A lato: Catanzaro, il ponte Morandi.
Oggi sono due anni che il “ponte” di Genova è
crollato. Era giusto il 14 di agosto dell’anno 2018. A quel tempo si era
lontani dalla tragedia del “Covid19”.
Nella quale ultima tragedia siamo ancora immersi sino al collo. Da quell’altra tragedia, con gran sono di grancasse, sembra si sia definitivamente usciti. Usciti come? Usciti perché? Si vedrà. È che alla notizia del 14 di agosto dell’anno 2018 un brivido percorse il mio corpo, un tremito incessante sopravvenne a sentire di quell’ingegner Morandi progettista del “ponte” di Genova. La tragicità del fatto mi ha spinto in quell’occasione a pensare a tutti i ponti d’Italia che potrebbero rovinosamente crollare anche nell’immediato futuro. Quel brivido avvertito, quel tremito, erano da collegarsi a quel cognome che ha firmato il progetto per la realizzazione di un altro ponte ad una arcata che mantiene ancor oggi, dopo tanto tempo trascorso, il secondo posto di ponte più alto d’Europa: il viadotto “Fausto Bisantis”, realizzato nei primissimi anni sessanta nella mia “piccola città”. E come sempre avviene nelle cose del bel paese l’immane tragedia di Genova ha scatenato la solita invereconda italica canea, con uno scaricare le responsabilità (amministrative, operative, ché per quelle penali il tutto è demandato alla magistratura) che dopo due anni ancora si fatica ad attribuire senza riserve. Scriveva il 17 di agosto dell’anno 2018 Luca Bottura in “Genova ferita sono Stato io”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: Pochi minuti dopo il disastro di Genova, il leghista Alberto Bagnai, presidente della Commissione Finanze del Senato, twittava felice: «Austerità». Individuava cioè nei governi tecnici i colpevoli della strage, additandoli alla sua corte con la bava alla bocca. Sembrava solo la fuga in avanti di un estremista abituale, ma rappresentava l’antipasto del doppio binario che l’intera maggioranza avrebbe percorso a velocità crescente. Poco dopo, intervistato a Radio Rai, il ministro Toninelli faceva propria, orecchiandola, una teoria avanzata da uno studio ben più approfondito di Milena Gabanelli e individuava, tra i problemi, «i Tir polacchi sovraccarichi perché la loro cultura è diversa dalla nostra». Un fricandò giallobruno che partiva da un dato vero - manca, a tutti i livelli, un controllo delle strade e del territorio - identificando un responsabile altro da noi su base etnica. L’invasore. Pareva chiaro da subito come l’ossessione fosse quella di allontanare sospetti che nessuno dotato di senno poteva covare, ancorché - come sarebbe risultato poi - i grillini serbassero nell’armadio lo scheletro della Gronda autostradale che forse avrebbe allungato la vita al Ponte Morandi. E che combatterono in nome del loro tradizionale "no tutto", tipico di una democrazia condominiale basata su litigiosità e inerzia. Ma col passare delle ore la strategia si raffinava e da difensiva si spostava verso la ricerca del lucro. Ecco allora Salvini procedere dietro al corteo funebre gettando mortaretti sovranisti di bassa propaganda. Pretendere da Bruxelles, sempre a petto e mascella in fuori, poderosi sforamenti del deficit «per mettere in sicurezza le strade con un grandioso Piano Marshall». Ribaltando oltre confine le colpe di un Paese che ogni anno produce 180 miliardi di nero. Soldi che gli italiani (elettori) rubano ad altri italiani. Recuperando un decimo dei quali potremmo farle di platino, le autostrade. Ecco, soprattutto, Luigi Di Maio. Impegnato da una parte a respingere accuse inesistenti («Se volete dare la colpa al Movimento del ponte crollato…») e dall’altra a trasformarsi in magistratura inquirente contro i soliti nemici in nome comune: Autostrade per l’Italia (che certo non se la passa bene: ma devono dirlo i giudici) e, naturalmente, i " giornaloni" che le avrebbero protette perché foraggiati dalle medesime. Dovrebbe esserci un limite all’avvelenamento dei pozzi per scopi di becera speculazione, comodamente protetti dall’immunità parlamentare. Ma siccome l’ansia vendicativa del governo rischia di diventare una slavina, che già sparge la calce viva della bassa politica su decine di vittime, facciamo che ho trovato qualcuno a cui dare la colpa e lo immolerò per tacitare il giochino al massacro. Sono Stato io. Sono Stato io, che pago le tasse ma non metto le mani addosso a chi non lo fa. Sono Stato io, che con (almeno) quattro regioni nelle mani delle mafie non sono in piazza tutti i giorni a chiedere giustizia. Sono Stato io, che appartengo a un’area politica sospesa tra complessi di superiorità e rassegnazione ai "barbari" che arrivano. Sono Stato io, che ho assistito impotente alla mutazione di parte di quell’area politica nella parodia malriuscita della Casaleggio Associati. Sono Stato io, che tollero il crollo dei servizi per tutti perché qualcuno posso ancora pagarmelo in privato. Sono Stato io, che prendo la macchina anche per fare 100 metri e chiedo a gran voce più ferrovie. Sono Stato io, che d’istinto penso alle linee merci come soluzione, pure quella tra Torino e Lione, ma non mi arrischio a scriverlo per paura di finire nel mirino. È capitato persino a quel brav’uomo di Gian Carlo Caselli. Sono Stato io, che non ho il coraggio di mettere in relazione, per analizzare il baratro della nostra coscienza civile, le parole degli abitanti di San Luca ieri («La ’ndrangheta non è qui, è a Roma») con quelle di Grillo («La mafia non strangola, lo Stato sì») e di Di Maio («Nella terra dei fuochi lo Stato ha fatto più danni della camorra»). Sono Stato io, che ho camminato di fianco ai Robespierre perché di fronte c’era Berlusconi, e ho permesso loro di diventare giustizieri da palcoscenico nel nome di quelli che Berlusconi l’hanno sempre votato. E ora si sono scelti un altro omino forte. Pure questo spesso in mutande. Sono Stato io, che mi vergogno di essere rappresentato da certa gente, dalla loro micragna espressiva e intellettuale, dalla speculazione che mettono in atto anche di fronte a tragedie immani, dall’impreparazione patente e aggressiva che grondano da ogni poro, ma non ho la benché minima idea di come si possa uscire da questo sequestro emotivo cui il mio popolo si è consegnato festante. Sono Stato io. Adesso mettetevi a cercare chi è stato a Genova. Una volta tanto in silenzio, se vi riesce. Perché siete Stato anche voi.
Nella quale ultima tragedia siamo ancora immersi sino al collo. Da quell’altra tragedia, con gran sono di grancasse, sembra si sia definitivamente usciti. Usciti come? Usciti perché? Si vedrà. È che alla notizia del 14 di agosto dell’anno 2018 un brivido percorse il mio corpo, un tremito incessante sopravvenne a sentire di quell’ingegner Morandi progettista del “ponte” di Genova. La tragicità del fatto mi ha spinto in quell’occasione a pensare a tutti i ponti d’Italia che potrebbero rovinosamente crollare anche nell’immediato futuro. Quel brivido avvertito, quel tremito, erano da collegarsi a quel cognome che ha firmato il progetto per la realizzazione di un altro ponte ad una arcata che mantiene ancor oggi, dopo tanto tempo trascorso, il secondo posto di ponte più alto d’Europa: il viadotto “Fausto Bisantis”, realizzato nei primissimi anni sessanta nella mia “piccola città”. E come sempre avviene nelle cose del bel paese l’immane tragedia di Genova ha scatenato la solita invereconda italica canea, con uno scaricare le responsabilità (amministrative, operative, ché per quelle penali il tutto è demandato alla magistratura) che dopo due anni ancora si fatica ad attribuire senza riserve. Scriveva il 17 di agosto dell’anno 2018 Luca Bottura in “Genova ferita sono Stato io”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: Pochi minuti dopo il disastro di Genova, il leghista Alberto Bagnai, presidente della Commissione Finanze del Senato, twittava felice: «Austerità». Individuava cioè nei governi tecnici i colpevoli della strage, additandoli alla sua corte con la bava alla bocca. Sembrava solo la fuga in avanti di un estremista abituale, ma rappresentava l’antipasto del doppio binario che l’intera maggioranza avrebbe percorso a velocità crescente. Poco dopo, intervistato a Radio Rai, il ministro Toninelli faceva propria, orecchiandola, una teoria avanzata da uno studio ben più approfondito di Milena Gabanelli e individuava, tra i problemi, «i Tir polacchi sovraccarichi perché la loro cultura è diversa dalla nostra». Un fricandò giallobruno che partiva da un dato vero - manca, a tutti i livelli, un controllo delle strade e del territorio - identificando un responsabile altro da noi su base etnica. L’invasore. Pareva chiaro da subito come l’ossessione fosse quella di allontanare sospetti che nessuno dotato di senno poteva covare, ancorché - come sarebbe risultato poi - i grillini serbassero nell’armadio lo scheletro della Gronda autostradale che forse avrebbe allungato la vita al Ponte Morandi. E che combatterono in nome del loro tradizionale "no tutto", tipico di una democrazia condominiale basata su litigiosità e inerzia. Ma col passare delle ore la strategia si raffinava e da difensiva si spostava verso la ricerca del lucro. Ecco allora Salvini procedere dietro al corteo funebre gettando mortaretti sovranisti di bassa propaganda. Pretendere da Bruxelles, sempre a petto e mascella in fuori, poderosi sforamenti del deficit «per mettere in sicurezza le strade con un grandioso Piano Marshall». Ribaltando oltre confine le colpe di un Paese che ogni anno produce 180 miliardi di nero. Soldi che gli italiani (elettori) rubano ad altri italiani. Recuperando un decimo dei quali potremmo farle di platino, le autostrade. Ecco, soprattutto, Luigi Di Maio. Impegnato da una parte a respingere accuse inesistenti («Se volete dare la colpa al Movimento del ponte crollato…») e dall’altra a trasformarsi in magistratura inquirente contro i soliti nemici in nome comune: Autostrade per l’Italia (che certo non se la passa bene: ma devono dirlo i giudici) e, naturalmente, i " giornaloni" che le avrebbero protette perché foraggiati dalle medesime. Dovrebbe esserci un limite all’avvelenamento dei pozzi per scopi di becera speculazione, comodamente protetti dall’immunità parlamentare. Ma siccome l’ansia vendicativa del governo rischia di diventare una slavina, che già sparge la calce viva della bassa politica su decine di vittime, facciamo che ho trovato qualcuno a cui dare la colpa e lo immolerò per tacitare il giochino al massacro. Sono Stato io. Sono Stato io, che pago le tasse ma non metto le mani addosso a chi non lo fa. Sono Stato io, che con (almeno) quattro regioni nelle mani delle mafie non sono in piazza tutti i giorni a chiedere giustizia. Sono Stato io, che appartengo a un’area politica sospesa tra complessi di superiorità e rassegnazione ai "barbari" che arrivano. Sono Stato io, che ho assistito impotente alla mutazione di parte di quell’area politica nella parodia malriuscita della Casaleggio Associati. Sono Stato io, che tollero il crollo dei servizi per tutti perché qualcuno posso ancora pagarmelo in privato. Sono Stato io, che prendo la macchina anche per fare 100 metri e chiedo a gran voce più ferrovie. Sono Stato io, che d’istinto penso alle linee merci come soluzione, pure quella tra Torino e Lione, ma non mi arrischio a scriverlo per paura di finire nel mirino. È capitato persino a quel brav’uomo di Gian Carlo Caselli. Sono Stato io, che non ho il coraggio di mettere in relazione, per analizzare il baratro della nostra coscienza civile, le parole degli abitanti di San Luca ieri («La ’ndrangheta non è qui, è a Roma») con quelle di Grillo («La mafia non strangola, lo Stato sì») e di Di Maio («Nella terra dei fuochi lo Stato ha fatto più danni della camorra»). Sono Stato io, che ho camminato di fianco ai Robespierre perché di fronte c’era Berlusconi, e ho permesso loro di diventare giustizieri da palcoscenico nel nome di quelli che Berlusconi l’hanno sempre votato. E ora si sono scelti un altro omino forte. Pure questo spesso in mutande. Sono Stato io, che mi vergogno di essere rappresentato da certa gente, dalla loro micragna espressiva e intellettuale, dalla speculazione che mettono in atto anche di fronte a tragedie immani, dall’impreparazione patente e aggressiva che grondano da ogni poro, ma non ho la benché minima idea di come si possa uscire da questo sequestro emotivo cui il mio popolo si è consegnato festante. Sono Stato io. Adesso mettetevi a cercare chi è stato a Genova. Una volta tanto in silenzio, se vi riesce. Perché siete Stato anche voi.
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