Tratto da "Post-verità,
la parola dell'era Trump” di Christian Salmon, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 17 di novembre dell’anno 2016: "Il suddito ideale del regno
totalitario", scriveva Hannah Arendt, "non è il nazista convinto né
il comunista convinto, ma l'uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione, e
la distinzione tra vero e falso, non esistono più". È un'eccellente
definizione del candidato Donald Trump, che il 9 novembre 2016 è diventato il
45° presidente degli Stati Uniti. Mai un uomo politico aveva cancellato a tal
punto la frontiera tra vero e falso, tra realtà e finzione. Per Donald Trump,
che ha fatto campagna per 16 mesi moltiplicando le bugie, le dicerie e le
calunnie, è la capacità di produrre adesione, di sedurre, di ingannare che
conferisce validità alla parola pubblica. È l'auditel che decide tra il vero e
il falso, tra ciò che è reale e ciò che è fittizio. "Ha mentito in modo
strategico", ha dichiarato Tony Schwartz, il ghost writer di Trump.
"Non gli procurava nessuno scrupolo di coscienza". A molte persone
"la verità va stretta", e l'indifferenza di Trump alla verità
"curiosamente ha rappresentato un vantaggio per lui". Per quanto i
media si sforzassero di opporre la verifica dei fatti alle sue menzogne, la
Realpolitik alle sue fantasticherie isolazioniste, la morale alle sue
molteplici scivolate sessiste e razziste, la Trumposfera agiva come un buco
nero che assorbe le critiche e i richiami all'ordine. I mezzi di informazione possono
trattarlo da fascista, da neofascista, possono compararlo allo stesso Hitler,
"la gente se ne frega", replica lui arrogante. Che è l'atteggiamento
tipico dei fascisti. E rilancia ancora di più la provocazione con una nuova
osservazione razzista contro i musulmani, gli ispanici, le donne e gli
omosessuali, infiammando di nuovo i media scandalizzati... "In Donald
Trump", scriveva Roger Cohen sul New York Times, "c'è un candidato
realmente fuori dagli schemi: è uno che mente in continuazione, che insulta,
che usa un linguaggio che finora non si era mai visto.
Se voi dite, 'C'è qualcuno che vuole essere presidente degli Stati Uniti e mente di continuo', e milioni di persone dicono, 'Okay, sì, forse è una cosa che non si deve fare, ma voterò comunque per lui', penso che ci sia un'analisi molto approfondita da fare". Certo, possiamo dare la colpa alla credulità degli elettori o alla complicità dei canali all-news - Fox News, Msbnc e Cnn - che grazie a Trump hanno ottenuto dei record di ascolto e degli introiti pubblicitari stimati in diversi miliardi di dollari. Ma come spezzare la spirale che lega le provocazioni di Trump ai record di ascolto delle televisioni, e questi record al consenso elettorale? Le spiegazioni non mancano. Negli Stati Uniti è stato addirittura coniato un neologismo per designare questa nuova era di menzogna politica, la "politica del post-verità". L'incontro dei movimenti populisti e dei social network avrebbe creato un nuovo contesto e un nuovo regime di verità caratterizzato dall'apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, torri di informazione immuni ai checks and balances tradizionali che facevano da arbitri nello spazio pubblico. Gli individui ormai possono scegliere la loro fonte di informazione in funzione delle proprie opinioni e dei propri pregiudizi, in una sorta di inviolabilità ideologica che è anche una forma di autismo informativo. Questo può spiegare una forma di frammentazione delle opinioni pubbliche, ma non il continuo rilancio verbale, l'isterizzazione del dibattito pubblico che abbiamo constatato nel corso di questa campagna. In un articolo del New York Times pubblicato qualche giorno prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, dal 1993 al 2000 editorialista del Wall Street Journal e dopo il 2000 autore di diverse inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò il tenore di una conversazione che aveva avuto nell'estate del 2002 con un consigliere di George W. Bush. Questi, scontento di un articolo che Suskind aveva appena pubblicato sulla rivista Esquire a proposito dell'ex direttrice della comunicazione di Bush, Karen Hughes, lo aggredì inaspettatamente: "Mi disse che le persone come me facevano parte 'di quella che chiamiamo la comunità della realtà [reality-based community]: voi credete che le soluzioni emergano dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile'. Io assentii e mormorai qualcosa sui principi dell'illuminismo e l'empirismo. Lui mi interruppe: 'Non è più così che funziona realmente il mondo. Noi siamo un impero adesso e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, giudiziosamente come piace a voi, noi agiamo di nuovo e creiamo altre realtà nuove, che potete studiare a sua volta, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia. [...] E a voi, a tutti voi, non resta altro che studiare quello che noi facciamo'". Queste frasi, pronunciate da un responsabile politico americano di alto livello (forse Karl Rove) pochi mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologo, ma sembrano provenire da un palcoscenico teatrale più che da un ufficio della Casa Bianca. Perché non pongono soltanto un problema politico o diplomatico, ma ostentano una nuova concezione dei rapporti tra la politica e la realtà: i dirigenti della prima potenza mondiale si allontanano non soltanto dalla Realpolitik ma anche dal semplice realismo, per diventare creatori della loro realtà, padroni delle apparenze, rivendicando quella che potremmo definire una Realpolitik della finzione. L'articolo di Suskind fece sensazione. Gli editorialisti e i blogger si impadronirono dell'espressione reality-based community, che si diffuse sul web. "Nel corso degli ultimi tre anni", spiegava Jay Rosen, professore di giornalismo all'Università di New York, "anzi dall'inizio dell'avventura in Iraq, gli americani hanno assistito a clamorosi insuccessi dei servizi di intelligence, tracolli spettacolari nella stampa, un fallimento eclatante dei dispositivi pubblici di controllo delle azioni del Governo, come la scomparsa della vigilanza del Congresso e il cortocircuito del Consiglio nazionale di sicurezza, che erano stati istituiti proprio per evitare questi eventi. Parlando di 'sconfitta dell'empirismo', Suskind ha messo il dito sull'essenza di questo processo, che consiste nel limitare la deliberazione, il controllo, la ricerca dei fatti, l'inchiesta sul campo". Ron Suskind osservava che queste pratiche costituivano una rottura con una "lunga e venerabile tradizione" della stampa indipendente e del giornalismo di inchiesta. Denunciava una campagna "potente e diversificata, coordinata a livello nazionale", che mirava a screditare la stampa. A un giornalista che gli domandava se ritenesse che questi attacchi mirassero a eliminare il giornalismo di inchiesta, Suskind, rispondeva: "Assolutamente sì! È proprio questo l'obbiettivo, la scomparsa della comunità dei giornalisti onesti in America, che siano repubblicani o democratici, o membri dei grandi giornali. [...] Così non ci rimarrà più nient'altro che una cultura e un dibattito pubblico fondati sull'affermazione invece che sulla verità, sulle opinioni invece che sui fatti". Roosevelt fu il primo presidente a utilizzare la radio per comunicare con gli americani. Kennedy inaugurò l'era della televisione. Quando Roosevelt faceva un discorso alla radio, "la gente aveva il tempo necessario per riflettere, poteva combinare l'emozione e i fatti", spiega il neuroscienziato António Damásio. "Oggi, con internet e la televisione via cavo che diffondono informazioni 24 ore su 24, sei immerso in un contesto in cui non hai più il tempo di riflettere. Gli elettori sono guidati da sentimenti puri di simpatia o di avversione, di armonia o di disagio che gli ispirano i candidati che conoscono attraverso la loro narrazione". In società ipermediatizzate, percorse da flussi di informazioni continui, la capacità di strutturare una visione politica non con argomenti razionali ma raccontando delle storie, è diventata la chiave della conquista e dell'esercizio del potere. Non è più la pertinenza che dà alla parola pubblica la sua efficacia, ma la plausibilità, la capacità di mobilitare in suo favore grandi correnti di pubblico e di adesione... L'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è il punto culminante di questa evoluzione. Con lui, è l'universo dei reality che entra alla Casa Bianca. Più che di costruire la realtà si tratta di produrre un reality show permanente, un universo sfaldato dove la libertà di espressione deve costantemente dare prova di sé attraverso la trasgressione. Il reality show trumpista è un telecarnevale in cui va in scena senza posa il capovolgimento dell'alto e del basso, del nobile e del triviale, del raffinato e del volgare, il rifiuto delle norme e delle gerarchie costituite, la rabbia contro le élite. Trump è una figura del trash del lusso che trionfa sotto i segni del volgare, dello scatologico e della derisione. Il vincente sotto le fattezze del perdente. "Ho messo il rossetto a un maiale", secondo le parole del suo ghost-writer Tony Schwartz. Ai bianchi declassati, che hanno rappresentato il cuore del suo elettorato, propone una rivincita simbolica, la restaurazione di una superiorità bianca scossa dall'avanzata delle minoranze in una società sempre più multiculturale, specchio dei media e degli intellettuali. È contro questo specchio che Trump ha incanalato la rabbia verso le élite, gettando discredito sugli uni e ridando credito agli altri al prezzo di menzogne di ogni genere. E l'ha fatto usando le ricette dei reality televisivi, che soddisfano questo bisogno di rappresentazione, ben noto clinicamente, che si nutre dell'impotenza del vivere. È questo bisogno di rappresentazione che Donald Trump è riuscito a captare e trasformare in capitale politico. "Io assecondo le fantasie della gente. [...] La gente vuole credere che una certa cosa sia la più grande, la più eccezionale, la più spettacolare. Io la chiamo iperbole reale. È una forma innocente di esagerazione e una forma efficacissima di promozione". Dalla sua autobiografia “Trump: l'arte di fare affari”.
Se voi dite, 'C'è qualcuno che vuole essere presidente degli Stati Uniti e mente di continuo', e milioni di persone dicono, 'Okay, sì, forse è una cosa che non si deve fare, ma voterò comunque per lui', penso che ci sia un'analisi molto approfondita da fare". Certo, possiamo dare la colpa alla credulità degli elettori o alla complicità dei canali all-news - Fox News, Msbnc e Cnn - che grazie a Trump hanno ottenuto dei record di ascolto e degli introiti pubblicitari stimati in diversi miliardi di dollari. Ma come spezzare la spirale che lega le provocazioni di Trump ai record di ascolto delle televisioni, e questi record al consenso elettorale? Le spiegazioni non mancano. Negli Stati Uniti è stato addirittura coniato un neologismo per designare questa nuova era di menzogna politica, la "politica del post-verità". L'incontro dei movimenti populisti e dei social network avrebbe creato un nuovo contesto e un nuovo regime di verità caratterizzato dall'apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, torri di informazione immuni ai checks and balances tradizionali che facevano da arbitri nello spazio pubblico. Gli individui ormai possono scegliere la loro fonte di informazione in funzione delle proprie opinioni e dei propri pregiudizi, in una sorta di inviolabilità ideologica che è anche una forma di autismo informativo. Questo può spiegare una forma di frammentazione delle opinioni pubbliche, ma non il continuo rilancio verbale, l'isterizzazione del dibattito pubblico che abbiamo constatato nel corso di questa campagna. In un articolo del New York Times pubblicato qualche giorno prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, dal 1993 al 2000 editorialista del Wall Street Journal e dopo il 2000 autore di diverse inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò il tenore di una conversazione che aveva avuto nell'estate del 2002 con un consigliere di George W. Bush. Questi, scontento di un articolo che Suskind aveva appena pubblicato sulla rivista Esquire a proposito dell'ex direttrice della comunicazione di Bush, Karen Hughes, lo aggredì inaspettatamente: "Mi disse che le persone come me facevano parte 'di quella che chiamiamo la comunità della realtà [reality-based community]: voi credete che le soluzioni emergano dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile'. Io assentii e mormorai qualcosa sui principi dell'illuminismo e l'empirismo. Lui mi interruppe: 'Non è più così che funziona realmente il mondo. Noi siamo un impero adesso e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, giudiziosamente come piace a voi, noi agiamo di nuovo e creiamo altre realtà nuove, che potete studiare a sua volta, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia. [...] E a voi, a tutti voi, non resta altro che studiare quello che noi facciamo'". Queste frasi, pronunciate da un responsabile politico americano di alto livello (forse Karl Rove) pochi mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologo, ma sembrano provenire da un palcoscenico teatrale più che da un ufficio della Casa Bianca. Perché non pongono soltanto un problema politico o diplomatico, ma ostentano una nuova concezione dei rapporti tra la politica e la realtà: i dirigenti della prima potenza mondiale si allontanano non soltanto dalla Realpolitik ma anche dal semplice realismo, per diventare creatori della loro realtà, padroni delle apparenze, rivendicando quella che potremmo definire una Realpolitik della finzione. L'articolo di Suskind fece sensazione. Gli editorialisti e i blogger si impadronirono dell'espressione reality-based community, che si diffuse sul web. "Nel corso degli ultimi tre anni", spiegava Jay Rosen, professore di giornalismo all'Università di New York, "anzi dall'inizio dell'avventura in Iraq, gli americani hanno assistito a clamorosi insuccessi dei servizi di intelligence, tracolli spettacolari nella stampa, un fallimento eclatante dei dispositivi pubblici di controllo delle azioni del Governo, come la scomparsa della vigilanza del Congresso e il cortocircuito del Consiglio nazionale di sicurezza, che erano stati istituiti proprio per evitare questi eventi. Parlando di 'sconfitta dell'empirismo', Suskind ha messo il dito sull'essenza di questo processo, che consiste nel limitare la deliberazione, il controllo, la ricerca dei fatti, l'inchiesta sul campo". Ron Suskind osservava che queste pratiche costituivano una rottura con una "lunga e venerabile tradizione" della stampa indipendente e del giornalismo di inchiesta. Denunciava una campagna "potente e diversificata, coordinata a livello nazionale", che mirava a screditare la stampa. A un giornalista che gli domandava se ritenesse che questi attacchi mirassero a eliminare il giornalismo di inchiesta, Suskind, rispondeva: "Assolutamente sì! È proprio questo l'obbiettivo, la scomparsa della comunità dei giornalisti onesti in America, che siano repubblicani o democratici, o membri dei grandi giornali. [...] Così non ci rimarrà più nient'altro che una cultura e un dibattito pubblico fondati sull'affermazione invece che sulla verità, sulle opinioni invece che sui fatti". Roosevelt fu il primo presidente a utilizzare la radio per comunicare con gli americani. Kennedy inaugurò l'era della televisione. Quando Roosevelt faceva un discorso alla radio, "la gente aveva il tempo necessario per riflettere, poteva combinare l'emozione e i fatti", spiega il neuroscienziato António Damásio. "Oggi, con internet e la televisione via cavo che diffondono informazioni 24 ore su 24, sei immerso in un contesto in cui non hai più il tempo di riflettere. Gli elettori sono guidati da sentimenti puri di simpatia o di avversione, di armonia o di disagio che gli ispirano i candidati che conoscono attraverso la loro narrazione". In società ipermediatizzate, percorse da flussi di informazioni continui, la capacità di strutturare una visione politica non con argomenti razionali ma raccontando delle storie, è diventata la chiave della conquista e dell'esercizio del potere. Non è più la pertinenza che dà alla parola pubblica la sua efficacia, ma la plausibilità, la capacità di mobilitare in suo favore grandi correnti di pubblico e di adesione... L'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è il punto culminante di questa evoluzione. Con lui, è l'universo dei reality che entra alla Casa Bianca. Più che di costruire la realtà si tratta di produrre un reality show permanente, un universo sfaldato dove la libertà di espressione deve costantemente dare prova di sé attraverso la trasgressione. Il reality show trumpista è un telecarnevale in cui va in scena senza posa il capovolgimento dell'alto e del basso, del nobile e del triviale, del raffinato e del volgare, il rifiuto delle norme e delle gerarchie costituite, la rabbia contro le élite. Trump è una figura del trash del lusso che trionfa sotto i segni del volgare, dello scatologico e della derisione. Il vincente sotto le fattezze del perdente. "Ho messo il rossetto a un maiale", secondo le parole del suo ghost-writer Tony Schwartz. Ai bianchi declassati, che hanno rappresentato il cuore del suo elettorato, propone una rivincita simbolica, la restaurazione di una superiorità bianca scossa dall'avanzata delle minoranze in una società sempre più multiculturale, specchio dei media e degli intellettuali. È contro questo specchio che Trump ha incanalato la rabbia verso le élite, gettando discredito sugli uni e ridando credito agli altri al prezzo di menzogne di ogni genere. E l'ha fatto usando le ricette dei reality televisivi, che soddisfano questo bisogno di rappresentazione, ben noto clinicamente, che si nutre dell'impotenza del vivere. È questo bisogno di rappresentazione che Donald Trump è riuscito a captare e trasformare in capitale politico. "Io assecondo le fantasie della gente. [...] La gente vuole credere che una certa cosa sia la più grande, la più eccezionale, la più spettacolare. Io la chiamo iperbole reale. È una forma innocente di esagerazione e una forma efficacissima di promozione". Dalla sua autobiografia “Trump: l'arte di fare affari”.
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