"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 28 agosto 2020

Cosedaleggere. 64 Giorgio Bocca: “Siamo abituati a non chiedere nulla, sappiamo che non c’è nulla di gratuito, che siamo responsabili delle nostre azioni e i prezzi vanno pagati”.


A lato: Nicoletta e Giorgio Bocca.
Oggi 28 di agosto Giorgio Bocca avrebbe compiuto 100 anni. Lo ricorda la figlia Nicoletta in una intervista di Piero Colaprico – “Mio padre Giorgio Bocca” – pubblicata il 26 di agosto sul quotidiano “la Repubblica”: (…). Nicoletta, forse il libro più bello di suo padre è “Il provinciale”. Che cosa ha pensato leggendolo? «Lo leggo costantemente. Rileggo spesso la parte fondativa, i capitoli iniziali, che mi sono più cari. Noi non parlavamo, anzi lui con noi parlava pochissimo».
Che parlasse con il contagocce è noto, ma anche in famiglia? «Quando mio figlio Pietro gli ha chiesto “Mi racconti le tue storie da partigiano”, gli ha risposto “Le leggerai nei miei libri”. Tante volte ci diceva: “Mi raccomando venite a cena”, allora si parlava del più e del meno, poi finita la cena annunciava “Io scendo in studio” e spariva, fine. Solo nei suoi libri trovo la carta geografica che mi permette di capire chi era mio padre. E — di più — quello che scrive sulle campagne di Cuneo, sulle montagne del Piemonte mi racconta di me, oltre che di lui».
Qualcuno scorge nei saggi di Bocca una vena da romanziere. È così? «Confesso che faccio fatica a leggere i libri tutti d’un fiato, mi sento coinvolta e mi devo fermare. Comunque, la sua scrittura, di alta qualità, non ha la fluidità del romanziere. Per me è di un poeta che procede con frammenti d’immagine. I suoi libri sembrano poesie congiunte, salti continui di immagini, a volte potenti, a volte delicate, sino alla fine».
E come era suo padre, tornato single, con lei bambina? «Mi hanno dato delle lettere che scriveva a mia madre. In una dice che mi ha comprato un triciclo e che è un piacere vedermi pedalare veloce al parco Lambro. Ma non ho ricordi. Di giorno mio padre era quasi sempre fuori per lavoro, la sera a casa la passava a scrivere. C’era un interregno, tra il lavoro e il momento in cui usciva a cenare, e usciva sempre, in cui si faceva la barba. Mi sedevo dietro di lui e lo guardavo riflesso nello specchio. E a volte era quello l’unico momento della mia giornata con lui».
Era anche inviato di esteri… «Sì, stava via parecchio, c’era il momento del ritorno, portava i regali. Ho una bambola russa ancora nella scatola, ma non giocavo con le bambole, giocavo con le spade, m’immaginavo come Robin Hood o un antico romano. Non lo sapeva. Solo quando, dopo la separazione da mia madre, è arrivata Silvia, mio padre è cambiato».
Silvia Giacomoni è una donna positiva e l’amava molto… «C’erano i figli di Silvia, Guido e Davide. Abbiamo cominciato a fare insieme le vacanze, a cenare alla stessa ora, spesso venivano da noi alcuni invitati, ricordo Roberto Calasso e Fleur Jaeggy, Tiziano Terzani vestito di bianco, gli ospiti cambiavano sempre. Con il passare del tempo, la sua passione per il cibo, i vini, i buoni ristoranti era cresciuta, regalava molti libri di cucina. Ricordo che per un Natale ci arrivò da Silvio Berlusconi un panettone così gigantesco che abbiamo fatto forgiare un coltello apposta, che ancora abbiamo da qualche parte».
Natale 2011, Bocca muore a 91 anni. Come definirebbe la sua vita? «Pienissima e senza rimpianti. Un uomo fortunato pur nelle sue nevrosi, sopportabili, che ha avuto una formazione professionale e il successo nei giornali più importanti d’Italia. Se la delusione d’amore con mia madre è stata cocente, ha creato una bella famiglia con Silvia. Avevo la sensazione che fosse eterno, che avessimo ancora del tempo davanti a noi, e non è mai così».
Bocca era molto orgoglioso della sua biblioteca, dei suoi scaffali moderni e della collezione sterminata di saggi storici e politici. Adesso li ha tutti lei. Che ne fa? «Ho ipotizzato una fondazione, una sala comunale, per ora le migliaia di volumi sono ancora inscatolati in un magazzino refrigerato ad Alba. Mi piacerebbe che rimassero a casa, qui nelle Langhe, che la biblioteca di mio padre restasse fruibile in uno spazio domestico affettuoso e accogliente, magari in una cascina qui a Dogliani».
A Dogliani lei fonda la cantina San Fereolo, si specializza in rossi tradizionali... «Me n’ero andata da Milano — dovevo trovare la mia identità, lavoravo nella moda, ma avendo la netta sensazione che fosse solo perché ero “la figlia di” — e sono stati questo territorio e il vino a legarmi a doppia mandata a mio padre. Il suo libro Italia anno 1, sulle città senza operai e le campagne senza contadini è stato fondamentale per molti che sono tornati alla terra e per me moltissimo. È un libro del 1984, ancora oggi è perfetto, così ci siamo ritrovati. Lui che dalle Langhe era andato via per sempre, io che invece tornavo sui suoi passi. Come in un cerchio che si chiude».
C’è una frase di Bocca che può aiutare a capirlo meglio? «Quando gli hanno dato la cittadinanza onoraria di Cuneo ha detto più o meno così: “Siamo abituati a non chiedere nulla, sappiamo che non c’è nulla di gratuito, che siamo responsabili delle nostre azioni e i prezzi vanno pagati”. Pudico nei sentimenti e sempre generoso, con grandi valori morali declinati in modo pratico, lui era così».
Si chiede mai: chissà papà che cosa scriverebbe oggi? «No, anzi era già stanco, deluso, indignato di come fosse ridotta l’Italia nata dalla Resistenza. E se guardo quello che c’è oggi, purtroppo penso che per fortuna papà non c’è più».

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