A lato. Fotogramma dal film "Novecento" di Bernardo Bertolucci.
Tratto da “A novant’anni resto sempre una comunista ribelle”, intervista di Antonio Gnoli a Luciana Castellina pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 3 di luglio dell’anno 2019:
(…). È appena tornata da un campeggio a Isola Capo Rizzuto. Sei infaticabile, le dico. «Se non lo fossi sarebbe la fine. Ho passato recentemente due mesi quasi immobile, per la frattura del bacino, credevo che a pezzi stesse andando tutta me stessa. Ma eccomi ancora qui, sotto il segno di una passione che non si è mai spenta».
Ti senti un esempio? «Di cosa?».
Di vitalità, anzitutto. «Effettivamente, è
raro che si arrivi alla mia età (91 anni il prossimo 9 di agosto n.d.r) con
questo slancio. Ma più che di vitalità parlerei di amore per la vita e per il
senso che ancora do alle cose importanti. Non è che mi sbatto a destra e a
manca per il puro piacere di muovermi».
Lo fai perché? «Vivo in un Paese che mi
piace sempre meno».
Non ti sento depressa. «Dovrei esserlo?».
Guarda la sinistra, sembra sotto un treno. «Si
piange addosso. Ha perso la stima di sé e del suo passato. I peggiori sono i
sessantottini, non fanno che lamentarsi».
Tu sei stata una parte importante del
Sessantotto. «Lascia stare cos’ero. E poi il Sessantotto fu un evento a suo
modo epocale. Ma non si vive di rendita. Le nuove generazioni se ne fottono di
quello che siamo stati».
Lo dici su quali basi? «Tutti gli anni vado
nel campeggio, organizzato dall’Arci, all’Isola di Capo Rizzuto. Lì trascorre
le vacanze un migliaio di giovani. Molti di loro sono nati tra il 2004 e il
2006. Non sono anime spente o smarrite. Sono ragazzi e ragazze che discutono,
sotto i pini, in un caldo infernale».
Parlando di cosa? «Di quello che gli sta
accadendo. Pochi principi generali, e molta concretezza. Hanno scoperto che la
politica non necessariamente è una cosa sporca. A volte sono confusi, ma non sono
dogmatici. Gli piace discutere, uscendo dal proprio individualismo. Sono una
minoranza, se la confronti con la situazione generale. Ma intanto battono un
colpo».
Ti riconosci in loro? «Anch’io sono stata
giovane e confusa. Ma forse noi scommettevamo su un futuro migliore».
Sei di origini triestine. «Sono nata a Roma.
Mia madre era triestina ed ebrea. Il suo matrimonio con Gino Castellina non
durò a lungo. Finì davanti alla Sacra Rota. Mio nonno, triestino anche lui, fu
amico di Oberdan. Mia madre si risposò e con il nuovo marito ci trasferimmo a
Verona. Tornai a Roma e frequentai il Tasso».
Qui conoscesti uno dei figli del duce. «La
figlia Anna Maria, che mi invitava a volte a Villa Torlonia. Anna Maria era
condannata dalla polio a portare il busto. Mi incuriosiva la sua intelligenza
sferzante, il suo sentirsi a un tempo privilegiata e derelitta. Quando il
fascismo cadde, ero ospite nella sua villa di Riccione. Delle guardie
interruppero una nostra partita a tennis e le dissero che doveva in tutta fretta
rientrare a Roma. La rividi per caso dopo la guerra. Conservava la sua verve ma
era come sperduta, in una città e in un mondo che non erano più i suoi».
Quando diventasti comunista? «Dovevo
scegliere “tra la via Emilia e il West”, tra i comunisti e il partito d’azione.
Questi ultimi mi sembravano seri ma noiosi, gli altri concreti e perfino
spigliati».
Tu scegliesti il Pci. «Fu fondamentale per
una ragazza che non aveva neppure 18 anni scoprire un mondo per lei
sconosciuto».
I famosi ideali. «Tu ci scherzi. Era gente
seria, con alcuni limiti, ma capace di guardare dentro e soprattutto fuori dal
partito. Chi non ha vissuto quell’esperienza non credo possa coglierne tutte le
sfumature».
Oltre al partito trovasti l’amore. «Non era
preventivato, ma accadde. Una storia con Alfredo Reichlin cominciata sui banchi
de L’Unità. Ci sposammo nel 1953 e ci separammo quattro o cinque anni dopo.
Tutto quello che è venuto successivamente, storie anche importanti, sono
accadute fuori dal vincolo matrimoniale».
Perché? «Si può stare bene senza che tu
debba sentirti condizionata da un’istituzione».
Tra le storie importanti c’è quella con
Lucio Magri. «Decisamente importante».
In un certo senso vi somigliavate. «Trovi?».
Belli, brillanti, curiosi, schierati dalla
parte giusta. «Come vedi non è bastato».
Stai pensando al suo suicidio assistito? «Con
quella storia tragica c’ho fatto pace. Di lui si ricorda stancamente che era
come un divo del cinema. In realtà fu un intellettuale rigoroso e importante.
Nel partito e fuori, quando ne uscimmo».
Deste vita al gruppo “Il Manifesto” e il Pci
vi mise alla gogna. «Ci massacrarono. Uno dei pochissimi che continuò a
salutarci fu Emanuele Macaluso».
Giancarlo Pajetta si dimostrò il più
intransigente. «Intransigente? Quando mi vedeva cambiava strada. Disse anche:
non sono compagni che sbagliano, sono uomini e donne di mezza età inaciditi. Il
riferimento era soprattutto a me e a Rossana Rossanda».
Di quel gruppo composto anche da Luigi
Pintor, Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, siete rimaste tu e la
Rossanda. «Con Rossana non ci siamo lasciate niente alle spalle ed è come se
loro fossero ancora con noi. Se credessi in un’altra vita saremmo pronti a
ricominciare quella storia».
Che cosa vi ha tenuti insieme? «La passione
intellettuale ed esistenziale per le cose importanti. Fra tutte, l’idea di una
società migliore».
Tutti auspicano una società migliore. «In
giro vedo solo una società regredita e imbarbarita».
Quali colpe attribuisci alla sinistra? «La
più grave è l’ossessione per il potere: contava solo il governo e poco o nulla
la società con le sue dinamiche e i suoi problemi. La sinistra blatera di
valori, ma ha fatto ben poco per dare ad essi rappresentanza sociale».
Vuoi dire che la sinistra non ha più
rilevanza storica? «Quando un milione di giovani, tanto per sparare una cifra,
ha come controparte gli algoritmi e non le idee, allora sei diventato
irrilevante».
Non ti preoccupa la destra che avanza? «Eccome
se mi preoccupa. Ma il problema non è la sinistra che arretra e la destra che
avanza. Il problema è il progressivo svuotamento della democrazia. Che nasce
molto prima dell’arrivo dei Salvini e dei Di Maio. Nasce quando si è deciso che
la politica è uno strumento poco adatto a governare la complessità del mondo».
Chi è il soggetto di questo tuo
ragionamento? «Pensa alla “Trilateral” e al manifesto redatto negli anni
Settanta da Europa, Giappone, Stati Uniti – ma oggi la questione si complica
con la presenza di Cina, Russia e India – in cui si diceva: c’è troppa
democrazia in giro per il mondo e il sistema non se la può permettere. È allora
che nasce la parola “governance”. Tradotta vuol dire che l’economia è troppo
complessa per affidarla alla politica. Ovviamente sto parlando di un’onda
lunga».
Ed è giunta fino a noi? «Beh, guardati
intorno. I parlamenti non contano più nulla, i partiti men che meno, i politici
recitano delle pantomime a uso e consumo dei siparietti televisivi.
Sbraitano, insultano, promettono, arringano.
Sono scene penose e tutto questo nel più assoluto rispetto della democrazia
formale».
Vuoi dire che sei per la democrazia diretta?
«Quella è un’altra favola e non c’entra niente essere pro o contro Rousseau,
intendo il filosofo non la piattaforma che mi pare una mezza truffa. C’entra il
fatto che una società la governi con i corpi intermedi, ascoltando quello che
la società ha da dire».
Tu preferisci parlare di società e non di
popolo. «"Popolo” è un’entità astratta, universale certo, ma il cui uso si
può prestare a mille ambiguità e strumentalizzazioni. “Società” ha una maggiore
concretezza. È un laboratorio nel quale si può sperimentare il presente e
lavorare per il futuro».
È un laboratorio senza più attrezzi. «Va
ricostruito. Anche perché sono cambiati i soggetti».
Pensi alla classe operaia? «È stata una componente fondamentale, oggi sta assumendo nuove forme e vive nuove contraddizioni. A quali valori può e deve richiamarsi? Pensa all’ecologia. Un operaio dell’Ilva la vive in modo diverso da come la vive Greta».
È la politica che deve trovare la sintesi? «Purtroppo
la politica, che un tempo avrebbe assolto a questo compito, si è privatizzata.
Non pensa più – ma a dire il vero non lo faceva neppure tanto in passato – al
bene comune, pensa al bene sconnesso. Ossia se una determinata decisione
risulterà o meno utile nell’immediato».
In fondo sei rimasta una sessantottina. «Ti
sbagli, se non altro anagraficamente vengo prima».
Ti manca il Pci? «Mi manca la capacità di
elaborazione, non mi mancano le sue ortodossie anche se, ti confesso, le
preferisco alle scemenze che sento dire in giro da molti politici».
Sei stata nel “cerchio magico” di Togliatti.
«Ma che dici, l’ho frequentato, sono stata amica della sua compagna Nilde
Iotti, ci siamo visti qualche volta a cena e ne ho apprezzato la grande qualità
intellettuale».
Che usava spesso come una clava. «Erano
tempi duri ma ideologicamente chiari. Però Togliatti si incuriosiva per tutto.
Chiese a Rossanda di presentargli Sartre che lei, in quanto responsabile
culturale del Pci, conosceva benissimo. Non so cosa avrei dato per essere a
cena tra lui e Simone de Beauvoir. Cena che organizzò Rossana in un ristorante
romano. Un’altra volta si incuriosì di Eugenio Scalfari e chiese a me e ad
Alfredo Reichlin di organizzare noi una cena».
Come andò? «Eugenio aveva preso da poco la
direzione de L’Espresso e Togliatti si mostrò attento al cambio di linea. Ma
onestamente non ricordo i contenuti di quella serata, che fu comunque
piacevole».
A 89 anni hai fatto una campagna elettorale
per Sinistra di Tsipras. Chi te lo ha fatto fare? «Mi sono sempre spesa per
quello che in cui ho creduto».
Come valuti il tuo bilancio politico? «Non
avrei potuto fare altro di importante nella vita e nel dirlo metto in conto le
numerose sconfitte. Che sono in definitiva meno avvilenti perché non ho mai
pensato alla politica come a un bene individuale».
La politica è la grande imputata di questi
anni. «Vuoi che non lo sappia? Chi se ne è fatto interprete ha quasi solo
pensato ai fatti propri. C’è una frase che don Milani scrive in una lettera.
Dice così: ho scoperto che il mio problema è uguale a quello degli altri.
Risolverlo tutti insieme è politico, risolverlo da soli è da avari. Purtroppo
viviamo in una società sempre più avara e sordida, la quale non sa che farsene
degli altri, salvo usarli come strumento e fonte di paura».
Che traguardo sono i 90 anni? «Bello,
brutto, strano. A seconda dei momenti. L’unica cosa che mi secca veramente è
che non riuscirò a vedere come finirà. È una fase troppo lunga e complessa
quella che stiamo vivendo. A volte dico: qui stanno distruggendo tutto e allora
penso a quei benedettini che furono la grande risorsa culturale dei secoli bui.
Si presero cura di tutto quello che di fondamentale il passato aveva prodotto.
Mi sento un po’ così. Con la sensazione che occorra ricostruire
il lessico dei valori, dei sentimenti, dell’agire politico. Sarebbe bello
se un giorno fossimo riscoperti per questo oscuro lavoro».
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