"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 22 agosto 2020

Virusememorie. 37 «La pandemia non ci insegnerà a rispettare l’ambiente, a ripensare gli allevamenti intensivi, a prevenire i mutamenti climatici».


Tratto da «Covid, “narrazione” per gli increduli» di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20 di agosto 2020:
(…). Paladini di una concezione individualistica della libertà, convinti che il contagio sia un’invenzione o un’esagerazione; ma increduli sono anche pensatori “progressisti”, preoccupati della libertà collettiva e della democrazia. Questa neo-incredulità è radicalmente diversa da quella, che so, del Trecento o del Seicento, quando i meccanismi di trasmissione di un morbo erano tutt’altro che chiari, e men che mai dimostrati. Azzardiamo una definizione: quella che vediamo fiorire intorno a noi è un’incredulità post-moderna. Presuppone la tendenza a relativizzare il valore della conoscenza, anche se obiettiva e scientifica, e la riduzione della storia a “narrazione”, da decostruire frantumandola in atomi staccati l’un dall’altro, ciascuno dei quali da solo non vale nulla. Secondo questa visione del mondo, gli interessi e gli scopi del narrante orientano l’uso dei dati, e dunque due narrazioni opposte degli stessi eventi possono essere egualmente attendibili: «i fatti non hanno che una sola esistenza, la loro formulazione linguistica» (Roland Barthes). Perciò Carlo Ginzburg, in una famosa polemica con lo storico americano Hayden White, dovette energicamente richiamare il principio di realtà che deve governare il lavoro dello storico, e lo fece ricorrendo all’Olocausto: nessuno vorrà dire che la “narrazione” dei negazionisti e quella di Primo Levi siano per noi egualmente valide. Le pratiche postmoderne della decostruzione e il ruolo-guida delle retoriche della narrazione nacquero nell’ambito delle scienze umane, trovando un fecondo terreno di coltura nella politica. Da sempre governanti d’ogni sorta hanno mentito ai sudditi o agli elettori, ma la pretesa equivalenza d’ogni possibile “narrazione” e il ripudio del principio di verità forniscono a questa antica pratica di governo un sigillo inatteso e allargano i confini del suo esercizio: non più solo il racconto o l’interpretazione dei fatti di attualità, ma perfino le leggi della natura (a queste appartengono i meccanismi del contagio), le certezze della scienza, le competenze specifiche. E se un capo di Stato è legittimato a negare l’evidenza, perché non dovrebbero farlo anche i cittadini? Anzi, nei Paesi dove – come in Italia – il governo è più rigoroso nella lotta al contagio, l’incredulità prende i colori dell’opposizione politica, persino di un puntiglioso legalismo (…). Se è vero che una tal peste (la narrazione che sfratta il principio di realtà) ha preso forma nell’ambito delle scienze umane, quanto è fuori strada la “narrazione” secondo cui le scienze umane non contano più nulla! Ma questa incredulità postmoderna davanti all’estensione e profondità della pandemia ha anche altre peculiarità. Chi sottovaluta il contagio non può ignorare che fior di medici, biologi, epidemiologi lo stanno prendendo molto sul serio, né che i Paesi che si sono decisi a un precoce lockdown, come l’Italia, ne hanno avuto palese beneficio. Se questi dati di fatto non bastano, è anche perché vengono minati alla base da una cieca fiducia nel progresso (come è mai possibile un’epidemia? Non siamo mica nel medioevo!) e da una fede astratta ma tenace nello status quo di un’economia del benessere che non potrà mai tramontare. Che questa sia anche l’economia delle diseguaglianze, dell’ingiustizia sociale, delle emarginazioni sembra meno importante. Lo status quo va anzi bene a tutti.
Anche a “sinistra”, purché assicuri la libertà di criticare (a pancia piena) le iniquità e di commuoverci in coro per le sofferenze altrui. Per chi (s)ragiona così, il virus è una zeppa passeggera che inceppa i meccanismi che regolano il mondo: ma la mano invisibile dei mercati, benedetta o maledetta che sia, non potrà che trionfare. Questo (s)ragionare è anzi così diffuso da scoraggiare ogni ottimismo. No, la pandemia non ci insegnerà a rispettare l’ambiente, a ripensare gli allevamenti intensivi, a prevenire i mutamenti climatici. La panacea del vaccino è sospirata proprio e solo per tornare allo status quo ante. Dopo 22 milioni di casi accertati e oltre 800.000 morti (dati approssimati per difetto) non è avventato dire che il contagio è un fatto, e lo sono le sue conseguenze. Il contrasto fra Paesi più attenti a circoscrivere l’infezione (come l’Italia) e Paesi irresponsabili (come il Brasile) è un altro fatto innegabile. Ed è alla luce di questi fatti che devono orientarsi azioni di governo e comportamenti dei cittadini nei prossimi mesi. Eppure, e questo è vero anche in Italia, abbiamo fatto talmente il callo al relativismo di qualsiasi notizia, e siamo così pronti ad accettare qualsivoglia fake news, che siamo facile preda di approssimazioni, facilonerie, dilettantismi d’ogni sorta, anche quando va di mezzo la scienza: lo sa bene Putin, quando solletica la nostra speranza con l’annuncio di un vaccino non ancora sperimentato. L’incredulità post-moderna prende piede perché, mentre nega la gravità della pandemia, non prende posizione contro la scienza: piuttosto, la svilisce a “narrazione”, contrapponendole un’altra “scienza” a uso proprio. L’immunità di gregge di Johnson, le mille incoerenti sciocchezze di Trump, i prodigiosi effetti dell’idrossoclorochina secondo Bolsonaro. Senza negare la competenza degli esperti, si inventano versioni alternative, provando a imporre la propria “narrazione”. Si sbandiera una sorta di positivismo di ritorno (la mia scienza contro la tua), che sembra reggere il gioco perché non nega la scienza, ma la manipola a suo piacimento, usando un’autorità politica per deformare cinicamente la verità scientifica. Si ricusa lo studio dei fatti nel loro concatenarsi, riducendoli invece a pulviscolo, per legittimarne ogni possibile interpretazione. Su questo sfondo, chi cambia opinione ogni ora (come Salvini) non è che l’epifenomeno di un generalizzato costume che allontana i fatti l’uno dall’altro, allenta i meccanismi di controllo, separa la conclamata fiducia nella scienza dal riconoscimento della competenza, legittima prese di posizione irresponsabili perché dettate solo da convenienza o da appartenenza politica. Un grande storico italiano, Arnaldo Momigliano, ammoniva che le divergenze intellettuali e morali nell’interpretazione dei fatti sono lecite e feconde, ma solo a patto che possano essere collegate alla verità, misurate sulla verità. Davanti a una situazione sanitaria, politica e di costume che minaccia le nostre vite, sarebbe il caso di ricordarsene.

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