Tratto da “Cercando
il sogno dei padri” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 18 di agosto dell’anno 2018: Un ponte italiano, progettato da
un italiano, costruito da italiani sopra i palazzi di una grande città
italiana. Quasi tutte italiane le vittime. La catastrofe del viadotto Morandi
contiene un implacabile richiamo alla nostra specifica vicenda nazionale, messa
quasi tra parentesi da mesi e anni di ossessivo discutere, e scannarsi, su
globalizzazione, migrazione, Europa cattiva, come se fosse il mondo, il nostro
problema.
Mai noi. Se non è il classico capro espiatorio, il panico xenofobo che è stato il primo motore degli attuali rivolgimenti politici, certo è fortemente imputabile di avere distolto il pensiero della politica (quel poco o tanto che ne rimane) dalla natura stessa del suo lavoro, che è, o sarebbe, parlare davvero di noi, della nostra storia, della maniera in cui siamo cresciuti e ci siamo feriti, dello stato della nostra comunità. "Prima gli italiani"? Appunto: parliamo davvero di noi. I Padri costruirono quel ponte, e grande parte della modernità italiana, con ingegno e con fretta, con cieco entusiasmo. I filmati in bianco e nero ci mostrano un Paese febbrile e fiducioso, passato in larga parte dalla miseria al benessere in meno di due decenni, dalle macerie della guerra e dai tratturi per somari ai ponti autostradali, alle grandi periferie operaie, alle zone industriali che si mangiavano i campi spingendo sempre più in là le greggi di pecore. Conobbi un vecchio camionista meridionale che mi raccontò di essersi fermato, in preda al panico, quando aprirono l'Autosole da Bologna a Firenze: le campate nel vuoto lo terrorizzavano. "Mi parevano inumane", mi disse, e nelle parole di un uomo semplice si sentiva vibrare la Storia. Una pattuglia della Stradale lo accompagnò dall'altra parte, facendo scorta al suo passaggio (e a quello di un popolo intero) dall'Italia contadina a quella che stava diventando, a passi frenetici, una grande potenza industriale. Non dovremmo parlare con disprezzo liquidatorio del lavoro dei Padri: nemmeno di fronte all'evidenza dei loro errori. Non tutti ladri, non tutti venduti al Progresso, il loro errore fu di imprevidenza, di quasi ebbra fiducia nel domani, infine di sguardo corto: non c'era visione armonica di quello che avrebbe potuto accadere ed è effettivamente accaduto, e tranne pochi veggenti (il grande poeta Zanzotto parlò di "progresso scorsoio"; Pasolini di "sviluppo senza progresso") nessuno spese troppa fatica per calcolare la durata degli stralli di calcestruzzo nei secoli e nei decenni; né la durata, e l'utilità, di tutto quanto il resto. Bisognava arrivare a tutti i costi da una valle all'altra, dal mare ai monti. Per noi, a conti fatti e a funerali in corso, è troppo facile, troppo ovvio dire che si erano sbagliati. Certo che si erano sbagliati, fecero conti troppo ottimisti non solamente sulla durata del calcestruzzo, anche sul complessivo esito di un progresso così vorticoso, quasi dissennato. Ma noi posteri possiamo dirlo, che si erano sbagliati, a una condizione, anzi due. La prima è che di quegli errori siamo in grado di riconoscere anche i non indifferenti vantaggi, la modernità con i suoi comfort, il lucro non certo e non solo appannaggio di pochi avidi speculatori, come dice oggi qualche ministro demagogo, ma di un enorme indotto (milioni di italiani) che su quel modello di sviluppo si è arricchito, è uscito dalla miseria, ha trovato un lavoro, ha potuto viaggiare e conoscere il mondo. E soprattutto, seconda condizione, che di quegli errori noi figli siamo in grado di fare tesoro: perché è esattamente dagli errori che si impara. Non si sapeva niente, allora, degli impatti ambientali; pochissimo della fragilità di un territorio che venne rapinato e spremuto metro dopo metro, come se fossero le sterminate praterie del West e non un fitto e delicato intreccio di crinali, alvei di fiumi, cittadine sospese sui monti o sprofondate nei fondovalle. Ben più grave, dunque, è l'abuso di territorio che facciamo adesso, che almeno in teoria sappiamo ciò che i Padri ancora non sapevano: i ponti abbandonati alla corrosione, o alla metà dell'opera; la manutenzione considerata una spesa inutile (perché non rende a breve...); gli asfalti bucherellati e indecenti, magari rabberciati il mese scorso; le opere inutili fatte ugualmente e quelle utili non fatte per la paura idiota che qualunque lavoro pubblico sia sinonimo, in sé, di ruberia e di mafia. La fragilità del nostro sviluppo, squarciato in più punti e squilibrato nel suo complesso, richiederebbe riflessione, pensiero, umiltà nell'individuare i punti di rottura (come nei ponti) e concordia nel lavorare per una ripartenza più equilibrata, più previdente. Non è il tanto (ma non tutto) d'Italia mal costruito dai Padri, il problema. Il problema è il presente, la perdurante incapacità di uno sguardo olistico, o almeno non meschino, su un territorio così magnifico e così vulnerabile, sul suo uso e la sua cura. Le infrastrutture sono esse stesse territorio, ne sono parte importante, meritano di essere custodite e benvolute come i boschi e i litorali, possono essere ripensate alla luce di giganteschi progressi tecnologici, e di ben maggiore contezza degli impatti, dei pericoli, delle controindicazioni. Le liti querule, le dichiarazioni retoriche, le divisioni astiose valgono zero di fronte al crollo di un ponte che fu uno dei simboli del Boom italiano. Possiamo vomitarlo tutto intero, quel Boom, rigettarlo insieme alla fatica dei Padri, come vorrebbe una vox populi moralista e infantile, che in tutto ciò che odora e riluce di potenza operativa, di tecnologia, di ingegno, vede solamente la manina del ladro, la bustarella, la corruzione spicciola. Oppure possiamo esaminarne i cocci, come gli enormi blocchi di calcestruzzo insanguinato poggiati sulle case di Sampierdarena, capirne la debolezza, provare a ripartire proprio là dove gli italiani di allora hanno sbagliato. Chiedersi se la politica, oggi, sia in grado di produrre uno sforzo simile, vuol dire sognare qualcosa che non c'è. Almeno in questo dovremmo prendere esempio dai Padri: che sognarono qualcosa che non c'era, in un Paese in macerie, i ponti distrutti in larga parte dalla guerra. Mia madre mi raccontava spesso del suo "meraviglioso viaggio", tornando dall'America, tra Napoli e Milano, nel 1947. Quattro giorni, un poco in treno, un poco in camion, "ma in un Paese che scoppiava di vita, e di voglia di ricominciare". Quello che deve davvero preoccuparci, tra le macerie di oggi, è che non si vede, negli italiani e in chi li rappresenta, la voglia di ricominciare.
Mai noi. Se non è il classico capro espiatorio, il panico xenofobo che è stato il primo motore degli attuali rivolgimenti politici, certo è fortemente imputabile di avere distolto il pensiero della politica (quel poco o tanto che ne rimane) dalla natura stessa del suo lavoro, che è, o sarebbe, parlare davvero di noi, della nostra storia, della maniera in cui siamo cresciuti e ci siamo feriti, dello stato della nostra comunità. "Prima gli italiani"? Appunto: parliamo davvero di noi. I Padri costruirono quel ponte, e grande parte della modernità italiana, con ingegno e con fretta, con cieco entusiasmo. I filmati in bianco e nero ci mostrano un Paese febbrile e fiducioso, passato in larga parte dalla miseria al benessere in meno di due decenni, dalle macerie della guerra e dai tratturi per somari ai ponti autostradali, alle grandi periferie operaie, alle zone industriali che si mangiavano i campi spingendo sempre più in là le greggi di pecore. Conobbi un vecchio camionista meridionale che mi raccontò di essersi fermato, in preda al panico, quando aprirono l'Autosole da Bologna a Firenze: le campate nel vuoto lo terrorizzavano. "Mi parevano inumane", mi disse, e nelle parole di un uomo semplice si sentiva vibrare la Storia. Una pattuglia della Stradale lo accompagnò dall'altra parte, facendo scorta al suo passaggio (e a quello di un popolo intero) dall'Italia contadina a quella che stava diventando, a passi frenetici, una grande potenza industriale. Non dovremmo parlare con disprezzo liquidatorio del lavoro dei Padri: nemmeno di fronte all'evidenza dei loro errori. Non tutti ladri, non tutti venduti al Progresso, il loro errore fu di imprevidenza, di quasi ebbra fiducia nel domani, infine di sguardo corto: non c'era visione armonica di quello che avrebbe potuto accadere ed è effettivamente accaduto, e tranne pochi veggenti (il grande poeta Zanzotto parlò di "progresso scorsoio"; Pasolini di "sviluppo senza progresso") nessuno spese troppa fatica per calcolare la durata degli stralli di calcestruzzo nei secoli e nei decenni; né la durata, e l'utilità, di tutto quanto il resto. Bisognava arrivare a tutti i costi da una valle all'altra, dal mare ai monti. Per noi, a conti fatti e a funerali in corso, è troppo facile, troppo ovvio dire che si erano sbagliati. Certo che si erano sbagliati, fecero conti troppo ottimisti non solamente sulla durata del calcestruzzo, anche sul complessivo esito di un progresso così vorticoso, quasi dissennato. Ma noi posteri possiamo dirlo, che si erano sbagliati, a una condizione, anzi due. La prima è che di quegli errori siamo in grado di riconoscere anche i non indifferenti vantaggi, la modernità con i suoi comfort, il lucro non certo e non solo appannaggio di pochi avidi speculatori, come dice oggi qualche ministro demagogo, ma di un enorme indotto (milioni di italiani) che su quel modello di sviluppo si è arricchito, è uscito dalla miseria, ha trovato un lavoro, ha potuto viaggiare e conoscere il mondo. E soprattutto, seconda condizione, che di quegli errori noi figli siamo in grado di fare tesoro: perché è esattamente dagli errori che si impara. Non si sapeva niente, allora, degli impatti ambientali; pochissimo della fragilità di un territorio che venne rapinato e spremuto metro dopo metro, come se fossero le sterminate praterie del West e non un fitto e delicato intreccio di crinali, alvei di fiumi, cittadine sospese sui monti o sprofondate nei fondovalle. Ben più grave, dunque, è l'abuso di territorio che facciamo adesso, che almeno in teoria sappiamo ciò che i Padri ancora non sapevano: i ponti abbandonati alla corrosione, o alla metà dell'opera; la manutenzione considerata una spesa inutile (perché non rende a breve...); gli asfalti bucherellati e indecenti, magari rabberciati il mese scorso; le opere inutili fatte ugualmente e quelle utili non fatte per la paura idiota che qualunque lavoro pubblico sia sinonimo, in sé, di ruberia e di mafia. La fragilità del nostro sviluppo, squarciato in più punti e squilibrato nel suo complesso, richiederebbe riflessione, pensiero, umiltà nell'individuare i punti di rottura (come nei ponti) e concordia nel lavorare per una ripartenza più equilibrata, più previdente. Non è il tanto (ma non tutto) d'Italia mal costruito dai Padri, il problema. Il problema è il presente, la perdurante incapacità di uno sguardo olistico, o almeno non meschino, su un territorio così magnifico e così vulnerabile, sul suo uso e la sua cura. Le infrastrutture sono esse stesse territorio, ne sono parte importante, meritano di essere custodite e benvolute come i boschi e i litorali, possono essere ripensate alla luce di giganteschi progressi tecnologici, e di ben maggiore contezza degli impatti, dei pericoli, delle controindicazioni. Le liti querule, le dichiarazioni retoriche, le divisioni astiose valgono zero di fronte al crollo di un ponte che fu uno dei simboli del Boom italiano. Possiamo vomitarlo tutto intero, quel Boom, rigettarlo insieme alla fatica dei Padri, come vorrebbe una vox populi moralista e infantile, che in tutto ciò che odora e riluce di potenza operativa, di tecnologia, di ingegno, vede solamente la manina del ladro, la bustarella, la corruzione spicciola. Oppure possiamo esaminarne i cocci, come gli enormi blocchi di calcestruzzo insanguinato poggiati sulle case di Sampierdarena, capirne la debolezza, provare a ripartire proprio là dove gli italiani di allora hanno sbagliato. Chiedersi se la politica, oggi, sia in grado di produrre uno sforzo simile, vuol dire sognare qualcosa che non c'è. Almeno in questo dovremmo prendere esempio dai Padri: che sognarono qualcosa che non c'era, in un Paese in macerie, i ponti distrutti in larga parte dalla guerra. Mia madre mi raccontava spesso del suo "meraviglioso viaggio", tornando dall'America, tra Napoli e Milano, nel 1947. Quattro giorni, un poco in treno, un poco in camion, "ma in un Paese che scoppiava di vita, e di voglia di ricominciare". Quello che deve davvero preoccuparci, tra le macerie di oggi, è che non si vede, negli italiani e in chi li rappresenta, la voglia di ricominciare.
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