Nata a Hannover nel 1906 e morta a New York nel 1975, Hannah
Arendt è stata una filosofa, una studiosa di teoria politica e una storica
tedesca naturalizzata statunitense. Di famiglia ebraica, in tenera età si
trasferisce a Königsberg (allora capitale della Prussia Orientale) a causa
della salute del padre. Cresce in una famiglia secolarizzata e politicamente
progressista. Completata l’istruzione secondaria, si iscrive a filosofia
all’Università di Marburgo, dove diventa allieva di Martin Heidegger e con il
quale ha poi una relazione segreta per quattro anni. Si trasferisce prima
all’Università di Friburgo, dove segue le lezioni di Edmund Husserl, e
successivamente all’Università di Heidelberg per studiare con Karl Jaspers,
sotto la cui supervisione consegue il dottorato con una tesi sul concetto di
amore in Agostino. Nel gennaio 1933, Adolf Hitler prende il potere e, a causa
delle leggi razziali, ad Arendt viene negata l’abilitazione all’insegnamento
nelle università tedesche. In seguito, Arendt viene arrestata dalla Gestapo e
detenuta per un breve periodo a causa delle sue ricerche sull’antisemitismo,
diventate nel frattempo illegali. Dopo il rilascio, lascia la Germania per
traferirsi prima in Cecoslovacchia, poi in Svizzera e infine a Parigi, dove
conosce Walter Benjamin. Nel 1940, la Germania invade la Francia: la filosofa
Arendt viene privata della cittadinanza tedesca e detenuta nelle carceri
francesi come apolide illegale. Nel 1941, scappa negli Stati Uniti d'’America.
Diviene un’attivista nella comunità ebraica tedesca di New York, città in cui
rimane per il resto della sua vita. Nel 1950, diventa cittadina statunitense.
Tra il 1960 e il 1962 segue come reporter della rivista The New Yorker a
Gerusalemme il processo contro il colonnello delle SS Adolf Eichmann, il
criminale nazista organizzatore dello sterminio degli ebrei d’Europa intrapreso
dal regime hitleriano. Muore improvvisamente, nel 1975, a 69 anni per un
attacco di cuore. (Biografia a cura di Vera Tripodi pubblicata su il “Corriere
Della Sera).
“Hannah e l’originalità del bene”, testo della presentazione del
volume di Thomas Meyer “Hannah Arendt” – Feltrinelli editore,
pagg. 480, euro 35 – di Wlodek Goldkorn pubblicato sul settimanale “Robinson”
del quotidiano “la Repubblica” del 14 di dicembre 2025: L’opera di Hannah
Arendt non è riducibile all'espressione "la banalità del male", una frase
di grande effetto scritta nel reportage per il New Yorker sul processo di Adolf
Eichmann a Gerusalemme. Grande filosofa (e grandi erano le sue capacità di far
uso dei mass media), anche se non amava definirsi tale, nella sua elaborazione
teorica partiva sempre dall'esperienza di vita. O se vogliamo: è il vissuto
delle persone - con i loro traumi, il loro coinvolgimento emotivo - e non
l'aderenza alle categorie astratte, il nucleo del "non metodo" della
pensatrice, nata a Hannover nel 1906, cresciuta a Konigsberg patria di Kant, e
morta cinquant'anni fa a New York. Hannah Arendt. Una vita filosofica di Thomas
Meyer, pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Federico Zaniboni, è una
biografia molto interessante per la ricchezza delle fonti, in parte inedite;
tra cui lettere e abbozzi delle opere. Il grande merito di Meyer è aver
ricollocato l'oggetto della sua ricerca «quasi interamente nella sua epoca».
Spieghiamoci.
Oggi, di fronte alla crisi delle democrazie liberali con il
corollario delle guerre a Gaza e in Ucraina e il cambio radicale del volto
della globalizzazione, il richiamo all”attualità" di Arendt è costante,
rumoroso, e le citazioni - spesso fuori contesto- si sprecano. Meyer tenta invece
di raccontare più che definire o giudicare. E nell'economia della narrazione
considera decisivi gli anni fra il 1934 e il 1940, in esilio in Francia, quando
Arendt si impegnò nell'aiuto ai bambini e adolescenti ebrei, fuggiaschi come
lei dalla Germania, e contribuì a salvare molte vite. Da quell'esperienza
concreta, suggerisce, nasce l'intuizione della particolare posizione degli
apolidi, dei profughi, delle persone che non hanno il diritto ad avere diritti
e che sarà il fondamento di tante sue opere. Intanto, Hannah Arendt nasce come
Johanna in una famiglia di ebrei progressisti. L'ambiente è laico, ceto medio.
Il padre muore quando lei è bambina, la madre Martha Cohn sposa un altro uomo,
e Hannah diciottenne, ragazza indipendente, lascia la città e si iscrive
all'Università di Marburgo, dove brilla la stella di un professore che vuole
rifondare la filosofia. Il professore, Martin Reidegger, ha diciassette anni
più di lei. I due diventano amanti. Con l'ascesa di Hitler al potere lui aderisce
al nazismo. Lei lo rivede nel 1950 e poi nel 1975 e gli dà perfino consigli
sulle finanze sue e della moglie. Meyer suggerisce che Arendt si rese
indipendente dal maestro. Sicuramente non si pentì né perdonò e comprese molto.
Nel 1947 scriveva a Herbert Marcuse, ex compagno di studi: «Il suo caso
dimostra quanto una grande impresa filosofica non sia (...) sufficiente per
orientarsi nel mondo». Ma torniamo agli anni parigini. È citata una lettera
dell'agosto 1939 a Henrietta Szold. Szold era una leader sionista, si trovava a
Gerusalemme a dirigere l'organizzazione Alià dei giovani (Aliyat Hanoar) per
cui lavorava anche Arendt. Non solo portava i ragazzi in Palestina ma li
preparava a una vita da "ebrei nuovi", agricoltori nei kibbutz,
pionieri. In quella lettera è scritto: «Oggi più che mai, i nostri pensieri
sono rivolti a voi in Palestina, e più che mai ci sentiamo oppressi
dall'impotenza quando pensiamo ai milioni di 3 ebrei oltre confine». Nel 1945,
sei anni dopo, esprime invece critiche al progetto di uno Stato ebraico che lei
teme sarà modellato sull'esempio dei nazionalismi europei e in perenne e
tragico conflitto con i vicini arabi: lei sogna invece una specie di progetto
federativo. E, intanto, «ebrea al cento per cento» partecipa all'opera di
salvezza dell'eredità culturale degli ebrei in Europa, dai libri delle
biblioteche semidistrutte fino a un progetto di pubblicazione di romanzi per
«non dimenticare». Una contraddizione? No. Intanto la situazione era cambiata.
E poi lei era fedele alla biografia e non a idee a priori. Desiderava un mondo
che promuove convivenza e pluralità a scapito di nazionalismi e ideologie
esclusive, collegando le persone e creando amicizie. Di amicizie con Hans
Jonas, Walter Benjamin, Karl Jaspers e altri si parla molto nel libro. È molto
interessante poi il lavoro eclettico sulle fonti letterarie delle opere di
filosofia politica di Arendt, a partire da Le origini del totalitarismo: da
Joseph Conrad a Stefan Zweig, da Franz Kafka e Hermann Broch, fino a Rahel
Varnhagen. E lo scandalo de La banalità del male? Quando lei nel 1963 pubblicò
il libro (e per banalità non intendeva ubbidienza agli ordini, ma stupidità),
fu stroncata subito in un articolo sul New York Times e poi attaccata da
moltissimi suoi critici, primo fra tutti Gershom Scholem. Lei si aspettava
contestazioni ma non una campagna così violenta come quella che la investì.
Forse, quella volta, mancò di immaginazione.
N.d.r. La foto a corredo del post è - come quasi tutte le altre immagini postate in questo blog - della carissima amica Agnese A. Grazie.
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