Tratto da “A
questa sinistra serve una mossa” di Donald Sassoon, pubblicato sull’inserto
“Robinson” del quotidiano la Repubblica del 25 di novembre dell’anno 2018: (…).
L’Unione europea è rimasta sostanzialmente una confederazione disunita di stati
con capitalismi divergenti, dove tutto è soggetto all’obiettivo della
competizione libera, pur mascherata da armonizzazione; da qui deriva la crisi
contemporanea, resa ancor più grave dalla decisione del Regno Unito di lasciare
l’Unione. Il problema sorge dalla difficoltà di difendere i diritti sociali ed
economici sulla base della singola nazione, essendo altrettanto difficile
raggiungere un accordo a livello europeo per applicarli. La recessione globale
iniziata nel 2007 contribuì ai sentimenti antieuropei. Un sondaggio condotto
nel settembre 2012 dimostrò che l’Unione europea stava registrando valutazioni
in calo (pur restando ancora favorevoli) da una maggioranza della popolazione in
paesi ove il concetto di Ue era molto radicato, come Germania, Francia e
Italia, per non parlare dell’Inghilterra. Tutto ciò dimostra che le opinioni
pro-Europa riflettono il comportamento dell’economia: quando essa è positiva,
l’Europa è popolare. Quando erano in carica, i partiti socialisti hanno finito
per fare quello che ci si è sempre aspettati dai governi europei: assicurarsi
che il loro capitalismo “nazionale” rimanesse forte e competitivo. Si impose
così una “grandiosa narrativa” della proporzione globale, mai vista prima.
Raccontava una storia di progresso che era acutamente diversa da quella
raccontata dalla sinistra. La narrativa della sinistra vedeva il socialismo
come il successore naturale dell’Illuminismo: un sistema razionale che sanciva
i diritti economici e sociali avrebbe completato il lavoro della democrazia
politica. La narrativa dei neoliberali era diversa: il mercato globale stava
per ottenere un’era senza precedenti di libertà individuale. Questo sviluppo
era impedito da regole e regolamentazioni imposte dallo stato. Tassando le
persone si tassava anche l’imprenditorialità, l’innovazione e lo sforzo
individuale. Secondo questa visione, il socialismo in tutte le sue forme era
stato meritatamente sconfitto dato che era, ed è, illiberale, dogmatico e
inefficiente. Mentre scrivo, i partiti socialdemocratici tradizionali sono
stati ampiamente sconfitti in Europa, e dove non lo sono stati è per via di
nuove formazioni (Syriza in Grecia e Podemos in Spagna) o per la scelta di
spostarsi verso la sinistra (in Portogallo dove i socialisti hanno stretto un
patto con la sinistra radicale, oppure in Gran Bretagna, dove il Partito
Laburista ha eletto Jeremy Corbyn come proprio leader). I cosiddetti partiti
“populisti” che sono emersi nell’Europa dell’Est, in Italia e Francia (dove
Marine Le Pen ha ottenuto più del 30 percento nelle elezioni del 2017), e che
sono potenti anche in certi paesi scandinavi, sono contro gli immigrati, anche
se un’implementazione rigida dei principi neoliberali sosterrebbe il libero
movimento della manodopera. Lo scarso rendimento della sinistra e la modestia
dei suoi obiettivi sono ancor più sorprendenti se si considera che gran parte
dei sondaggi dimostra che la maggioranza (più del 70 per cento) degli europei è
consapevole che il divario tra ricchi e poveri è aumentato, che il sistema
economico contemporaneo favorisce i benestanti e che le diseguaglianze
rappresentano un grave problema. Le prospettive per la sinistra, che non vuole
o non è in grado di capitalizzare tali opinioni e difendere i diritti economici
e sociali del passato, sono cupe. I suoi partiti sono stati obbligati a
mettersi sulla difensiva e hanno poco di nuovo da proporre, ma una strategia
difensiva può reggere solo se è temporanea. Lo scopo della politica tuttavia è
quello di vincere, non di stare ferma.
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