Le cronache ferragostane stanno lì a dimostrare quali siano le linee guida della politica “de' noantri”.
Regioni, isole, città, assediate dalla pandemia che non demorde, rifiutano la chiusura delle “suburre” del collettivo dimenarsi ove non vige regola alcuna, né distanziamento sociale, né tantomeno la “protezione”, che non è tanto una “protezione” personale ma un di più, una “protezione” altamente sociale. Ma a chi frega al momento del sociale? Quelle regioni, quelle isole, quelle città stanno a difendere non più la pubblica salute ma il guadagno dei pochi, guadagno che ben poca cosa è al confronto dell’interesse pubblico per il bene primario che è la salute corporea. Scrive Gustavo Zagrebelsky in “La vita, prima di tutto” - su il quotidiano "la Repubblica" del 29 di maggio 2020 - che «la salute è “fondamentale diritto dell’individuo” ed è “interesse della collettività”. Se c’è un diritto ugualitario che riguarda tutti, indipendentemente dalle proprie differenze di reddito, cultura, posizione sociale, eccetera, questo è la salute che, nei casi estremi, si confonde col diritto alla vita». Sta tutto qui il grosso equivoco della politica: la difesa degli interessi dei pochi, dei pochissimi, dei potenziale supporter di una politica sgangherata, al cospetto di una recrudescenza che il miracolo della “chiusura” attuata nei mesi trascorsi era riuscito a realizzare contenendo esiti ben più catastrofici. Hanno scritto Bobbio–Viroli in “Dialogo intorno alla Repubblica” che “l’intransigenza non appartiene al carattere degli italiani. Gli intransigenti sono rari, un’élite. (…). Gli intransigenti sono quelle persone che sono disposte a sacrificare il proprio particolare per l’idea in cui credono. Da questo punto di vista Gobetti è stato un bell’esempio. Lo Stato italiano non lo è. (…). Intransigenza vuol dire anche non perdonare, non dimenticare con troppa leggerezza. La mancanza di intransigenza crea bambini viziati, non liberi cittadini. (…). Abbiamo dimenticato il vero significato di carità. (…). L’intransigenza è perfettamente coerente con la carità (…). La vera carità è una forza interiore che ti spinge a punire (e a premiare) secondo giustizia per il bene pubblico: né vendetta, né favore. (…). Noi dovremmo educare (…) all’idea che essere cittadino richiede anche una forza interiore che ti spinge ad esigere che la repubblica sia intransigente”. Essere “intransigenti” vuole dire porsi a difesa, senza “se e senza ma”, degli interessi “comuni” e non tanto a difesa di interessi risibili, a confronto della pubblica incolumità, interessi materiali dei pochi, anzi dei pochissimi. Mi sono sentito chiedere, in queste giornate afflitte da una calura soffocante, quale destino avrebbe il lavoro degli operatori dei lidi, delle pizzerie, delle “apericena”, delle “suburre” del pubblico dimenarsi e di quant’altro artificiosamente aiuti allo “sbracarsi” alla grande? Sfugge che il sano principio enunciato da Gustavo Zagrebelsky del “diritto ugualitario” è in fin dei conti la tutela soprattutto dei più deboli socialmente ed economicamente, che caduti nella morsa della pandemia avrebbero ben pochi santi protettori e ben misere risorse per sostenere l’impari lotta con la “peste” dell’anno 2020. Scrive Zagrebelsky che “non è vero, contro tante banalità di questo nostro periodo, che siamo ugualmente tutti sulla stessa barca: come sul Titanic, quelli nella stiva sono annegati quasi tutti, e quelli sui ponti superiori si sono salvati in molti”. Ed allora perché non indicare nella politica attendista attuata in questi giorni il responsabile primo ed unico di quel “diritto ugualitario” disatteso? Ha scritto ancora Gustavo Zagrebelsky: La salute è forse il termometro che più fedelmente registra le ingiustizie sociali. Per questo la Costituzione, consegnandoci un’idea di società giusta, proclama la salute – unico caso – non solo come diritto individuale, ma anche come interesse generale. (…). Il decennio 1970-1980, che ricordiamo come il tempo del terrorismo, dovremmo ricordarlo invece soprattutto come il tempo di grandi riforme legislative che hanno cambiato la vita di milioni di persone un tempo lasciate a sé stesse (lavoro, istruzione, famiglia). Ci fu allora un grande dibattito anche sulla salute come diritto ugualitario che portò all’ istituzione del Servizio sanitario nazionale. La salute non avrebbe dovuto più dipendere dalle condizioni economiche di ciascuno. Diventava uno dei compiti primari dello Stato e sarebbe stato finanziato con risorse alle quali ognuno di noi deve contribuire pagando imposte e tasse. Era lo “stato sociale” che avanzava e sembrava una conquista di civiltà alla quale non si sarebbe più rinunciato. Nei decenni successivi, invece, c’ è stata un’inversione nelle politiche pubbliche e ancor più profondamente, nella cultura e propaganda politica. Lo “stato sociale” è stato presentato come un ferrovecchio, un’utopia ingenua e dannosa. È diventato sinonimo di assistenzialismo e paternalismo che avrebbe addormentato la società. Non solo: era diventato un peso allo sviluppo. Le società più prospere sono quelle che lasciano i poveri, i vecchi, gli ammalati al loro destino. Per questo, se c’ è da ridurre la spesa pubblica, perché non iniziare da qui? Se poi si tratta di aumentarla, non se ne parli nemmeno. Ed è bene che sia così: prendersi cura è solo pietismo, diremmo “buonismo” dal quale ci si deve liberare. Ognuno è e dev’essere artefice del proprio destino; imputi a sé stesso le proprie disgrazie. Le risorse pubbliche devono essere indirizzate altrove, dove sono più produttive. Ai deboli la carità privata, se la trovano. Quante volte abbiamo sentito ripetere questi discorsi che prendevano a modello gli Stati ultra-liberisti, soprattutto anglosassoni, la cui ideologia – “né di destra, né di sinistra” ma semplicemente efficientistica – stava invadendo il mondo? Invece, erano discorsi vecchi. Era il darwinismo sociale che si riaffacciava prepotentemente: una dottrina che ebbe in Herbert Spencer, filosofo della fine dell’Ottocento, il suo profeta ed ebbe un enorme successo nell’influenzare la mentalità delle classi agiate del suo tempo. Era l’evoluzionismo esteso dalle forme delle specie viventi alla vita delle società, intese a loro volta come grandi organismi nei quali solo i più adatti sono destinati a sopravvivere e prevalere. Questa legge socio-biologica poteva avere, ed ebbe, connotati razzisti e fu assunta come prescrizione morale, politica e giuridica. Nessuna remora, nessuna pietà: per il bene dei migliori, che ce la fanno da sé, non possiamo permetterci di preoccuparci dei deboli, che soli non ce la fanno. L’idea dell’immunità “di gregge” in nome della quale da qualche parte ci si è dichiarati disposti a sacrificare diecine di migliaia di vite è precisamente il frutto della filosofia evoluzionista che domina in qualche parte del mondo. Lo Stato sociale è, precisamente, il rovesciamento di questa ideologia. È lo Stato che assume come suo compito prioritario la protezione della vita di tutti e, in primo luogo, di coloro che non ce la fanno da soli. È lo Stato che non dice: non ce lo possiamo permettere. Può infatti, sempre “permetterselo”, naturalmente nei limiti delle risorse, cercandole e, eventualmente, spostandole da capitoli di spesa meno importanti o forse superflui. Insomma, è una questione non di impossibilità ma di priorità. Tra le tante domande che ci poniamo oggi, quando un virus insidioso ha invaso il mondo, è se dopo saremo come prima. Domanda piuttosto sciocca, perché saremo o non saremo non secondo il virus, ma secondo ciò che vorremo essere e avremo imparato a non essere. Non spetterà ad altri che a noi la risposta; e sarà una risposta politica con quel tanto di inevitabilmente conflittuale tra interessi ceti sociali (in breve ricchi e poveri), che ogni politica implica? Sarà una lotta per l’uguaglianza (né di destra, né di sinistra?) in cui l’aspetto culturale avrà un’importanza decisiva. L’ ideologia che, sopra, ho identificato con il diritto dei più forti di prevalere sui più deboli ha un nucleo capace di cose terribili. Dopo tante tragedie di cui portiamo un ricordo bruciante o che sono nostre contemporanee ma non vogliamo vedere, dobbiamo identificare questo nucleo in questo: che non tutte le vite hanno il medesimo valore. Ci vergogniamo di ammetterlo e non lo diciamo, ma ci comportiamo tante volte proprio così. Per esempio, di fronte alle vite in pericolo che potremmo salvare e non lo facciamo perché sarebbero un peso per noi che, di fronte a loro, siamo i più forti, forse i più adatti a vivere “a casa nostra”. Oppure di fronte alle vite degli anziani che non sono più “produttive” e anzi sono costose e, chiedendo misure di previdenza, frenano lo slancio creativo dei giovani. È stato un momento di grave e tragico sbandamento culturale il fatto stesso che si sia pesato il valore delle vite, abbandonando gli anziani o richiudendoli in insediamenti “dedicati”, perché s’ infettassero tra loro. E non ha proprio avuto un significato il fatto che si sia discusso di quella pesa nel momento dell’insufficienza delle risorse sanitarie, dovendosi preferire qualcuno a qualcun altro? Scelte tragiche, ma ancor più tragico è che vi sia chi ha detto che alcune vite, quelle giovani, valgono più di quelle vecchie. E se il giovane è un ammalato cronico per altra causa, un tossicodipendente o un alcolista, un portatore di handicap, un inutile e il vecchio è invece un benefattore dell’umanità? Dove ci porterebbero queste valutazioni sul valore della vita? I medici si dovrebbero prestare? L’ unica cosa conforme alla loro etica non è la prognosi sulle possibilità di successo delle terapie in riferimento ai singoli ammalati? Vertiginosi dilemmi. Ritorniamo (…), alla Costituzione. Ci dice che la vita e la salute sono valori primari che valgono per tutti; che la vita d’ ogni essere umano ha la medesima dignità e non può essere pesata, cioè relativizzata chissà secondo quali parametri; che le spese destinate alla salute devono stare in cima alla lista e non in fondo come un residuo; che lo stato sociale non può sacrificarsi a nessun idolo produttivistico. Questa è la nostra cultura e questa è la politica per chi volesse assumerla come propria.
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