Tratto da “Il
mare rimasto senza sapore” di Luca Bottura, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 10 di agosto dell’anno 2019: (…). …sono sempre rimasto ai
margini dei rivolgimenti epici. Avevo un anno nel '68 e dieci nel '77. Non ho
fatto il Classico. Quando mi danno del radical chic penso all'assonanza con il
quasi omonimo brano dei Freak. Perché sono un figlio spaiato e tardivo degli
anni Ottanta. E mi fanno, chiedo venia, vomitare. La condanna di chiunque
interfacci la propria vita con l'adolescenza altrui (genitoriale, non
sentimentale: mica sono Berlusconi) è l'illogica passione per l'immagine che
hanno mutuato, cospargendola col miele, di ere geologiche a te tristemente
note. Come di Mussolini sono rimaste le paludi bonificate, la tredicesima, i
treni in orario, cioè leggende completamente slegate dalla realtà, la
percezione dei roarin' eities è quella di un'estate lunga dodici mesi in cui il
presidente della Repubblica era Claudio Cecchetto e il Paese godeva di un
prolungato e dolce riflusso (gastrico) che dello sprofondo antistante il guardo
ancora esclude. Si stava peggio quando si stava meglio. Anzi: si stava qui già
allora. Ebbri di un lessico umano che avvelenò i pozzi di Campari Orange. Con
Ramazzotti nel bicchiere e nei walkman.
Soffusi da un'alea di lacca che staccava pezzi di Polo mentre Beppe Grillo staccava biglietti su biglietti e riceveva la giusta remunerazione in banconote di piccolo taglio. Prima di cercarsi nuovi pubblici. E di regalarli ad altri più scaltri di lui. C'era tutto. Una specie di prequel. L'Italia post-bellica, casomai, era stata l'errore. Gli italiani brava gente. Le file di Cinquecento sull'Aurelia, il melone incassato lungo la riva del mare, i bimbi urticati dal sole e sbiancati dagli scarichi della Montedison (a sud) o della Solvay (a nord). La ricerca di un vago decoro. La coscienza di classe e l'imperativo quasi categorico di cambiarla, costasse pure dolore e spavento. La Rai paternalista eppure gioiosa. Bartali e Coppi. Billi e Riva. Pavese e Liala. Il bianco e nero. Il rosso, e il nero. Il nero, Guareschi, che ricolora il rosso per ragioni di cassetta cinematografica. I leoni della commedia. I leoncini come Tognazzi e Manfredi, che erano pure meglio. Le maniche da rimboccarsi e da rimboccare al commendatore, al dottore, al mammasantissima. Sarti, Burgnich, Facchetti. Negri, Furlanis e Pavinato. Il racconto che non si chiamava ancora storytelling. Il sacchetto dell'Autogrill e il sacco di Roma. I piccoli centri di pessimo gusto. Don Milani e Don Vito Corleone. Adriano Olivetti e Luciano Liggio. Gladio e le feste de l'Unità. L'Unità. Poi qualcosa è andato storto, o ha preso velocità. Credo sia successo esattamente nel 1980, quando Canale 5 trasmise le partite di un torneo parrocchiale per nazioni, spacciato per Coppa del Mondo del cambiamento: il Mundialito. Era vietato. Non il Mundialito, la sua messa in onda. Ma lo fecero lo stesso, con un curioso magheggio per cui si spacciava per differita la diretta. Non successe niente. Anzi, la gente era felice. Pure io. Mi sembrava il nuovo, trovavo che "corri a casa in tutta fretta c'è un biscione che ti aspetta" non fosse, come parrebbe a un primo sommario esame, l'elogio sottocutaneo della sodomia in corpo 11 come scrisse Busi, ma un afflato di modernità. Da quell'estate, modernità e furbizia divennero un'associazione a delinquere di stampo reazionario. Dacché ci si vergognava almeno un po', di cotonarsi gli slip, il conto in banca, il curriculum, le amicizie, si passò alla rivendicazione. Il pensiero unico del radical-shit, il coro che si atteggia come se fosse fuori dal coro, l'evasione di necessità in cui la necessità è un mese alle Maldive. Ci risvegliammo cosmopoliti e provinciali, a difesa della nostra backyard. Ronald Reagan e Martufello. Tondelli e Erica Jong. Paulo Coelho e Lara Cardella. Don Mazzi e don Tano Badalamenti. La 'ndrangheta e la 'ndrangheta. Il sacco di Roma secondo estratto. La 500 camouflage di Lapo. Le bombe intelligenti. Le bombe nelle stazioni. La maggioranza silenziosa. La maggioranza che parla. La maggioranza che urla. La maggioranza che rutta in faccia a chi aveva votato fino a un secondo prima. Il gelato gusto Puffo. Visto come si porta bene la distopia, sarebbe l'ora di un romanzo sugli anni Ottanta ambientato nel 2019, in cui un gruppo di lavori in pelle ha diminuito il volume delle spalline per meglio occultare il giorno della marmotta in cui ci siamo rifugiati dacché è sempre il tempo del Mundialito. Il quale, peraltro, si giocò a dicembre. Perché l'estate italiana e quella dell'Uruguay sono, per evidenti ragioni di latitudine, sfalsate, come la mia percezione di quelle belle stagioni, che solo oggi sono diventate il buco nero cui dare la colpa di essere, inevitabilmente, invecchiato. Con un'unica, struggente, malinconia pseudo-intellettuale: Nada che canta Amore disperato e il me adolescente che vorrebbe farne involtino della passione. L'ho incontrata giorni fa nel backstage di un concerto per Emergency. Non sono quasi riuscito a presentarmi. Forse è per quel trauma irrisolto, alla fine, che proprio non sopporto gli anni Ottanta.
Soffusi da un'alea di lacca che staccava pezzi di Polo mentre Beppe Grillo staccava biglietti su biglietti e riceveva la giusta remunerazione in banconote di piccolo taglio. Prima di cercarsi nuovi pubblici. E di regalarli ad altri più scaltri di lui. C'era tutto. Una specie di prequel. L'Italia post-bellica, casomai, era stata l'errore. Gli italiani brava gente. Le file di Cinquecento sull'Aurelia, il melone incassato lungo la riva del mare, i bimbi urticati dal sole e sbiancati dagli scarichi della Montedison (a sud) o della Solvay (a nord). La ricerca di un vago decoro. La coscienza di classe e l'imperativo quasi categorico di cambiarla, costasse pure dolore e spavento. La Rai paternalista eppure gioiosa. Bartali e Coppi. Billi e Riva. Pavese e Liala. Il bianco e nero. Il rosso, e il nero. Il nero, Guareschi, che ricolora il rosso per ragioni di cassetta cinematografica. I leoni della commedia. I leoncini come Tognazzi e Manfredi, che erano pure meglio. Le maniche da rimboccarsi e da rimboccare al commendatore, al dottore, al mammasantissima. Sarti, Burgnich, Facchetti. Negri, Furlanis e Pavinato. Il racconto che non si chiamava ancora storytelling. Il sacchetto dell'Autogrill e il sacco di Roma. I piccoli centri di pessimo gusto. Don Milani e Don Vito Corleone. Adriano Olivetti e Luciano Liggio. Gladio e le feste de l'Unità. L'Unità. Poi qualcosa è andato storto, o ha preso velocità. Credo sia successo esattamente nel 1980, quando Canale 5 trasmise le partite di un torneo parrocchiale per nazioni, spacciato per Coppa del Mondo del cambiamento: il Mundialito. Era vietato. Non il Mundialito, la sua messa in onda. Ma lo fecero lo stesso, con un curioso magheggio per cui si spacciava per differita la diretta. Non successe niente. Anzi, la gente era felice. Pure io. Mi sembrava il nuovo, trovavo che "corri a casa in tutta fretta c'è un biscione che ti aspetta" non fosse, come parrebbe a un primo sommario esame, l'elogio sottocutaneo della sodomia in corpo 11 come scrisse Busi, ma un afflato di modernità. Da quell'estate, modernità e furbizia divennero un'associazione a delinquere di stampo reazionario. Dacché ci si vergognava almeno un po', di cotonarsi gli slip, il conto in banca, il curriculum, le amicizie, si passò alla rivendicazione. Il pensiero unico del radical-shit, il coro che si atteggia come se fosse fuori dal coro, l'evasione di necessità in cui la necessità è un mese alle Maldive. Ci risvegliammo cosmopoliti e provinciali, a difesa della nostra backyard. Ronald Reagan e Martufello. Tondelli e Erica Jong. Paulo Coelho e Lara Cardella. Don Mazzi e don Tano Badalamenti. La 'ndrangheta e la 'ndrangheta. Il sacco di Roma secondo estratto. La 500 camouflage di Lapo. Le bombe intelligenti. Le bombe nelle stazioni. La maggioranza silenziosa. La maggioranza che parla. La maggioranza che urla. La maggioranza che rutta in faccia a chi aveva votato fino a un secondo prima. Il gelato gusto Puffo. Visto come si porta bene la distopia, sarebbe l'ora di un romanzo sugli anni Ottanta ambientato nel 2019, in cui un gruppo di lavori in pelle ha diminuito il volume delle spalline per meglio occultare il giorno della marmotta in cui ci siamo rifugiati dacché è sempre il tempo del Mundialito. Il quale, peraltro, si giocò a dicembre. Perché l'estate italiana e quella dell'Uruguay sono, per evidenti ragioni di latitudine, sfalsate, come la mia percezione di quelle belle stagioni, che solo oggi sono diventate il buco nero cui dare la colpa di essere, inevitabilmente, invecchiato. Con un'unica, struggente, malinconia pseudo-intellettuale: Nada che canta Amore disperato e il me adolescente che vorrebbe farne involtino della passione. L'ho incontrata giorni fa nel backstage di un concerto per Emergency. Non sono quasi riuscito a presentarmi. Forse è per quel trauma irrisolto, alla fine, che proprio non sopporto gli anni Ottanta.
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