Tratto
da “Che disastro il capitalismo del
disastro”, intervista di Giuliano Battiston all’economista James Kenneth
Galbraith pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del 15 di agosto 2020:
(…). Professore, lei ha scritto che nelle pandemie ci sono tre fasi: l’emergenza, il contenimento e le conseguenze. Prima di affrontare quest’ultimo punto, come giudica il modo in cui il governo Usa ha gestito le prime due fasi? «Con incompetenza, arroganza, negazione della realtà. Sabotaggio della salute pubblica. C’è stato un ritardo enorme, colpevole, da metà gennaio circa a metà marzo. Anche da qui deriva l’alto numero di contagi e morti. Molte persone potrebbero essere ancora vive. Ora ci sono invece forti pressioni affinché si consideri conclusa positivamente la fase di contenimento. Le ragioni sono politiche: le elezioni si avvicinano e la gente deve tornare a pensare normalmente, le statistiche economiche devono restituire dati incoraggianti. Ma la realtà racconta una storia diversa, drammatica».
(…). Professore, lei ha scritto che nelle pandemie ci sono tre fasi: l’emergenza, il contenimento e le conseguenze. Prima di affrontare quest’ultimo punto, come giudica il modo in cui il governo Usa ha gestito le prime due fasi? «Con incompetenza, arroganza, negazione della realtà. Sabotaggio della salute pubblica. C’è stato un ritardo enorme, colpevole, da metà gennaio circa a metà marzo. Anche da qui deriva l’alto numero di contagi e morti. Molte persone potrebbero essere ancora vive. Ora ci sono invece forti pressioni affinché si consideri conclusa positivamente la fase di contenimento. Le ragioni sono politiche: le elezioni si avvicinano e la gente deve tornare a pensare normalmente, le statistiche economiche devono restituire dati incoraggianti. Ma la realtà racconta una storia diversa, drammatica».
Dal pacchetto miliardario di
“stimoli” approvato dal Congresso Usa al Recovery Fund della Ue, con il Covid
gli Stati hanno ricominciato a spendere. Per qualcuno, si tratta di inversioni
di rotta e cambiamenti nel pensiero economico. Lei che cosa ne pensa? «Bisogna
vedere come verranno spesi questi soldi. Il mio timore è che non si tratti di
un vero cambiamento di mentalità, ma della replica di quanto fatto nel 2008,
con l’obiettivo di salvare soprattutto le corporation e il settore finanziario.
Il guaio è proprio questo. Osservatori come Paul Krugman, Sebastian Mallaby e
Jason Furman continuano a pensare che siamo di fronte a uno shock
economico-finanziario come gli altri. E che vada affrontato, al solito, con uno
stimolo finanziario. Un’analogia medica ridicola: un organismo soffre, gli
viene iniettata una sostanza e l’organismo torna a vivere e correre nuovamente,
a “crescere”. Passa per una nozione keynesiana, ma è una tesi ridicola. E oggi
pericolosa».
Il “ritorno alla normalità” non ci
sarà? «Il futuro, almeno prossimo, non assomiglierà affatto al passato. Negli
Stati Uniti interi settori cruciali dell’economia, dalle linee aeree alle navi
da crociera, verranno fortemente ridimensionati, al di là degli aiuti che
riceveranno. Un esempio: siamo tra i primi produttori di aeroplani, una delle
industrie più importanti, con una lunga catena di fornitori. Oggi che le flotte
sono ancora in gran parte parcheggiate, chi comprerà i nuovi aeroplani? Lo
stesso per l’edilizia commerciale: se gli uffici rimangono vuoti, chi ne
comprerà o affitterà di nuovi? Ciò che la gente farà con i propri soldi sarà
diverso dal passato. I posti di lavoro persi non torneranno di punto in bianco,
così come i redditi andati perduti, che non verranno recuperati del tutto. Ci
sarà una profonda depressione economica. E questo vale anche per l’Italia».
Lei sostiene che la pandemia abbia
già archiviato il vecchio sistema e che la scelta sia netta: o sottomettersi al
capitalismo del disastro o rivendicare un cambiamento totale. Ma che cosa
intende per “capitalismo del disastro”? «Negli Stati Uniti gli investitori
privati predatori, che hanno fondi e capitali a disposizione, cercano di
accaparrarsi nuove proprietà e quegli asset il cui valore si riduce per la
pandemia; in ambito commerciale ci sono già sfratti e pignoramenti e potrebbero
esserci svendite generali in futuro. I grandi proprietari immobiliari replicano
la strategia del 2008-2009: trasformare i piccoli proprietari di case in
affittuari e gli affittuari in senza-casa. Durante la crisi finanziaria si è
provato a trasferire la responsabilità dalle banche ai cittadini che avevano
sottoscritto contratti fraudolenti, ma in questo caso non è possibile. La gente
è stata in casa come richiesto ed è sempre più consapevole che non tutti i
debiti vanno ripagati, che gli accordi possono essere rinegoziati. Vedo meno
accettazione e più resistenza. Rimane il fatto che ci sono 30 milioni di
disoccupati e che milioni di posti di lavoro non torneranno più, salari e
redditi sono spariti. Una catastrofe sociale».
Per fronteggiarla, lei non invoca
la “veloce ripresa” di cui parla Paul Krugman, ma un ripensamento dell’intero
sistema economico e sociale. Di cosa si tratta? «Occorre creare un nuovo
sistema. Non c’è alternativa a un modello cooperativo, di sostegno reciproco,
con uno Stato responsabile, capace di tenere a bada le spinte predatorie. Il
settore pubblico e non profit va mobilitato per assicurare posti di lavori e
reddito. Innanzitutto va affrontata la pandemia. Serve gente che studi e
monitori la situazione, che si prenda cura dei malati, che tracci i contagi. La
sanità pubblica per anni è stata negletta, smantellata: deve essere un bene
universale. Servono milioni di posti di lavoro nei servizi cruciali, nelle
forniture di cibo e prodotti essenziali. Poi c’è la necessità, legata ai
cambiamenti climatici, di modificare tutta la struttura di produzione,
trasformazione e consumo energetico. Se vogliamo evitare una catastrofe sociale
vanno mobilitate ingenti risorse pubbliche».
Ritiene che questo possa risolvere
la situazione e che lo Stato debba farsi “datore di lavoro di ultima istanza”? «La
garanzia del lavoro, l’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza
è al centro della proposta per un Green New Deal. Anziché lasciare i cittadini
disoccupati e dargli un contributo per la disoccupazione, si creano le
condizioni affinché chiunque lo voglia possa svolgere un lavoro socialmente
utile e retribuito secondo il minimo salariale. Lavori con i quali vengono
rafforzati beni comuni come salute, educazione, tutela dell’ambiente. Non si
tratta di sostituire del tutto i sussidi alla disoccupazione, ma di creare
un’alternativa realistica per milioni di persone. Una misura che beneficia
l’intero sistema economico e che ritengo preferibile al basic income, almeno
negli Stati Uniti, dove c’è una cultura più orientata al lavoro come attività
produttiva».
Dal 1996 al 2016 lei ha presieduto
l’associazione Economists for Peace and Security. Ritiene che la pandemia
modificherà l’idea di sicurezza, finora associata a quella militare e, nel caso
degli Usa, alla “proiezione” di potere all’estero? «La sicurezza va
interpretata in modo ampio, come sicurezza sociale ed economica, nel lavoro,
nella casa, nel cibo, nelle prospettive future di ogni cittadino e famiglia.
Abbiamo sempre ritenuto sbagliata l’idea, erede della fine della Guerra fredda,
che gli Usa siano l’unica superpotenza, garante dell’ordine mondiale, perché si
fonda su una premessa fallace: il potere militare come strumento per ottenere sicurezza.
Difficile prevedere cosa accadrà. Ci sono ancora dinamiche politiche e potenti
attori che spingono per l’avventurismo e per le spese militari. Per me, gran
parte della spesa militare andrebbe indirizzata a costruire le vere difese del
Paese: sanità pubblica, ospedali, lavoro e sicurezza economica e sociale per
tutti e una radicale riforma progressista della struttura dell’economia. La
pandemia ha dimostrato che abbiamo un’economia forse efficiente, ma
estremamente fragile e ingiusta. E ora si sta sgretolando di fronte ai nostri
occhi».
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