"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 27 agosto 2020

Storiedallitalia. 85 Giuseppe Di Vittorio: «per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà».

Ha scritto Michele Serra in una Sua corrispondenza - “Quando i politici restituivano i regali” – pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 21 di agosto: (…). Per i pochi lettori che non lo sapessero, Di Vittorio, nato in una famiglia contadina, analfabeta fino a 14 anni, fu un importante leader politico (prima socialista, poi comunista) e sindacale, segretario della Cgil dopo la Liberazione. Combattente antifranchista nella guerra civile spagnola, esule in Francia, poi recluso dal fascismo a Ventotene, è una delle figure più ammirevoli e integre della storia della sinistra italiana. La lettera, datata 24 dicembre 1920, è inviata da Di Vittorio all’amministratore del conte Giuseppe Pavoncelli, per spiegare le ragioni della restituzione di un regalo natalizio che lo stesso Pavoncelli aveva inviato a Di Vittorio. Quando la scrive, Di Vittorio ha ventotto anni. È passato un secolo: da molti punti di vista. Egregio Sig. Preziuso, in mia assenza la mia signora ha ricevuto quel po’ di ben di Dio che mi ha mandato. Io apprezzo al sommo grado la gentilezza del pensiero del suo Principale ed il nobile sentimento di disinteressata e superiore cortesia cui si è certamente ispirato. Ma io sono un uomo politico attivo, un militante. E si sa che la politica ha delle esigenze crudeli, talvolta brutali anche perché – in gran parte – è fatta di esagerazioni e di insinuazioni, specialmente in un ambiente come il nostro ghiotto di pettegolezzi più o meno piccanti. Io, Lei ed il Principale siamo convinti della nostra personale onestà, ma per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. È necessaria – e Lei lo intende – anche l’onestà esteriore. Se sul nulla si sono ricamati pettegolezzi repugnanti ad ogni coscienza di galantuomo, su d’una cortesia – sia pure nobilissima come quella in parola – si ricamerebbe chi sa che cosa. Si che io, a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli, che stimo moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non accettare il regalo, il cui solo pensiero mi è di pieno gradimento. Vorrei spiegarmi più lungamente per dimostrarle e convincerla che la mia non è, non vuol essere superbia, ma credo di essere stato già chiaro. Il resto s’intuisce. Perciò La prego di mandare qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati. Ringrazio di cuore Lei ed il Principale e distintamente per gli auguri alla mia Signora. Giuseppe Di Vittorio. Altra la “stoffa”, altra la statura morale. Fors’anche altri i tempi che non erano quelli della “Milano da bere” o del proclama “la nave va” in riferimento al Paese intiero, a quale prezzo è sotto gli occhi di tutti. C’era al tempo di quella lettera il malcontento post-bellico che sfocerà in disordini e sommosse riportati alla calma con l’avvento dello squadrismo e dell’uomo “della provvidenza”. La fine del quale fu quella fucilazione e quell’invereconda sua esposizione a quel traliccio in piazzale Loreto in Milano. In quella stessa Milano laddove il Craxi Bettino prese il suo “volo politico” per finire poi quel suo “volo” non già drammaticamente ma con la scelta di una latitanza a fronte di una sentenza definitiva proclamata non già da un “tribunale del popolo” ma da un legittimo tribunale della Repubblica Italiana. Diciotto anni dopo la sua dipartita (10 di gennaio dell’anno 2000) avvenuta in latitanza in quel di Hammamet i suoi sodali hanno disperatamente e caparbiamente tentato di ricostruirne la figura e la memoria. Impresa improba a fronte di una “memoria” lasciata e scandita dal tintinnio delle monetine lanciategli dalla folla in piazza presso l'hotel Raphael. Il 26 di agosto dell’anno 2018 – momento caldo attorno a quel tentativo di ricostruirne figura e memoria - Marco Damilano pubblicava sul settimanale “L’Espresso” il “pezzo” di seguito riportato che ha per titolo “E Craxi andò alla battaglia. Di idee”. Tanto per non dimenticare. (…). Uscì (un saggio su Proudon di Bettino Craxi n.d.r.) il 27 agosto 1978, quarant’anni fa, alla fine di un mese in cui era morto un papa (Paolo VI), era stato appena eletto un altro (il patriarca di Venezia Albino Luciani con il nome Giovanni Paolo I, morirà 33 giorni dopo), Mina aveva tenuto il suo ultimo concerto pubblico al Bussoladomani di Viareggio e la politica si apprestava a riprendere il suo cammino dopo i giorni del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, i referendum per abrogare la legge Reale sull’ordine e la sicurezza e soprattutto il finanziamento pubblico dei partiti, che aveva raccolto il 46 per cento dei sì nonostante la contrarietà di tutte le forze politiche tranne i radicali, ben più di un campanello d’allarme per il sistema politico. Vacillava il governo di solidarietà nazionale, il monocolore dc di Giulio Andreotti con il Pci in maggioranza, il Psi si era smarcato con due mosse clamorose, la rottura del fronte della fermezza con le Brigate rosse nel caso Moro e l’elezione di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica, il primo socialista al Quirinale. Ma il giovane segretario del Psi Craxi, 44 anni in quel momento, aspettava di fare un passo in più. La definizione di una nuova carta di identità: dire chi si è, prima ancora di cosa si vuole fare. Un manifesto ideologico, come nell’Ottocento. Curioso che a intestarsi la battaglia delle idee fosse un leader pragmatico, per nulla attratto dalle fumisterie teoriche, considerato spregiudicato e privo di scrupoli: Bettino l’Amerikano, il tedesco del Psi, come lo appellavano gli avversari. Se ne sorprese il vecchio Pietro Nenni che il 5 settembre annotava sul suo diario: «Continua la polemica aperta da Bettino sul marxismo e sul leninismo. Il partito cerca in essa una qualificazione che però potrà venire solo dai fatti». Più stupiti di tutti i comunisti, l’oggetto polemico del saggio craxiano. «Non si esita a dare versioni incredibilmente semplificate e unilaterali dell’esperienza storica del movimento operaio, a presentare un’immagine quanto mai riduttiva e sommaria di una personalità come quella di Lenin (e ancor di più di quella di Gramsci), e a tacere dell’elaborazione originale dei comunisti italiani», si lamentò Giorgio Napolitano sull’Unità.
In linea con il giudizio dello storico Paolo Spriano: «Toni e espedienti idonei all’addestramento dei commandos delle teste di cuoio ma non al dibattito culturale». Ancora più brutale il vicecapogruppo del Pci alla Camera Fernando Di Giulio: «Perché Craxi ha scelto Proudhon, questo strano modesto pensatore francese? Secondo alcuni, perché ricorda una marca di champagne». Eppure era stato Enrico Berlinguer ad aprire lo scontro ideologico. Con una lunga intervista a Scalfari su Repubblica, il 2 agosto, in cui il segretario del Pci aveva rivendicato «la complessa eredità» del leninismo, affermando che «il Pci è nato sull’onda della rivoluzione proletaria dei soviet, e su impulso di Lenin»: «siamo continuatori, ma anche critici e interpreti» di quel «patrimonio ricchissimo e complesso». E aveva concluso: «La verità è che ci si vorrebbe sentir dire: ci siamo sbagliati a nascere, evviva la socialdemocrazia, unica forma di progresso politico e sociale. Allora i nostri esaminatori si direbbero soddisfatti: “la risposta è esatta, sciogliete il partito e tornatevene a casa”». Tra gli esaminatori, Berlinguer indicava il Psi di Craxi: «C’è una neo-vocazione a farci l’esame da parte dell’attuale gruppo dirigente socialista. È un fatto nuovo e preoccupante». Il direttore dell’Espresso Zanetti chiese una reazione a Craxi, il segretario socialista fece sapere che voleva pensarci, poi si ricordò di aver commissionato al giovane sociologo Luciano Pellicani un saggio su leninismo e socialismo per un volume dell’Internazionale socialista in onore di Willy Brandt. Quindici cartelle, le rimaneggiò personalmente prima di partire per le vacanze ad Hammamet e le spedì all’Espresso. «Avevo citato molti autori, ma Proudhon fece più effetto», ammise in seguito Pellicani. Pierre-Joseph Proudhon, vissuto tra il 1809 e il 1865, promotore di un socialismo anti-scientifico, liberale, anarchico, mutualista, contrario alla violenza. Chi avrebbe mai detto che sarebbe diventato lui il primo profeta del socialismo craxiano? Andò così, anche se nel saggio erano nominati tanti altri autori. Rosa Luxemburg, l’ex comunista jugoslavo Milovan Gilas, il francese Gilles Martinet, Bertrand Russell, Carlo Rosselli, Norberto Bobbio con il riferimento che chiudeva lo scritto: «Il socialismo è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza». La sintesi delle idee di Pellicani, poi direttore di Mondoperaio, un pensatore in polemica con tutte le dottrine politiche dei “fini ultimi”, depositarie della salvezza e del paradiso in terra destinato a trasformarsi in un inferno per gli uomini, come lo descrive Giovanni Scirocco nel volume “Il vangelo socialista” (Aragno). Il saggio firmato da Craxi fu uno spartiacque per i rapporti a sinistra. «Nella sua polemica anti-marxista il segretario socialista arriva a Robespierre e ai giacobini della Rivoluzione francese, avesse avuto più spazio, c’è da giurare che nella sua condanna avrebbe coinvolto anche Rousseau. Ideologia e cultura a parte, la posizione di Craxi significa che l’unità a sinistra è rotta per sempre», profetizzò Scalfari, a ragione. Scontro ideologico e politique politicienne si tenevano insieme, all’interno delle pagine craxiane L’Espresso pubblicava un box sulla rottura tra comunisti e socialisti negli enti locali, a San Benedetto del Tronto, a Comiso, a Quartu Sant’Elena, dove il Psi mollava i comunisti per tornare alle giunte di centro-sinistra con i democristiani. Da Proudhon a Quartu, si anticipava il ritorno del Pci all’opposizione e il pentapartito degli anni ’80. E anche fenomeni di più lungo periodo: «Il Vangelo socialista dimostra quanto Craxi sia convinto della possibilità di spingere anche in Italia in direzione di un’americanizzazione del partito politico», commentò Paolo Franchi sul settimanale del Pci Rinascita. E Enzo Forcella su Repubblica: «Bastano poche paginette, qualche contrapposizione azzeccata tipo Proudhon e Marx, la scelta del momento e del canale giusti per segnare una data storica nella vita del Psi. Per quel che riguarda il modo di fare politica, stiamo soltanto ora entrando veramente nella dimensione delle comunicazioni di massa». Riletto oggi il saggio di Craxi appare irrimediabilmente datato per il linguaggio e per i contenuti, ma per nulla semplificatorio e superficiale, soprattutto se paragonato a quanto visto e letto nelle stagioni successive e in quella attuale, di svolte epocali annunciate via twitter. Nell’immaginario Craxi è ancora il Capo delle scenografie congressuali a forma di piramide, dei templi dorici e delle discoteche, del rampantismo vorace e insaziabile, di Tangentopoli. Ma in quel saggio lontano dell’ex presidente del Consiglio condannato e morto nel 2000 in Tunisia, sepolto in un piccolo cimitero accanto alla tomba di un francese ricoperta dalla sabbia e dalla salsedine, si ritrova un leader inserito in una formazione secolare, impegnato in una cosa antica e buona della politica: la tenzone delle idee, la svolta affidata a uno scritto che riconosce la storia precedente anche quando intende superarla. Un politico di sinistra, attrezzato ad affrontare lo scontro sul terreno ideologico, convinto che non esista una politica con l’ambizione di vincere senza un sistema di idee alle spalle. Un capo-partito che almeno all’inizio della sua avventura si era circondato di intellettuali, non di yesmen, ghostwriter, inventori di hashtag come oggi: la redazione raccolta attorno a Mondoperaio, intelligenze inquiete, competenze raffinate (Federico Coen, Luciano Cafagna, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia, Giampiero Mughini, Luciano Pellicani), alcune pronte ad andarsene al primo segnale di degenerazione, in quella fase nascente del craxismo che è stata il momento più fecondo. Non era del resto una disputa teologica quella che voleva affrontare il quarantenne segretario del Psi, ma una dura battaglia di egemonia, di potere. Ma sapeva che un’idea, in politica, è l’arma più dirompente. Dopo ha pensato che per vincere servisse altro: soldi, poltrone, rendite di posizione non solo politiche. E ha cominciato a perdere, rovinosamente. Nel merito, su chi avesse ragione e torto tra Berlinguer e Craxi su leninismo e socialismo, fu lo stesso segretario del Pci tre anni dopo ad abiurare di fronte alle telecamere ammettendo all’indomani del colpo di Stato in Polonia che la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre si era esaurita. Il Pci si è sciolto, senza diventare compiutamente socialdemocratico, come Berlinguer temeva nel 1978, e solo l’esperienza originale del comunismo italiano è riuscita a far trapassare il partito, l’organizzazione, i dirigenti oltre la fine del blocco sovietico. Ma il Psi di Craxi non è riuscito a costruire su quell’identità di socialismo liberale un’alternativa di sinistra (parola che nel saggio ricorre appena tre volte), fino ad arrivare alla dissipazione e alla scomparsa, qualcosa che pesa ancora sul nostro presente. Un vuoto che nessuno è riuscito a colmare, tantomeno gli epigoni craxiani slittati a destra, nel berlusconismo, come satelliti fuori orbita. La storia di una doppia sconfitta, catastrofica. (…).

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