Scriveva Pier Paolo Pasolini: «L’Italia sta marcendo in un benessere
che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo:
prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il
fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella
forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo
che apparentemente funziona con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre
essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole:
occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come
codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo
brutalmente egoista di una società». Lo scriveva P.P.P., con la Sua
scrittura sempre pregna di “patos” e le Sue intuizioni profetiche che
anticipavano sempre e le cose e gli avvenimenti a venire, su “Vie Nuove” il 6
di settembre dell’anno 1962. Ora sfido voi a negare come quelle Sue affermazioni
non si possano attagliare agli avvenimenti politico-sociali che hanno
interessato il bel paese da una indimenticata ed infausta “discesa in campo”, per
approdare poi al tempo del “rignanese”, tempo goliardicamente
definito della “rottamazione”, per giungere infelicemente a questo tempo nostro
del “me
ne frego”, tempo che con sprovvedutezza ed arroganza lo si è definito del
“cambiamento”.
P.P.P. lo aveva ben definito quell’aspetto della vita associata del bel paese
che non muta mai quella sua aspirazione latente, sonnacchiosa a quel “fascismo
eterno” per come lo avrebbe ben definito successivamente Umberto Eco. Avrebbe
P.P.P. definito al meglio le Sue intuizioni quando sul Corriere della Sera del
10 di giugno dell’anno 1974, nel pezzo che ha per titolo “Gli italiani non sono più quelli”, avrebbe scritto: «L’omologazione
culturale (…) riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto
sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che
genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è dunque differenza
apprezzabile – (…) – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un
qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente,
psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente,
interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente
che distingua – (…) – un fascista da un antifascista (…). Ecco perché
oggigiorno non può sorprendere più di tanto, né tantomeno scandalizzare – ché di
scandalizzarsi al momento siano stati in ben pochi lo si deve a quel trascorso
denunciato da P.P.P. – questo ritorno ad uno sfacciato, inquietante “me
ne frego” che impregna ed indirizza ogni svolazzo della pratica politica
dei temporanei reggitori della cosa pubblica. Di quel triste e becero “me
ne frego”, erroneamente considerato legato ad una passata, non
rinnovabile stagione storico-politica, ne ha un (caro, familiare) ricordo lo
scrittore Maurizio Maggiani che ce lo rende, con la vividezza e nitidezza della
Sua scrittura, in «Antifascismo è non
dire mai “me ne frego”», “pezzo” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del
21 di novembre 2018: Tanto
tempo fa, in un giorno d’estate, un futuro scrittore, allora ragazzino, rispose
così, sbadatamente, al papà, ricevendo in cambio il primo e unico schiaffo
della vita: “Ora capisco cosa voleva insegnarmi la sua mano”. Per tutto il
tempo che ha potuto esercitare la sua potestà sulla mia capoccia, mio padre ha
alzato le mani una sola volta per prenderla di mira, ed è stato un gran fatto,
un manrovescio, un patton nella mia lingua natale, che mi si è impresso nella
mente così come nel corpo, nel corpo tra guancia, orecchio e collo, un tinnire
di denti, un fischiare di orecchio, un palpitare di pupilla che ancora mi si
rievocano con cristallina presenza a mezzo secolo dall’accaduto. Ricordo il
tempo, era estate e andavo per la terza media, e naturalmente ricordo ragione e
motivo, e ricordo molto bene come mi fossero apparsi incomprensibili e
ingiustificabili, e come recriminassi, in silenti ma cogenti lacrime, la
gratuità di tanta crudele violenza. Di fatto avevo solo sbadatamente risposto
«me ne frego» a una qualche sua osservazione, la sostanza della quale mi parve
così irrilevante che, quella sì, non riesco a farmela tornare alla mente; mio
padre non era un uomo dedito a un intenso dialogo intergenerazionale, non
ritenne di dover accompagnare il gesto con verbo alcuno, dopodiché fece passare
un giorno intero prima di aprir bocca in merito all’accaduto, e lo fece con
poche e ben scandite parole: non voglio un fascista in casa mia. Mio padre
aveva dei problemi con il fascismo in generale e con i fascisti in particolare,
era stato condannato a morte in contumacia dalla Repubblica Sociale come
militare renitente, dopodiché lui e i fascisti si erano combattuti per due
interi anni armi in pugno nella montagna che si vedeva da casa nostra, proprio
dove andavamo a fare la scampagnata a ferragosto. Questo lo sapevo, mi era
stato raccontato, parcamente da mio padre e più diffusamente, con ricchi e
conturbanti particolari, dai suoi amici che venivano a trovarlo e che erano più
propensi a darmi confidenza; potevo dunque capire come mio padre riprovasse
fortemente l’idea di un fascista in casa sua, non mi capacitavo però per quale
ragione il fascista dovevo essere io, per via di quel «me ne frego», possibile?
Ci
dovetti pensare un po’, in effetti continuo a pensarci ancora, ci penso molto
in questi giorni per il gran parlare che si fa del fascismo, e anche
dell’antifascismo. Beh, sì, io sono antifascista, so che a questo punto posso
articolare un ragionamento intelligentemente complesso sul perché lo sono, ma
in tutta sincerità le ragioni fondanti del mio antifascismo sono di grande
semplicità. Mi sono fatto una prima, rudimentale coscienza antifascista intorno
ai tredici anni per vedere di risparmiarmi degli altri patriarcali manrovesci,
ho poi raffinato la coscienza non molti anni dopo, lontano ormai dalle grosse
mani paterne e per questa ragione propenso a considerare in libertà di cosa
intendessero parlare quelle mani, le mani parlanti di un uomo che non aveva che
poche parole e per il tempo che ha vissuto, con il lavoro delle sue mani aveva
edificato tutto ciò che intendeva essere e intendeva che il mondo fosse, tutto
ciò che di lui voleva si sapesse, e capisse. Non era il solo se è per questo,
sono nato e cresciuto tra uomini e donne che gli somigliavano, che con il lavoro
delle proprie mani compendiavano la loro vita e altro strumento per educarmi
non avevano se non il loro agire, il loro edificare. Agivano per la vita, e
nient’altro che vita edificavano; niente di che, vita da poco, vita di molta
miseria e qualche speranza, e quella loro speranza nella miseria trovava
ragione solo nel fatto che si incaparbivano a non fregarsene di niente e di
nessuno, di nessuno che vivesse, uomo, pianta, animale e sasso.
Di questo ho avuto coscienza diventato giovane uomo, giovane uomo lavoratore, di essere venuto alla luce e di vivere per mano di gente che se se ne fosse fregata di qualcosa si sarebbe sentita perduta, che se non si fosse presa preoccupazione anche solo della gallina che stava allevando per le uova dei suoi figli, come del compagno di lavoro che si era preso la pleurite, come di quei disgraziati che se n’erano venuti dal Polesine senza nemmeno una coperta addosso, sarebbe morta annegata nell’infelicità dei miserabili senza speranza, e per quello che ne potevano sapere, nell’estinzione dell’universo. Me ne frego era proibito, me ne frego era la morte. Non ci ho dovuto lavorare molto per capire che io stesso non riuscivo a fregarmene, a fregarmene di niente e di nessuno, ero stato educato bene, figlio della speranza, inetto a vivere nell’infelicità. Geneticamente kantiano, per così dire, geneticamente antifascista; nell’insegna degli uomini che si presero e portarono a morte il fratello di mio padre c’era un teschio elevato sopra la scritta dorata me ne frego. E oggi ancora ci penso, e so che penso rozzamente, so che il fascismo è una cosa complicata che va studiato bene per non sbagliare e confondere, che è meglio spaccare il capello in quattro piuttosto che rischiare, che ci sono strumenti adeguati per misurare e tabelle per valutare, che un conto è il fascismo e un altro conto l’antifascismo; ma io so anche, e ne ho la tattile certezza, di vivere in un tempo dell’infelicità, esco di casa e sento, sottile e ottuso e persistente, il sordo ronzio di un rumore di fondo di infelicità, quest’epoca si è ingravidata di fascismo. Si è aperto alto un balcone, i consoli del tempo della disgrazia si sono fatti avanti sul popolo e hanno ululato il loro grido di battaglia: dio è morto, afffanculo tutto, viva la morte. Me ne frego. Il popolo, sbigottito, incoraggiato dagli appositi segnali luminosi, ha preso a esultare, i miliziani della disgrazia hanno cominciato il loro giro di propaganda, ed è stato tutto un sibilare, un canticchiare, un cadenzare di me ne frego. E nel suo disperato esultare, con la stessa rapidità con cui è stato evocato, il popolo si è dissolto in un indistinto puntiforme, convenzionalmente noto come massa, la massa irresponsabile infeconda, e infelice. Un suppurare di infelicità ovunque, venduta come un investimento sicuro, dispensata come una cura, inferta come una lezione, infelicità raccattata come un’elemosina, accumulata come un capitale, comprata al prezzo di un gratta e vinci e portata a casa per avere un po’ di compagnia. L’infelice compagnia di un sussidio da spartire, di una tragedia da condividere, di un’esenzione da contendere, di un nemico alle porte da affrontare come un sol uomo. Psicologia di massa del fascismo. Quest’epoca ne è partoriente, e chi non ne intravvede le insegne consideri con più attenzione ciò che può con agio osservare: non uno, ma si possono distintamente notare montagne di teschi sotto i piedi di coloro che postano me ne frego. Ce ne fregammo un dì della galera, ce ne fregammo della brutta morte, per preparare questa gente forte che se ne frega adesso di morir. Ci penso, e mi guardo le mani, e vedo che non sono le mani di mio padre, non sono mani adatte a edificare, a generare. Sono diventato un lavoratore della mente, la mia parte risiede nella ragione che hanno le mie parole, se sanno essere mani ed edificare, e generare, se sanno prendersi cura e mettere in salvo, se sono abbastanza salde per questo, se sanno avere abbastanza costanza, lavorare per la vita almeno le quarant’ore, e non basta, perché chi lavora per la morte lavora a cottimo. (...).
Di questo ho avuto coscienza diventato giovane uomo, giovane uomo lavoratore, di essere venuto alla luce e di vivere per mano di gente che se se ne fosse fregata di qualcosa si sarebbe sentita perduta, che se non si fosse presa preoccupazione anche solo della gallina che stava allevando per le uova dei suoi figli, come del compagno di lavoro che si era preso la pleurite, come di quei disgraziati che se n’erano venuti dal Polesine senza nemmeno una coperta addosso, sarebbe morta annegata nell’infelicità dei miserabili senza speranza, e per quello che ne potevano sapere, nell’estinzione dell’universo. Me ne frego era proibito, me ne frego era la morte. Non ci ho dovuto lavorare molto per capire che io stesso non riuscivo a fregarmene, a fregarmene di niente e di nessuno, ero stato educato bene, figlio della speranza, inetto a vivere nell’infelicità. Geneticamente kantiano, per così dire, geneticamente antifascista; nell’insegna degli uomini che si presero e portarono a morte il fratello di mio padre c’era un teschio elevato sopra la scritta dorata me ne frego. E oggi ancora ci penso, e so che penso rozzamente, so che il fascismo è una cosa complicata che va studiato bene per non sbagliare e confondere, che è meglio spaccare il capello in quattro piuttosto che rischiare, che ci sono strumenti adeguati per misurare e tabelle per valutare, che un conto è il fascismo e un altro conto l’antifascismo; ma io so anche, e ne ho la tattile certezza, di vivere in un tempo dell’infelicità, esco di casa e sento, sottile e ottuso e persistente, il sordo ronzio di un rumore di fondo di infelicità, quest’epoca si è ingravidata di fascismo. Si è aperto alto un balcone, i consoli del tempo della disgrazia si sono fatti avanti sul popolo e hanno ululato il loro grido di battaglia: dio è morto, afffanculo tutto, viva la morte. Me ne frego. Il popolo, sbigottito, incoraggiato dagli appositi segnali luminosi, ha preso a esultare, i miliziani della disgrazia hanno cominciato il loro giro di propaganda, ed è stato tutto un sibilare, un canticchiare, un cadenzare di me ne frego. E nel suo disperato esultare, con la stessa rapidità con cui è stato evocato, il popolo si è dissolto in un indistinto puntiforme, convenzionalmente noto come massa, la massa irresponsabile infeconda, e infelice. Un suppurare di infelicità ovunque, venduta come un investimento sicuro, dispensata come una cura, inferta come una lezione, infelicità raccattata come un’elemosina, accumulata come un capitale, comprata al prezzo di un gratta e vinci e portata a casa per avere un po’ di compagnia. L’infelice compagnia di un sussidio da spartire, di una tragedia da condividere, di un’esenzione da contendere, di un nemico alle porte da affrontare come un sol uomo. Psicologia di massa del fascismo. Quest’epoca ne è partoriente, e chi non ne intravvede le insegne consideri con più attenzione ciò che può con agio osservare: non uno, ma si possono distintamente notare montagne di teschi sotto i piedi di coloro che postano me ne frego. Ce ne fregammo un dì della galera, ce ne fregammo della brutta morte, per preparare questa gente forte che se ne frega adesso di morir. Ci penso, e mi guardo le mani, e vedo che non sono le mani di mio padre, non sono mani adatte a edificare, a generare. Sono diventato un lavoratore della mente, la mia parte risiede nella ragione che hanno le mie parole, se sanno essere mani ed edificare, e generare, se sanno prendersi cura e mettere in salvo, se sono abbastanza salde per questo, se sanno avere abbastanza costanza, lavorare per la vita almeno le quarant’ore, e non basta, perché chi lavora per la morte lavora a cottimo. (...).
Nessun commento:
Posta un commento