"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 14 dicembre 2025

CosedalMondo. 91 Benedetta Porcaroli: «Ho visto mio padre piangere. Lui mi ha insegnato la fragilità, l'empatia, mettendomi di fronte al proprio dolore senza vergognarsene. Avere a che fare con il dolore dell'altro ci responsabilizza».


(…). Ho letto un libro bello, s'intitola “La pelle che pensa”, l'ha scritto una neuroscienziata, Marta Pater lini (Codice edizioni). "Il tatto come linguaggio universale", dice il sottotitolo. Spiega, con l'evidenza delle ricerche cliniche, quello che sappiamo dall'esperienza. Le carezze alleviano il dolore. Nelle cure palliative, negli spaventi dei bambini che devono fare la puntura, nelle terapie aggressive dei mali adulti. L'assenza di contatto, da pelle a pelle, ammala. Genera disagio emotivo, mentale, poi fisico. Nel deserto di abbracci si muore. Eppure toccarsi è diventato un tabù, in questo tempo: non si fa, non si può. L'insegnante di violino che imposta il braccio che tiene l'arco, nell'alunno, può essere accusato di eccessiva confidenza corporea e - è successo - radiato dalla scuola. La maestra di primaria che divide due bambini che si picchiano può essere rimproverata per aver esercitato su di loro un contatto inappropriato. Il sarto che ti prende le misure del vestito deve stare molto attento, per una pence chiedere permesso. Certo, certo. Tanti per tanto tempo hanno abusato del contatto, è una precauzione comprensibile. In Svezia, mi racconta un'amica che ci vive, nessuno ti tocca mai, è impensabile. Devi chiederlo, di essere toccata: una mano sulla spalla. Una carezza. Devi proprio chiederlo, dire per favore potresti darmi una pacca di consolazione, anche leggera? Ma noi, sai, non siamo abituati a dire ti prego, fammi una carezza quindi si sta così: lontani. Toccarsi ed essere toccati è diventato un divieto sociale, ma non ha smesso di essere una necessità. Che tempi difficili. (…). (Tratto da “Quando qualcuno trema” di Concita De Gregorio, pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 6 di dicembre 2025).

Madri/Padri”. 1 “Vorrei dirle solo una cosa”, testo di Elena Stancanelli pubblicato sulla stessa edizione del settimanale “d”: (…). Ho deciso di raccontarvi oggi una storia d'amore. Che si svolge su un treno. Una storia d'amore tra una madre e un figlio, una storia di cura, fatica, gentilezza. Che, ancora una volta, mi ha fatto capire come quello che ci siamo abituati a chiamare impegno non sia altro che un gioco, una distrazione, dita che corrono spensierate sulla tastiera. L'impegno ha invece a che fare con l'amore, ed è snervante, oltre che bellissimo. Immaginate me, che con le cuffione sulla testa salgo su un treno regionale. Ascolto, come sempre, l'ultimo album di Rosalia, Lux. Immaginate quanta attenzione potessi avere verso chi mi sedeva vicino, rapita dalla meraviglia della musica. Non avevo neanche alzato gli occhi quando quella famiglia di quattro persone, madre, padre e due figli maschi, si era goffamente piazzata nella mia stessa zona, sbatacchiando trolley, piumini, borse. Avrei continuato a ignorarli se uno dei figli, un bambino che poteva avere circa otto anni, paffuto e irruento, non fosse venuto deciso da me e non mi avesse dato un bellissimo bacio sulla guancia, abbracciandomi. Solo allora li ho guardati. E ho visto gli occhi di quella madre, stanca, affranta, occhi gentili e dolci. Mi ha stupito che non dicesse niente del gesto di suo figlio, ma solo per un attimo. Era chiaro che quel bambino, goffo e nervoso, fosse uno di quei bambini complicati, con il cuore che batte più veloce degli altri e una testa svagata, un attrito disagevole con la realtà e una incapacità totale di proteggersi da sé e dal mondo. Non stava fermo, si arrabbiava e poi rideva, quando mi si avvicinava mi guardava con tale intensità che a un certo punto l'ho fatto accoccolare nel sedile accanto al mio e gli ho fatto ascoltare, con le cuffione, uno dei brani di Rosalia, una ballata struggente, cantata in italiano, che si intitola Mio Cristo piange diamanti. Il bambino si è placato, ma solo per il tempo della canzone, poi si è alzato di nuovo. La madre mi guardava, forse pensava che sarebbe dovuta intervenire ma non ce la faceva. Ma per me andava bene così, forse per quel bacione, o per la musica di Rosalia, la presenza di quel bambino non mi dava inquietudine, mi inteneriva. Quando lui ha avuto una crisi più forte la madre lo ha calmato, e poi ha calmato il fratello che rivoleva indietro il suo telefonino. Dopo qualche minuto tutti erano di nuovo sereni, la madre si è seduta di fronte a me e voltando la testa verso il finestrino, nascondendo il volto alla sua famiglia, ha iniziato a piangere, piano piano. Proprio come la canzone di Rosalia, sembrava piangere diamanti. Quando il treno si è fermato e siamo scesi tutti, lei ha lasciato che la sua famiglia sciamasse fuori e poi si è voltata verso di me e con le labbra, senza suono, mi ha detto grazie. Non credo che quella donna leggerà mai questa rubrica, non credo che abbia tempo per fare qualsiasi altra cosa che non sia occuparsi del suo bambino strano e del fratello che patirà le attenzioni che gli vengono sottratte. Ma se questo dovesse accadere vorrei dirle solo una cosa: grazie a te. E a tutte le persone come te, che si prendono cura di noi.

Madri/Padri”. 2 “Bambini potenti come il fuoco”, intervista di Anna Giurickovic Dato all’attrice Benedetta Porcaroli pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del 5 di dicembre 2025: (…). Benedetta Porcaroli, cosa hanno i bambini che noi adulti abbiamo smarrito? «Ti mettono di fronte a una verità spietata, perché sono senza filtri. Holly (personaggio interpretato da Benedetta Porcaroli nel recentissimo film “Il rapimento di Annabella” n.d.r.) incontra la versione di sé bambina e, attraverso questo viaggio metaforico, è come si sottoponesse al giudizio di un tribunale interiore che le chiede: hai mai tradito la bambina che sei stata? I bambini sono puri, saggi, scevri da sovrastrutture sociali. Il loro sguardo è implacabile. Mentre noi adulti passiamo il tempo a scandalizzarci, a filtrare, ad allinearci, azzerando il dibattito per non doverci mai trovare in disaccordo, i bambini hanno la potenza del fuoco».

(…). Nel film i personaggi si sentono inadeguati in una società che spinge a essere sempre competitivi e produttivi. Cosa si perde in questa ossessione per la performance? «Il valore del fallimento. Se solo accettassimo il fatto che il fallimento non ci determina, non ci definisce, se riuscissimo a essere più tolleranti e meno giudicanti... Invece siamo tutti qui, con il terrore del giudizio, abituati al pollice in su o in giù, al bianco e al nero. Insomma, la forma del nostro pensiero è veramente riduttiva rispetto alla complessa meraviglia del mondo».

Il fallimento non ci determina. E il successo? «Il successo è già un participio passato: noi attori, senza pubblico, non esistiamo. È una fiammata che non dura per sempre. Non ho avuto grandi difficoltà a gestirlo, forse, anche perché non avrei difficoltà a gestire il fallimento: relativizzo entrambi».

Quest'anno, alla Mostra del cinema di Venezia, ha vinto un premio prestigioso. Ha relativizzato? «Mi sono detta: che bel traguardo. E poi: ora ricomincio da capo».

Forse è per questo che continua ad avere successo... Che rapporto ha con la solitudine, altro tema centrale del film? «Prima la solitudine mi terrorizzava, poi ho capito che è una risorsa. Saper stare soli significa anche accettare il dolore, ed è importante, perché negarlo ha un costo sociale. Un uomo che non sa soffrire mi fa paura. Se anche un quindicenne pensa che la risposta al dolore sia la violenza, abbiamo un problema grave. Cosa gli abbiamo trasferito in famiglia e a scuola? Perché, nonostante ogni giorno leggiamo di donne morte, non si rende obbligatoria l'educazione sessuale e affettiva? Perché nessuno ci insegna che il dolore è utile?».

Lei come lo ha scoperto? «Quando ho visto mio padre piangere. Lui mi ha insegnato la fragilità, l'empatia, mettendomi di fronte al proprio dolore senza vergognarsene. Avere a che fare con il dolore dell'altro ci responsabilizza».

Holly e Arabella hanno padri assenti o inadeguati. Sono personaggi che riflettono l'evaporazione del ruolo paterno nella società odierna? «Sì, perché siamo tutti figli senza padri. Tra giovani e adulti c'è un'incomunicabilità assordante. Genitori iperprotettivi che, al contempo, tralasciano le cose più importanti. E noi figli ci ritroviamo in un vuoto cosmico, senza fondamenta».

Per cambiare il sistema bisogna saper uccidere - metaforicamente - i nostri padri? «Io sono una femminista militante ma, pur comprendendo la rabbia delle mie amiche, spero esista un'alternativa al "maschi contro femmine". Forse bisogna passare anche per questo, è una fase inevitabile, l'antitesi di quello che è stato fino a ieri, però mi auguro troveremo presto una sintesi».

Per lei l'amore è un luogo felice? «L'ho sempre immaginato come un tormento, una rincorsa, una missione, riproducendo dinamiche che mi portavo dietro da sempre. Poi, ho imparato a scardinare la mia idea di amore dal controllo, dal possesso, dalla mortificazione. Oggi, per me, è una porta aperta da cui sono libera di entrare e uscire. Un mare calmo, senza neanche un'onda».

Lei ha raccontato di come la tragedia a Gaza abbia influenzato fortemente la sua vita. «Un'esperienza così scioccante non l'avevo mai vissuta. Anzi, dopo due anni e mezzo di immagini terribili, alternate ai rossetti, alle pubblicità, mi chiedo cosa ne sarà di noi, delle nostre coscienze? Spero che, almeno, questa pagina buia abbia riacceso una speranza collettiva. C'è una luce ed è quella della compassione: penso alle barche dirette verso Gaza, a esseri umani pronti a sacrificare la propria vita».

I bambini non fanno la guerra. «No, i bambini muoiono nella guerra».

Davanti a una tragedia simile, è difficile rispondere a una domanda: crede in Dio? «Credo in Dio. Credo ai valori cristiani, come al porgere l'altra guancia. Non credo in Dio come a una superstizione, ma per ringraziarlo di tutto, se esiste. Ecco, vede? Mi prendo una riserva».

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