Sopra. Affresco (1640-41) di Pietro da Cortona che ha per titolo "L'età del ferro".
“DelleGuerre” 1. “L’età del ferro è oggi”, testo di Tomaso Montanari pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 4 di luglio 2025: Nell'età del Ferro se ne andarono il pudore la sincerità, la fiducia, e presero a regnare invece le frodi, gli inganni, la violenza e un amore criminale del possesso. Dalla terra non si ottennero più solo i frutti, ma si cominciò a scavarla e vennero fuori due metalli letali: il ferro, appunto, con il quale si fanno le armi. E l'oro, molto più pericoloso: perché le armi le muove e le governa. E alla fine la Giustizia lasciò la terra, inzuppata di sangue, per tornarsene in cielo. Sono più o meno queste le parole delle Metamorfosi di Ovidio che Pietro da Cortona si vide consegnare dalla corte medicea per immaginare il suo affresco sull'età del Ferro, ultimo dei quattro della piccola Sala della Stufa, a Palazzo Pitti, dedicati alle varie fasi della storia umana. Il risultato (…): una città è messa letteralmente a ferro e a fuoco, mentre soldati in armi uccidono vecchi, rapinano donne e templi, uccidono e violentano senza freni. Il nuovo "stile concitato" - qualche decennio più tardi prenderemo a chiamarlo "barocco" - raggiungeva la sua maturità, in una terribile eloquenza: il movimento, la furia, la forza erano quelle delle guerre vere, le guerre sanguinose che gli uomini e le donne del Seicento conoscevano bene. Mai come oggi, tuttavia, queste immagini sembrano parlare del nostro, di tempo: di questa età ferrea in cui i governanti non sono saggi, anzi sono pericolosi esaltati. E in cui il diritto è di nuovo sottoposto alla forza: senza nemmeno l'ipocrisia di un nascondimento, di un velo di resipiscenza, per non dire di vergogna. La legge del più forte è teorizzata, celebrata, propugnata: purché il più forte siamo noi. Così, vedendo questo affresco i cantori dell’”identità occidentale" (quelli che riscrivono i programmi scolastici di questa età di ferro...) ci suggerirebbero un'unica accortezza: di identificarci con chi il ferro lo brandisce, non con chi lo subisce. Con i vincenti, non importa quanto mostruosamente violenti: la parte giusta della storia è questa, ora. Con Trump, non con i civili iraniani. Con Netanyahu, non con le persone di Gaza... (…).
“DelleGuerre” 2. “L’Idf uccide, ma gli artisti palestinesi non muoiono”, testo di Francesca Fornario pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di luglio 2025: Voglio che il mondo sappia che Gaza ha una voce. Israele vuole silenziarla uccidendoci mentre noi non vogliamo uccidere gli israeliani. Noi vogliamo vivere, a casa nostra". Tra le 39 vittime delle bombe sull'internet café al Baqa, dove tutti andavano perché era tra i pochi posti rimasti con la connessione, il fotografo Ismail Abu Hatab, fondatore di ByPa, collettivo di artisti. La foto-profilo è il ritratto che gli ha fatto Amina al Salmi, in arte Frans, anche lei uccisa mentre postava i suoi dipinti. Uno raffigura Frida Kahlo: "Dipingo i fiori perché non muoiano". Frans dipingeva i morti perché non morissero. "Si muore solo quando si viene dimenticati", scriveva Isabelle Allende. L'ultima morta che Frans ha dipinto ora è lei: avvolta dal velo bianco insanguinato. "Migliori frappè di Gaza". 5 Stelle. Le recensioni, ferme a due anni fa, quando il caffè in riva al mare era il posto dove le famiglie guardavano le partite. Su Google Maps, Gaza è ferma all'inizio dei bombardamenti. I satelliti mostrano intere aree incenerite ma senza i dettagli che fino al 2024 acquisivano con le riprese aeree. C'è la funzione per andare indietro nel tempo: la distruzione, dal 1990, è impressionante. Servirebbe nella vita la funzione per tornare indietro e ricostruire le case dalle loro macerie, le persone dai brandelli dei corpi: riportare le schegge nelle bombe e le bombe nelle stive degli aerei e i piloti a casa, camminando a ritroso, come immagina Kurt Vonnegut in Mattatoio N.5. Quanto indietro dovremmo camminare, far rinascere gli ulivi dalle ceneri, rimontare le case dei contadini cacciati dalla loro terra? Il corpo di Ismail Abu Hatab e quello di Frans restano tra le sedie bruciate del café al Baqa, ma loro girano il mondo: "Betueen the sky and the sea", allestita a Chicago, Los Angeles, è l'installazione che Ismail ha immaginato per farci sentire come il 90% degli abitanti di Gaza. In una tenda, senza più casa. "Un'esperienza immersiva", si dice, dentro una tenda dell'Unhcr con un materasso e le foto scattate a Gaza: bambini si tuffano in mare, sullo sfondo, colonne di fumo. La prima volta che ho fatto un'esperienza immersiva è stato al museo dell'Olocausto di Berlino. Chiusa al buio per sentire l'eco del terrore degli ebrei rinchiusi nelle baracche. Quando sento qualcuno invocare l'avvertimento che precede le bombe, per giustificare Israele, mi si gela il sangue come allora. "Una casa non è solo un riparo", scriveva Ismail: "Perderla è perdere una parte del corpo". Se dicessero a noi uscite entro un'ora dalle vostre case, scuole, curve degli stadi? Lasciate l'album delle foto del matrimonio, il servizio buono, il vestito buono, la chitarra, la cuccia del gatto e pure il gatto se in braccio avete da stringere un figlio. Lasciate i quadri alle pareti e tutti i libri, i dischi, le piante, le uova nel frigo. Li lasceremmo fare o ci aspetteremmo che l'Onu, l'Ue, la Nato lo impedissero? Valgono meno le case, i dischi, i gatti dei palestinesi? Scrivo ai lettori del Fatto perché la tenda di Ismail voglio portarla qui. Con le foto di Fatima Hassouna, i disegni di Frans. Ci faremo entrare chi dice "Fosse un genocidio non avvertirebbero prima di bombardare”. Lo dicono perché in quelle tende non ci hanno messo piede. Li faremo tornare sui loro passi, come il pilota che cammina a ritroso e torna a casa, a scuola, nel ventre materno, fino al punto in cui era ancora possibile provare compassione. La ragione per la quale il mondo va così è che abbiamo lasciato al comando quelli che non sono capaci di mettersi nelle tende degli altri. Ci state?
“DelleGuerre” 3 “Le guerre di oggi viste da Hiroshima”, testo di Annalisa Cuzzocrea pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 4 di luglio 2025: «Ma Trump ha mai visto un museo del genere?». Chiara ha undici anni e ha appena visto crollare in lacrime accanto a sé una ragazzina giapponese che come lei stava visitando il memoriale della pace di Hiroshima. Tra un mese saranno passati 80 anni dalle otto e un quarto di quel 6 agosto 1945 in cui una sola bomba – la prima atomica sganciata per uccidere – sterminò all’istante 80 mila persone mentre altre 60 mila morirono nei mesi successivi per i danni riportati dall’esplosione e dalle radiazioni. E altre di mali incurabili, negli anni che seguirono. Hiroshima è una città ricostruita intorno a un monito: mai più. Tutto qui ricorda la bomba e tutto induce a riflettere sull’assurdità delle armi nucleari: armi nate per lo sterminio. Chi visita il museo e si ferma a guardare i volti dei sopravvissuti e di chi è morto senza più la pelle addosso, le scatoline per il pranzo dei bambini riconosciute dalle madri accanto ai loro corpi carbonizzati, lo fa in un silenzio assoluto. Come in preghiera. «C’è un clima di rispetto e di umanità», mi dice il diciassettenne, colpito. In questo viaggio programmato da tempo e arrivato in mezzo ai missili tra Iran e Israele e alle dichiarazioni strampalate di Donald Trump, non siamo riusciti a tenere fuori la guerra. È troppo presente nelle loro vite, nelle notizie che scorrono sui loro telefoni. Impone troppe domande cui noi adulti non siamo in grado di rispondere. No, non so se Trump abbia mai visto il museo di Hiroshima, ma so che il giorno dopo che Chiara mi ha fatto quella domanda il presidente degli Stati Uniti ha detto che il bombardamento americano su due siti nucleari iraniani è stato come Hiroshima: ha messo fine alla guerra. Ha quindi parlato di un abominio perpetrato sul finire della Seconda guerra mondiale da chi si opponeva al nazismo come fosse una cosa positiva e non un crimine storico imperdonabile. Lo ha fatto senza alcuna considerazione di quei 140 mila morti, né di quelli di Nagasaki, né di tutte le vittime civili delle terribili guerre in corso. Il diciassettenne mi dice: «Non c’è logica, è come non sapessimo a cosa porta la guerra, e invece lo sappiamo». Ha ragione, non c’è logica, ed è incredibile quanto i ragazzi siano più attrezzati a vederlo degli adulti. Siamo spesso in cerca di una spiegazione per la fragilità che imputiamo alle nuove generazioni: l’ansia onnipresente, i disturbi psicologici, le difficoltà emotive. Siamo abituati a pensare che per loro, nel nostro pezzo di mondo e almeno finora, sia tutto più semplice. Ma da quel che vedo attraverso i miei figli e i loro amici, l’irrazionalità che li circonda, il caos che domina la politica mondiale, hanno un peso enorme sui loro sentimenti, sulle aspettative, le paure. «Perché si chiama memoriale della pace se ci sono solo immagini di guerra?», chiede Chiara. «Per ricordare l’orrore e far sì che non si ripeta», diciamo fieri di avere la risposta. «Ha senso», concede lei. Ma nessuno dei due sembra convinto che possa bastare.
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