Tratto da “L’uomo
schiacciato dai limiti” di Zygmunt Bauman, pubblicato sul settimanale L'Espresso del 6 di novembre dell’anno 2016: I tragici, ripetuti terremoti
nell’Italia centrale sono stati un motivo in più per ricordare (…) che
nonostante tutte le nostre scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche - a
volte davvero sorprendenti e impressionanti - esistono limiti alla nostra
capacità collettiva di garantire il nostro futuro, comune o individuale, contro
i danni provocati da tre indomabili potenze. E precisamente: la cecità o i
capricci della natura dentro o fuori di noi, l’indifferenza o l’asprezza di
altri esseri umani a noi vicini o distanti, e le conseguenze disastrose
inattese dei nostri calcoli sbagliati e dei nostri errori ed egoismi. In
sintesi, esistono limiti alle nostre capacità che il “progetto moderno”, e la
mentalità che ha diffuso e alimentato, prometteva di spostare all’infinito.
L’avvento della modernità ci ha offerto la possibilità di dotarci di comodità e di affrancarci dai disagi, ma soprattutto, di metterci al riparo dalle sgradevoli sorprese e dai brutti scherzi delle potenze che sfuggono al nostro controllo. Il dominio sulla natura ha significato porre fine agli inconvenienti di una delle tre forze indomabili sopra menzionate. Le nuove capacità scientifiche e tecnologiche, collaudate e perfezionate nel corso della sottomissione della natura, potevano essere applicate a ciò che si dovrebbe o si dovrà fare attraverso un’analoga operazione effettuata sugli esseri umani. Questa raccomandazione, come ora ci rendiamo conto tardivamente quando cerchiamo rimedi non facili (o decisamente impossibili) ai danni e alle perdite derivanti dai comportamenti di persone affette da cecità morale non meno della natura, tendeva a produrre risultati catastrofici non meno gravi di quelli occasionalmente prodotti dalla Natura. (…). È accaduto così che questo sfruttamento senza scrupoli “ha proiettato la sua immagine distruttiva in ogni settore di attività” lasciando alle spalle milioni di chilometri quadrati di campi aridi e milioni di coltivatori spiantati a testimoniare questo crimine. Potremmo far risalire se non la nascita, sicuramente il radicamento e la progressiva diffusione di questa mentalità alla distruzione di Lisbona nel 1755, allora uno dei centri più ricchi, fieri e intraprendenti dell’incipiente civiltà occidentale, in seguito al triplice assalto di un terremoto, un incendio e un diluvio. La reazione dell’opinione pubblica - ovvero l’unanime condanna del lasciare che la natura segua il suo corso basato sulle proprie regole e le proprie risorse - fu brusca e immediata, come se si stesse aspettando solo una simile occasione per manifestare pubblicamente questa riprovazione. Nel suo “Poème sur le désastre de Lisbonne” Voltaire accusava la Natura, la principale tra le creazioni di Dio, di aver dimostrato a Lisbona il suo vero volto - inaccettabile per gli esseri umani - di indifferenza morale e di ingiustizia penale (“l’innocente, ainsi que le coupable, subit également ce mal inévitable”), dimostrando così la sua totale incapacità di assicurare la vittoria del bene sul male se non veniva sottoposta al controllo umano. Queste accuse di Voltaire potevano apparire giuste e meritate di fronte all’indifferenza morale della natura per gli interessi e le predilezioni degli uomini - cosa che però sembra alquanto dubbia di fronte alla baldanzosa certezza che una volta assoggettata al controllo umano la Natura avrebbe arrecato vantaggi inequivocabili rispetto a prima, rappresentando ancora un’alternativa se lasciata ai propri sistemi regolativi. Nessuna delle aspettative ottimistiche di Voltaire aveva molte probabilità di avverarsi finché poca o nessuna attenzione veniva dedicata alle conseguenze impreviste, agli effetti collaterali indesiderabili e a quelli apocalittici dell’ingerenza umana nel lungo periodo, con cui Voltaire come molti di coloro che la pensavano allo stesso modo, dei loro discepoli e dei loro seguaci involontari aveva proclamato sia la desiderabilità che la necessità del dominio dell’uomo sulla natura. (…). A distanza di più di due secoli dall’esortazione di Voltaire alla conquista della natura tendiamo ancora in modo riprovevole ad assimilare lentamente e con riluttanza la verità dei limiti invalicabili imposti dalla natura agli spensierati desideri di trasformare il nostro ambiente naturale in un magazzino di beni di consumo che serve a gratificare la bramosia umana per il comfort, l’agiatezza e il lusso. Ogni volta che questi limiti ci ricordano la loro ostinata presenza, ci trovano psicologicamente e fisicamente impreparati. Non c’è da stupirsi, del resto: è davvero difficile da ingoiare, e ancor di più da digerire, la notizia che nel caso in cui le calotte polari continueranno a fondere, come oggi avviene, il livello degli oceani potrebbe salire di ben 90 metri, e questo significa che la maggior parte delle grandi città del pianeta (abitate già dalla maggioranza della popolazione mondiale) potrebbero fare la fine della leggendaria Atlantide. O che con l’accelerazione dell’evaporazione dell’acqua la Terra, assorbendo così più calore, diventerebbe sempre più simile a Venere con la sua temperatura media giornaliera che supera i 480 gradi Celsius. O, ancora, che se la temperatura globale aumentasse anche solo del 6 per cento ciò basterebbe a “spazzare via quasi ogni forma di vita sul pianeta” e che esiste un 5 per cento di probabilità che “la temperatura della Terra supererà il 6,4 per cento entro il 2100” come ha calcolato recentemente il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico. E che dire di pandemie come la “peste nera” che ha ucciso un europeo su quattro nel XIV secolo, o l’“influenza spagnola” che ha ucciso 50 milioni di persone in soli due anni nel secolo scorso? O delle previsioni di un numero crescente di autorevoli esperti secondo i quali è soltanto una questione di tempo prima che una delle mutazioni del virus apparse di recente sfugga alle contromisure umane e scateni una pandemia su una scala simile o addirittura più ampia? Si noti che i fatti sopra riportati sono soltanto alcuni casi scelti casualmente dalla sempre più lunga lista di quelli che possono porre fine alla vita della specie umana sulla terra. (…). Quanto prima accetteremo questa verità tutt’altro che comoda e consolante e cominceremo a misurare i nostri sforzi in base agli standard che ci impone, tanto meglio sarà per noi come per i nostri figli e per i nostri futuri nipoti. Tutto ciò che è stato detto finora, non è comunque un motivo sufficiente per rimanere con le mani in mano e rinunciare alla lotta per rendere il mondo più ospitale per la vita umana e la vita in generale. C’è ancora molto che possiamo fare anche entro i confini stabiliti dai limiti che la natura ci ha imposto. Come ha insistito Steven Jay Gould in (…) Conversations about the End of time (Penguin books 1999; trad. it. Pensieri sulla fine dei tempi, Milano, Bompiani, 1999) “una corretta etica ecologica non deve guardare al lontano futuro della vita su altri pianeti, ma deve preoccuparsi della qualità della nostra vita e della vita di altre specie qui e ora. A volte noi siamo stati la causa inconsapevole dell’estinzione di alcune di esse. In molte occasioni abbiamo spazzato via interi habitat senza neanche rendercene conto e abbiamo sterminato le specie che hanno avuto la sfortuna di stabilirvi la propria dimora”. Gould segue questa regola generale con un esempio: “Se il livello di monossido di carbonio aumenta in modo allarmante e il riscaldamento globale aumenta ulteriormente, dovremo adottare misure per riportarlo sotto controllo. Tutto dipende dalla volontà umana, dalla nostra intelligenza, dalla nostra capacità di cooperare, dai nostri politici. I pericoli sono reali, le ansie legittime. Alcuni pensano che la tendenza attuale è destinata a continuare e porterà al disastro. Ma in realtà non c’è nulla di inevitabile e possiamo anche sperare che saremo abbastanza intelligenti da invertirla”. Vorrei solo aggiungere due postille alla raccomandazione di Gould. La prima è che le nostre capacità, le nostre risorse e i nostri mezzi di difesa sono destinati a rimanere limitati, almeno per un tempo molto lungo, ma la loro efficacia può essere notevolmente ampliata attraverso un uso corretto - ovvero giusto ed equo - ispirato, mosso e guidato da considerazioni etiche, anziché, come tendiamo a fare oggi, dal desiderio di profitti momentanei. La seconda è che abbiamo bisogno di combinare la riconciliazione fra l’inevitabilità della nostra fragile posizione nell’universo con la ferma determinazione a continuare la lotta per fare tutto ciò che questa posizione ci consente, allo scopo di ammorbidire i suoi verdetti e renderla più facile da gestire. Questo sarebbe sufficiente a tenerci occupati per tutta la vita.
L’avvento della modernità ci ha offerto la possibilità di dotarci di comodità e di affrancarci dai disagi, ma soprattutto, di metterci al riparo dalle sgradevoli sorprese e dai brutti scherzi delle potenze che sfuggono al nostro controllo. Il dominio sulla natura ha significato porre fine agli inconvenienti di una delle tre forze indomabili sopra menzionate. Le nuove capacità scientifiche e tecnologiche, collaudate e perfezionate nel corso della sottomissione della natura, potevano essere applicate a ciò che si dovrebbe o si dovrà fare attraverso un’analoga operazione effettuata sugli esseri umani. Questa raccomandazione, come ora ci rendiamo conto tardivamente quando cerchiamo rimedi non facili (o decisamente impossibili) ai danni e alle perdite derivanti dai comportamenti di persone affette da cecità morale non meno della natura, tendeva a produrre risultati catastrofici non meno gravi di quelli occasionalmente prodotti dalla Natura. (…). È accaduto così che questo sfruttamento senza scrupoli “ha proiettato la sua immagine distruttiva in ogni settore di attività” lasciando alle spalle milioni di chilometri quadrati di campi aridi e milioni di coltivatori spiantati a testimoniare questo crimine. Potremmo far risalire se non la nascita, sicuramente il radicamento e la progressiva diffusione di questa mentalità alla distruzione di Lisbona nel 1755, allora uno dei centri più ricchi, fieri e intraprendenti dell’incipiente civiltà occidentale, in seguito al triplice assalto di un terremoto, un incendio e un diluvio. La reazione dell’opinione pubblica - ovvero l’unanime condanna del lasciare che la natura segua il suo corso basato sulle proprie regole e le proprie risorse - fu brusca e immediata, come se si stesse aspettando solo una simile occasione per manifestare pubblicamente questa riprovazione. Nel suo “Poème sur le désastre de Lisbonne” Voltaire accusava la Natura, la principale tra le creazioni di Dio, di aver dimostrato a Lisbona il suo vero volto - inaccettabile per gli esseri umani - di indifferenza morale e di ingiustizia penale (“l’innocente, ainsi que le coupable, subit également ce mal inévitable”), dimostrando così la sua totale incapacità di assicurare la vittoria del bene sul male se non veniva sottoposta al controllo umano. Queste accuse di Voltaire potevano apparire giuste e meritate di fronte all’indifferenza morale della natura per gli interessi e le predilezioni degli uomini - cosa che però sembra alquanto dubbia di fronte alla baldanzosa certezza che una volta assoggettata al controllo umano la Natura avrebbe arrecato vantaggi inequivocabili rispetto a prima, rappresentando ancora un’alternativa se lasciata ai propri sistemi regolativi. Nessuna delle aspettative ottimistiche di Voltaire aveva molte probabilità di avverarsi finché poca o nessuna attenzione veniva dedicata alle conseguenze impreviste, agli effetti collaterali indesiderabili e a quelli apocalittici dell’ingerenza umana nel lungo periodo, con cui Voltaire come molti di coloro che la pensavano allo stesso modo, dei loro discepoli e dei loro seguaci involontari aveva proclamato sia la desiderabilità che la necessità del dominio dell’uomo sulla natura. (…). A distanza di più di due secoli dall’esortazione di Voltaire alla conquista della natura tendiamo ancora in modo riprovevole ad assimilare lentamente e con riluttanza la verità dei limiti invalicabili imposti dalla natura agli spensierati desideri di trasformare il nostro ambiente naturale in un magazzino di beni di consumo che serve a gratificare la bramosia umana per il comfort, l’agiatezza e il lusso. Ogni volta che questi limiti ci ricordano la loro ostinata presenza, ci trovano psicologicamente e fisicamente impreparati. Non c’è da stupirsi, del resto: è davvero difficile da ingoiare, e ancor di più da digerire, la notizia che nel caso in cui le calotte polari continueranno a fondere, come oggi avviene, il livello degli oceani potrebbe salire di ben 90 metri, e questo significa che la maggior parte delle grandi città del pianeta (abitate già dalla maggioranza della popolazione mondiale) potrebbero fare la fine della leggendaria Atlantide. O che con l’accelerazione dell’evaporazione dell’acqua la Terra, assorbendo così più calore, diventerebbe sempre più simile a Venere con la sua temperatura media giornaliera che supera i 480 gradi Celsius. O, ancora, che se la temperatura globale aumentasse anche solo del 6 per cento ciò basterebbe a “spazzare via quasi ogni forma di vita sul pianeta” e che esiste un 5 per cento di probabilità che “la temperatura della Terra supererà il 6,4 per cento entro il 2100” come ha calcolato recentemente il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico. E che dire di pandemie come la “peste nera” che ha ucciso un europeo su quattro nel XIV secolo, o l’“influenza spagnola” che ha ucciso 50 milioni di persone in soli due anni nel secolo scorso? O delle previsioni di un numero crescente di autorevoli esperti secondo i quali è soltanto una questione di tempo prima che una delle mutazioni del virus apparse di recente sfugga alle contromisure umane e scateni una pandemia su una scala simile o addirittura più ampia? Si noti che i fatti sopra riportati sono soltanto alcuni casi scelti casualmente dalla sempre più lunga lista di quelli che possono porre fine alla vita della specie umana sulla terra. (…). Quanto prima accetteremo questa verità tutt’altro che comoda e consolante e cominceremo a misurare i nostri sforzi in base agli standard che ci impone, tanto meglio sarà per noi come per i nostri figli e per i nostri futuri nipoti. Tutto ciò che è stato detto finora, non è comunque un motivo sufficiente per rimanere con le mani in mano e rinunciare alla lotta per rendere il mondo più ospitale per la vita umana e la vita in generale. C’è ancora molto che possiamo fare anche entro i confini stabiliti dai limiti che la natura ci ha imposto. Come ha insistito Steven Jay Gould in (…) Conversations about the End of time (Penguin books 1999; trad. it. Pensieri sulla fine dei tempi, Milano, Bompiani, 1999) “una corretta etica ecologica non deve guardare al lontano futuro della vita su altri pianeti, ma deve preoccuparsi della qualità della nostra vita e della vita di altre specie qui e ora. A volte noi siamo stati la causa inconsapevole dell’estinzione di alcune di esse. In molte occasioni abbiamo spazzato via interi habitat senza neanche rendercene conto e abbiamo sterminato le specie che hanno avuto la sfortuna di stabilirvi la propria dimora”. Gould segue questa regola generale con un esempio: “Se il livello di monossido di carbonio aumenta in modo allarmante e il riscaldamento globale aumenta ulteriormente, dovremo adottare misure per riportarlo sotto controllo. Tutto dipende dalla volontà umana, dalla nostra intelligenza, dalla nostra capacità di cooperare, dai nostri politici. I pericoli sono reali, le ansie legittime. Alcuni pensano che la tendenza attuale è destinata a continuare e porterà al disastro. Ma in realtà non c’è nulla di inevitabile e possiamo anche sperare che saremo abbastanza intelligenti da invertirla”. Vorrei solo aggiungere due postille alla raccomandazione di Gould. La prima è che le nostre capacità, le nostre risorse e i nostri mezzi di difesa sono destinati a rimanere limitati, almeno per un tempo molto lungo, ma la loro efficacia può essere notevolmente ampliata attraverso un uso corretto - ovvero giusto ed equo - ispirato, mosso e guidato da considerazioni etiche, anziché, come tendiamo a fare oggi, dal desiderio di profitti momentanei. La seconda è che abbiamo bisogno di combinare la riconciliazione fra l’inevitabilità della nostra fragile posizione nell’universo con la ferma determinazione a continuare la lotta per fare tutto ciò che questa posizione ci consente, allo scopo di ammorbidire i suoi verdetti e renderla più facile da gestire. Questo sarebbe sufficiente a tenerci occupati per tutta la vita.
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