrimoni
felici".
Come scrive Tolstoj nel famoso incipit di
"Anna Karenina" su tutte le famiglie felici che sono simili tra loro,
mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. "Anche se poi,
proprio in quel capolavoro, Tolstoj è l'unico scrittore che io conosca a
riuscire a descrivere per cento pagine un matrimonio felice e perfetto, senza
annoiare".
In conclusione, l'uomo non verrà sostituito
dalle macchine, secondo lei? "Chissà: Elon Musk sta già facendo
esperimenti per collegare un computer a topi e scimmie, forse un giorno si
potrà fare anche con gli esseri umani e con un clic del mouse scaricheremo in
un istante l'intero sapere universale nel nostro cervellino di uomini. Più
modestamente, con questo libro sottolineo che l'uomo si annoia in fretta di
ogni nuova invenzione. Già adesso non ci meravigliamo di parlare con Alexa di
Amazon per fare la spesa, un domani sbadiglieremo davanti al nostro assistente
robot".
Come il marziano a Roma di Ennio Flaiano,
che all'inizio sembra un Messia ma ben presto viene preso a pernacchie. "Kafka
dice la stessa cosa in uno splendido racconto in cui arriva un circo con un
uomo chiuso in gabbia che riesce a vivere senza mangiare: tutti sono curiosi di
vederlo, finché il circo non si procura una pantera e nessuno è più interessato
all'uomo che digiuna".
Il robot Adam ha bisogno di ricaricare le
batterie, dopo trent'anni. Ma il romanzo suggerisce che le macchine hanno un
vantaggio sugli umani: possono vivere per sempre. "Non nascondo che di
questo ho una certa invidia. Mi piacerebbe sapere come andrà a finire il
Ventunesimo secolo: scoprire se sopravvivremo alla minaccia del cambiamento
climatico e di una possibile guerra nucleare. È seccante pensare che un giorno
il mondo andrà avanti senza di me. Non pretenderei l'eterna giovinezza: mi
basterebbe l'eterna vecchiaia. Vorrei fermarmi così come sono e vivere almeno
altri diecimila anni. A 71 anni, in fondo, me la cavo ancora a tennis".
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