Tratto da “Perché
Google non l'abbiamo inventato in Europa” di Mariana Mazzucato - docente di
Economia alla Sussex University e di recente nominata consigliera dal
Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’ambito economico/finanziario - pubblicato sul settimanale "D" del quotidiano "la Repubblica" del 30 di agosto dell'anno 2014: Da
vent'anni a questa parte, una delle grandi domande è: dove sono i Google
europei? Perché tutte le aziende anticonvenziali, creative e dinamiche vengono
fuori dagli Stati Uniti e non dal vecchio continente? La risposta che sentirete
spesso è: l'Europa ha tanta cultura, ha il cibo buono, la moda, ma non è
"abbastanza imprenditoriale", non c'è abbastanza gente che
"armeggia nei garage", e questo succede soprattutto perché da noi c'è
troppo Stato e non abbastanza mercato. Questo punto di vista, che ci viene
quotidianamente propinato da media e politici conservatori, ignora però il
fatto che tutte le tecnologie rivoluzionarie che hanno reso l'iPhone così smart
sono state in realtà finanziate dallo Stato. Non tramite rigide politiche di
regolamentazione del mercato, ma attraverso politiche mirate, che hanno
catalizzato la creazione di tecnologie e settori completamente nuovi. Se con il
vostro iPhone potete navigare in rete ovunque vi troviate, è perché Internet è stata finanziata dal Defense Advanced Research
Projects Agency, un'agenzia che fa parte del ministero della Difesa
statunitense. Il GPS del vostro telefonino è in grado di dirvi dove siete in
qualsiasi angolo del mondo, e a finanziarlo è stato il Navistar Satellite
Program degli Stati Uniti. Anche Siri, l'assistente personale basato sul
riconoscimento vocale presente sull'iPhone 5, e il pratico touch screen del
telefono Apple sono stati finanziati dallo Stato. Ebbene sì: Internet, e
perfino la parola nanotecnologia nascono in ambito statale. È ovvio che
occorrono persone come Steve Jobs per trasformare queste visioni e queste idee
in veri e propri prodotti, ma sarebbe sbagliato pensare che quel tipo di genio
nasca dal nulla. Gli imprenditori come Jobs, nonché i capitali di rischio che
li finanziano, hanno spesso "cavalcato" gigantesche ondate originate
da denaro pubblico. Non ammettere questo dato di fatto significa mettere a
repentaglio le ondate future. Più di recente, l'auto elettrica Model S della
Tesla di Elon Musk ha beneficiato di un generoso prestito garantito dallo Stato
(nell'ordine dei 500 milioni di dollari). Oggi Musk è il nuovo eroe della
Silicon Valley. Ma un finanziamento di dimensioni analoghe all'azienda
specializzata in energia eolica Solyndra non è andato a buon fine, e l'azienda
è fallita. Della vicenda di quest'ultima hanno tutti sentito parlare e la usano
per scagliarsi contro l'incapacità dello Stato di "puntare sui cavalli
vincenti", mentre in pochi parlano di una vicenda di successo come quella
del prestito Tesla. Eppure, quando si tratta di innovazione, i fallimenti sono
inevitabili: per ogni Tesla esistono venti Solyndra. Ma se i finanziatori
privati possono utilizzare i proventi delle operazioni di successo per coprire
quelle in perdita, lo stesso non vale per lo Stato. Perché ancora non abbiamo
riconosciuto il suo vero ruolo: quello di imprenditore che corre più rischi.
Così facendo, si è creata una situazione nella quale sono solo i rischi, a far
discutere, e non i guadagni. Gli economisti ritengono che questa nuova ondata
di investimenti finanziati dallo Stato avrà un ritorno attraverso le tasse. Ma
né Google (il cui algoritmo è nato a spese dei contribuenti) né Apple pagano
granché di tasse, almeno in confronto alle loro entrate.
Dunque che fare? Dobbiamo riflettere concretamente su come creare ecosistemi più simbiotici, nei quali il governo non si limiti a sollevare il settore privato dai rischi, ma prenda parte tanto a quelli che ai guadagni che ne derivano. Questi potrebbero derivare da prestiti accordati in funzione dei redditi futuri, dall'accordare allo stato una certa quantità di azioni o una golden share sui diritti di proprietà intellettuale, o mediante altri strumenti ancora. Spesso, su testate come The Economist, si parla dello Stato come di un leviatano, sorta di mostro gigante che ostacolerebbe l'innovazione. Il mio obbiettivo è rendere il dibattito al riguardo meno ideologico, per cominciare a riflettere più seriamente sul rapporto fra Stato e mercato. Una volta compreso il ruolo dello stato come innovatore che assume grandi rischi usando risorse collettive, dobbiamo creare meccanismi concreti per socializzare e condividere anche i guadagni. Solo così possiamo ottenere una crescita equa e di lungo termine.
Dunque che fare? Dobbiamo riflettere concretamente su come creare ecosistemi più simbiotici, nei quali il governo non si limiti a sollevare il settore privato dai rischi, ma prenda parte tanto a quelli che ai guadagni che ne derivano. Questi potrebbero derivare da prestiti accordati in funzione dei redditi futuri, dall'accordare allo stato una certa quantità di azioni o una golden share sui diritti di proprietà intellettuale, o mediante altri strumenti ancora. Spesso, su testate come The Economist, si parla dello Stato come di un leviatano, sorta di mostro gigante che ostacolerebbe l'innovazione. Il mio obbiettivo è rendere il dibattito al riguardo meno ideologico, per cominciare a riflettere più seriamente sul rapporto fra Stato e mercato. Una volta compreso il ruolo dello stato come innovatore che assume grandi rischi usando risorse collettive, dobbiamo creare meccanismi concreti per socializzare e condividere anche i guadagni. Solo così possiamo ottenere una crescita equa e di lungo termine.
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