Tratto da “Manuale
per sfuggire alla catastrofe”, confronto tra Wlodek Goldkorn e Zygmunt
Bauman pubblicato sul settimanale L'Espresso del 19 di marzo dell'anno 2017: (Goldkorn). Caro Zygmunt, parliamo dello straniero, dell’Altro. Vorrei
indagare sulla tua “via verso la saggezza”. Una volta, parafrasando Heidegger,
mi hai detto che ciò che per gli indigeni, gli autoctoni, coloro che hanno
sempre vissuto là dove sono nati, è evidente, per lo straniero risulta invece
foriero di domande. Lo straniero non può che interrogare e interrogarsi.
Se interpreto bene il tuo pensiero, il modo di porsi dello straniero di fronte alla realtà ricalca lo stupore del bambino di fronte a un oggetto nuovo: un giocattolo, un libro, un aereo. Ora, lo stupore è un atteggiamento comune a ogni mediatore che si rispetti: un commerciante, se vuole fissare il giusto prezzo della merce, deve guardarla con gli occhi del cliente, di colui che per comprarla deve provare lo stupore. Il dovere del giornalista (altro esempio di mediatore) non è saper tutto, ma porre le domande che altri non fanno; stupirsi che a New York o a Shanghai ci siano tanti grattacieli, riflettere sul senso di quello che scrive e pubblica; ossia mettersi nei panni del lettore. Del ruolo dell’intellettuale (ancora un esempio di mediatore) sai tutto. Secondo te, è un caso che spontaneamente ho elencato tre mestieri considerati “tipicamente da ebrei”? Tre volte hai cambiato Paese, lingua, usi e costumi. Dalla Polonia invasa dai nazisti nel 1939 sei dovuto scappare in Russia. Nel 1968 sei stato costretto a lasciare la Polonia comunista (dove eri considerato nemico del regime, sia in quanto ebreo sia in quanto intellettuale ribelle) e sei arrivato in Israele. Da Israele ti sei trasferito in Inghilterra. La tua non è quindi una biografia normale. Tre volte sei stato uno straniero, un outsider. (…).
Se interpreto bene il tuo pensiero, il modo di porsi dello straniero di fronte alla realtà ricalca lo stupore del bambino di fronte a un oggetto nuovo: un giocattolo, un libro, un aereo. Ora, lo stupore è un atteggiamento comune a ogni mediatore che si rispetti: un commerciante, se vuole fissare il giusto prezzo della merce, deve guardarla con gli occhi del cliente, di colui che per comprarla deve provare lo stupore. Il dovere del giornalista (altro esempio di mediatore) non è saper tutto, ma porre le domande che altri non fanno; stupirsi che a New York o a Shanghai ci siano tanti grattacieli, riflettere sul senso di quello che scrive e pubblica; ossia mettersi nei panni del lettore. Del ruolo dell’intellettuale (ancora un esempio di mediatore) sai tutto. Secondo te, è un caso che spontaneamente ho elencato tre mestieri considerati “tipicamente da ebrei”? Tre volte hai cambiato Paese, lingua, usi e costumi. Dalla Polonia invasa dai nazisti nel 1939 sei dovuto scappare in Russia. Nel 1968 sei stato costretto a lasciare la Polonia comunista (dove eri considerato nemico del regime, sia in quanto ebreo sia in quanto intellettuale ribelle) e sei arrivato in Israele. Da Israele ti sei trasferito in Inghilterra. La tua non è quindi una biografia normale. Tre volte sei stato uno straniero, un outsider. (…).
(Bauman). Non è una biografia normale», (…).
Ma mi chiedo: è mai esistita una “biografia normale”? Dire “biografia normale”,
presuppone l’esistenza di un “uomo medio”. Ma la media è una finzione
statistica. Gli abitanti del mondo, un luogo dove tutte le dimore sono
temporanee e mai eterne e stabili, e dove tutte le indicazioni stradali sono
girevoli (a pensarci bene) si aggrappano alle verità delle tabelle statistiche,
per sentire un minimo di sicurezza. Sono tabelline che danno la sensazione di
certezza e quindi di appartenenza. Il guaio è che l’appartenenza è altrettanto
una finzione quanto lo è la media statistica. Mi viene in mente Monsieur
Jourdain, protagonista di “Il borghese gentiluomo” di Molière, quando scopre di
parlare in prosa. Vedi, la quantità delle biografie è uguale alla quantità degli
esseri umani. Jacques Derrida, ricordando gli amici scomparsi prima di lui,
notò che con la morte di ognuno scompare irrimediabilmente un mondo. Ne deriva
che ogni essere umano è un mondo irripetibile. La statistica invece serve a
cogliere e registrare ciò che è ripetibile, e per essere precisi, a distillare
la ripetibilità dalla singolarità. L’individuo può far parte di una tabella
statistica solo in quanto un esemplare di una specie. Aggiungo: le tabelle sono
innumerevoli (genere, età, altezza, peso, colore dei capelli, fede religiosa,
possesso, reddito, tifo, vacanze, opinioni su politici ecc. ecc. ecc.). Ma, una
volta statisticamente parcellizzato, l’uomo non può essere ricostruito come un
insieme. Detto tutto quello che si può dire sulla base della massa delle
tabelline, resta non detto ciò che rende l’uomo soggetto e oggetto del mondo, e
che verrà sepolto nella tomba, assieme a lui. L’unico uso lecito dunque del
concetto di “normalità” è quello insito nella frase: “La normalità dell’uomo è
la sua anomalia”. (…). L’indagine biografica deve riprendere tutte le
complessità e le sfumature dell’essere umano, tutto quello che non è
statisticamente contabile. E per quanto riguarda lo “stupore del bambino” che
giustamente evochi nel contesto della sorte di un nuovo arrivato in un mondo
sconosciuto. Direi che questo tipo di stupore dovrebbe essere vissuto da
chiunque prende in mano la penna per raccontare la vita di un altro uomo
(meglio ancora, vivere lo stupore prima che l’incipit della narrazione sgorghi
dalla penna). Ma visto che evochi anche una particolare inclinazione degli
ebrei per un certo tipo di esperienze, mi permetto di citare la definizione
dell’ebreo (in quanto categoria) coniata scherzosamente, ma anche un po’
seriamente dal commediografo inglese Frederick Raphael: “L’ebreo è una persona
che in ogni luogo è fuoriluogo”. Aggiungerei che nell’Europa post-illuminista,
gli ebrei erano “l’anomalia particolare”, lontana dal progetto della “normalità
generale”. Agli ebrei è toccato il ruolo della “norma dell’anomalia”, o forse
della sua incarnazione. L’incarnazione dell’anomalia... Dici: «Tre volte sei
stato straniero». Sono stato straniero fin dalla nascita e così morirò. Non
saprei quando, ma molto presto mi sono convinto che non c’era medicina in grado
di guarirmi dalla mia anomalia. Ho accettato questo mio essere straniero (o
essere Altro) e in un certo senso me ne sono innamorato. O forse non tanto mi
sono invaghito dell’essere straniero, quanto invece ho sviluppato una grande e
profonda insofferenza verso l’opposto di quella condizione, ossia verso
“l’appartenenza”. Certamente, si tratta di due fattori che hanno influenzato
l’un l’altro: mi sono così abituato ai privilegi insiti nello status dello
straniero che provo insopportabili i limiti impliciti in ogni appartenenza.
Quei limiti, va detto, per gli indigeni, per coloro che non hanno mai fatto
l’esperienza dell’essere stranieri, sono naturali, impercettibili e indolori.
Caro Wlodek, dalla tua esperienza dovresti aver imparato quanti vantaggi ha
l’essere stranieri. Si tratta di privilegi da cui sono esclusi (a loro insaputa
e senza che siano stati interpellati in materia) i nativi del luogo. Quali sono
questi privilegi? Semplice. Hai la facoltà di prendere alla leggera le opinioni
altrui su quello che dovresti fare e su ciò che non devi fare. L’opinione
pubblica, ossia il parere della maggioranza, è in genere mutevole. Ma la
saggezza e tanto più la virtù non seguono il parere della maggioranza. Le
accuse e la calunnie non diventano veritiere perché gridate in coro. E se
quello che sto dicendo non è politicamente corretto, il problema è loro; non
mio né tuo. Da straniero, da Altro, il tribunale supremo, la cassazione senza
appello, è la tua coscienza. È un tribunale severissimo, e le sentenze che
emette sono spesso più severe e più dure da sopportare di quelle dei tribunali
dei nativi. Però puoi avere fiducia nella sua equità. Di più, da straniero, da
Altro, sai bene cosa fare per non essere trascinato nella Corte della tua
coscienza. Sei tu l’unico responsabile dei tuoi pensieri e delle tue gesta. Ma
attenzione, parlo della responsabilità “per” e non “di fronte a”. Parlo della
responsabilità “per” i gesti compiuti e quelli incompiuti causa ignavia, non
della responsabilità “di fronte” alle istituzioni che vorrebbero importi le
regole di ciò che si deve e ciò che non si deve fare, senza chiedere il tuo
parere e il tuo consenso, visto che le istituzioni sono convinte di saper
definire meglio di te cosa sia un vizio e cosa invece una virtù. L’assunzione
della responsabilità comporta, a sua volta, rischi enormi e talvolta si tratta
di un fardello troppo pesante per alcune, troppo fragili, spalle. Ma è più
dignitoso misurare le spalle a seconda del fardello delle responsabilità, che
non adattare la responsabilità alla tenuta delle spalle. In ogni caso,
preferisco la coscienza pulita agli applausi del pubblico. E per quanto
riguarda l’appartenenza. Jasia (diminutivo di Janina, la moglie di Bauman,
scomparsa nel 2009, sopravvissuta al Ghetto di Varsavia, ndr) scacciata via da
ogni luogo dove credeva di star di casa, e che ha vissuto con dolore il suo
errare per il mondo, parlava del “sogno di appartenenza”. Con Jasia eravamo una
sola anima in due corpi. Ma in questo caso non eravamo d’accordo. Io non ho mai
avuto alcun sogno di appartenenza. Anzi, ne ho sempre provato repulsione. Dopo
l’espulsione dal branco comunista (un’espulsione dovuta all’iniziativa sia dei
comunisti che mia) non ho più cercato nessun gruppo in grado di correggere le
mie opinioni o di darmi la giusta linea. E non ho permesso a nessun gruppo di
dire che io ne facessi parte. Dopo aver abbandonato il comunismo non ho aderito
agli anticomunisti, nonostante abbia avuto molte appetibili offerte. Né ho
cercato nell’ospitalità del nazionalismo israeliano la ricompensa per i danni
subiti dal nazionalismo polacco. In Inghilterra non pretendo di essere inglese,
e del resto gli inglesi non mi considerano tale. E il mio essere straniero non
è di disturbo né per me né per loro. Anzi, forse sono una specie di candito, un
elemento esotico, nella torta, per il resto povera di sapore, della convivenza
quotidiana. Ho il sospetto che qualcosa di tutto quello che ti sto confessando,
sia finito per pesare sul mio carattere... Nell’esercizio della mia professione
provo fastidio per le parole con il suffisso “ismo”. I miei recensori, sia
quelli critici che quelli favorevoli, cercano in tutti i modi di collocarmi
all’interno di una scuola di pensiero, ma non ci riescono. I più critici (e i
più legati emozionalmente e materialmente a un sapere diviso lindamente in vari
campicelli rigorosamente recintati) arrivano alla conclusione che sono un
eclettico. Ma per me non si tratta di un’offesa, anzi. Sì, prendo dal pensiero
di ogni saggio e intelligente (e talvolta di meno saggio e meno intelligente)
autore tutti quegli elementi che trovo innovatori, essenziali, o stimolanti per
il mio lavoro. Ma ciò non implica che debba firmare una specie di patto
diabolico per cui accetto tutto il resto delle opinioni dello stesso autore. È
vero, come hai suggerito in una nostra conversazione, che io stia sulle spalle
dei giganti. Ma cerco di non usare le loro spalle come se fossero una comoda
poltrona (e certamente non mi nascondo dietro alle loro spalle per fuggire le
mie responsabilità).
(Goldkorn). Dalle lettere che ci siamo
scambiati, dalle nostre conversazioni pubbliche e private, ma anche da tutto
quello che hai scritto, potrei trarre la seguente, in apparenza semplice, in
realtà tragica, conclusione: viviamo nell’occhio del ciclone, nel cuore della
catastrofe. E nel concreto, nel cuore della catastrofe ti sei trovato, anche se
non direttamente (il tuo soggiorno in Russia durante la guerra ti ha fatto
risparmiare il peggio, accaduto invece in Polonia). Ma quel peggio lo hai
conosciuto attraverso le esperienze di Jasia, tua moglie, attraverso il suoi
racconti sul ghetto di Varsavia, e forse non erano solo racconti... Ora, quando
i filosofi, gli storici, gli scrittori, tentano di creare una teoria della catastrofe,
implicitamente suggeriscono che si tratta di un fenomeno limitato nel tempo e
che riguarda situazioni e luoghi specifici. Si parla del totalitarismo (Hannah
Arendt), della crisi del pensiero illuminista (Adorno e Horkheimer), della
colpa (Jaspers), dell’hybris (Kolakowski, nel caso del comunismo), dei
territori dove tutto era permesso (lo storico Timothy Snyder), della menzogna
(Solzenitsyn). Potrei aggiungere la questione della tecnica (Günther Anders).
Ognuno degli autori citati crede di avere un rimedio o una lezione da dare dopo
la catastrofe e per evitare un’altra catastrofe (come se fosse possibile). Per
Arendt occorre essere saggi, capaci di distinguere tra il bene e il male e
saper agire nella sfera pubblica; Adorno e Horkheimer non hanno mai abbandonato
il mito messianico; Jaspers richiamava all’onestà e al senso di responsabilità:
Kolakowski chiedeva di non rinunciare al sacro, neanche in una democrazia
laica. La tua critica dello stato esistente della cose è invece così radicale
da non indicare alcuna via di salvezza. Il mondo secondo Bauman è frammentario.
La nostra realtà è un puzzle impazzito, i cui pezzi non comporranno mai un
insieme coerente. La sintesi non è data e non lo sarà mai. Ma noi umani,
tentiamo sempre di dare una coerenza a quel puzzle che è la nostra vita. La
gente ha bisogno di senso e di sintesi, e se noi (noi di sinistra) non
riusciamo in questo compito, quella sintesi finiranno per darla gli altri: i
fascisti, gli xenofobi. Certo, è il tribunale della coscienza di ciascuno di
noi la Cassazione. Ma poi resta il problema: come vivere. Vorrei che
rispondessi alla seguente domanda: nell’occhio del ciclone, al centro della
catastrofe, la salvezza dipende solo dal carattere e dall’intelligenza
individuale? La condizione dell’esiliato, come dici, è un privilegio, ma ho
l’impressione che non basti.
(Bauman). Hai ragione dicendo che quando i
filosofi, gli storici, i letterati, parlano della catastrofe, implicitamente
suggeriscono che si tratti di un fenomeno limitato nel tempo e nello spazio. Ed
è per questa ragione che ho sempre cercato di evitare di usare questa parola.
Ma c’è di più. Se condividessi la tua opinione per cui “viviamo nel cuore della
catastrofe”, accetterei anche la tua critica della mia radicalità che non
lascia vie di salvezza. Ma il fatto è che non la condivido. Intanto, la
catastrofe è un fenomeno improvviso, inatteso e di regola causato dagli umani,
dalle loro azioni o dalla loro inezia. E per quanto crudeli siano le sue
conseguenze in termini di vite umane, “catastrofe” significa “fuoriuscita dalla
norma”. Ora, sono gli umani a stabilire la norma. In altre parole, sono gli
umani a determinare e manipolare la scala e la gamma delle probabilità di ciò
che accade, di ciò che è la norma e viceversa l’anomalia. Un po’ ne abbiamo già
parlato. Aggiungo quindi una cosa, in apparenza ovvia: se non ci fosse la norma
(stabilita, appunto dagli umani), non si potrebbe neanche violarla o
fuoriuscire da essa. È noto quanto per gli antichi fosse importante il concetto
di catarsi; una funzione dell’azione scenica drammatica che segnava la
purificazione dopo aver toccato il fondo della tragedia o della catastrofe. La
catarsi permetteva il ritorno alla norma. Ma se, come ci stiamo dicendo, non
c’è norma? Se la norma è il rischio e quindi la probabilità permanente di
verificarsi di quella situazione che tu chiami catastrofe (ad esempio
l’Olocausto, oppure la guerra fratricida tra gli europei, chiamata la guerra
dei trent’anni)? E se la norma fosse così disumana e poco attraente che non
varrebbe la pena di ripristinarla?.... Ecco perché, quando dici che la mia
analisi della situazione non indica alcuna via di salvezza, la tua accusa è
ingiustificata. Vedi, io credo profondamente che la via di salvezza esiste e
che è nel potere degli umani tracciarla. Però è illusorio pensare che il
ritorno alla prassi del “Business as usual”, alla non riflessiva e presunta
normalità, possa essere una via di salvezza. È, anzi, dal “business as usual”,
che dobbiamo salvarci. Permettimi quindi, anziché di parlare della catastrofe,
di riflettere sui “tempi bui”, un termine che prendo in prestito da Hannah
Arendt. Arendt a sua volta, nella raccolta dei suoi saggi “Men in Dark Times”
(1968) (“L’umanità in tempi bui”, Cortina editore, ndr) restituisce il debito contratto
con Bertolt Brecht, che nel poema “An die Nachgeborenen” (“A coloro che
verranno”) applicò il concetto di “tempi bui” al periodo in cui gli era stato
dato di vivere, tra disordini e fame, tra massacri e carnefici, quando esisteva
solo il male e non la resistenza. Arendt spiega, e non c’è nulla da aggiungere,
il modo in cui lei stessa utilizza il termine “tempi bui”. Dice: «Se il compito
della sfera pubblica è gettare la luce sugli affari degli umani in modo da
creare uno spazio di immaginazione in cui gli uomini possano mostrare con le
loro parole e con le loro azioni nel bene e nel male, la loro natura, il buio
si verifica quando queste luci vengono spente a causa della crisi di fiducia,
dell’invisibilità del potere, del discorso che anziché rivelare le cose, le
nasconde». Con entusiasmo Arendt cita le parole di Heidegger: «La luce della
sfera pubblica oscura tutto», e dice che questa frase è il riassunto più
stringato possibile della condizione contemporanea. In tempi bui quindi,
secondo Arendt, piuttosto che cercare le rivelazioni nelle grandi teorie,
bisogna provare a trovarle «negli incerti e spesso deboli lumini che alcuni
uomini accendono, nonostante le condizioni in cui è stato dato loro vivere».
Tempi bui, non rari nel corso della storia, non sono quindi altro che una
“normalità” gravida di catastrofe, o forse e con più esattezza sono tempi in
cui la discrasia tra l’esperienza da un lato e la narrazione dominante
dall’altro, fa sì che le narrazioni pubbliche velino l’esperienza anziché svelarla,
la oscurino anziché illuminarla. Milan Kundera definisce queste narrazioni come
una cortina. E dice che compito della letteratura è squarciare quella cortina
(“L’arte del romanzo”, Adelphi, ndr). Scrive Kundera: «Capire con Cartesio che
alla base di tutto c’è l’io pensante e con questa convinzione far fronte
all’universo. (…) Capire con Cervantes che il mondo è polisemico (ha più
significati, ndr) e far fronte non a una verità assoluta, ma alla molteplicità
delle verità contraddittorie e relative... Avere come unica certezza, la
saggezza dell’incertezza». Non pensare, caro Wlodek, che io mi paragoni a
Cartesio o a Cervantes. Sono solo un artigiano. Ma mi sono posto come compito
quello di squarciare le cortine. E se non mi riesce di farlo così bene come lo
hanno fatto i grandi maestri appena citati, ciò non mi esime dal mio dovere di
continuare a provarci.
Nessun commento:
Posta un commento