Tratto da “Notti
magiche perdute”, colloquio dello scrittore Paolo Di Paolo con il regista
Paolo Virzì pubblicato sul settimanale L’Espresso del 28 di ottobre 2018: A un
certo punto, in una scena, passa pure Bettino Craxi: quasi altero, sicuro di
sé. Non sa che al lancio di monetine davanti all’hotel Raphaël mancano solo tre
anni. Intanto c’è un ministro socialista ballerino che si agita, sudatissimo,
in una discoteca. Cossiga è presidente della Repubblica, e in carica c’è
(naturalmente) un governo Andreotti. In un colore eterno d’estate, la prima
Repubblica comincia a vivere il suo tramonto. Ma tre ragazzi di vent’anni con
il sogno del cinema non se ne accorgono: arrivano nella capitale affamati di
gloria, eccitati, e si ritrovano gomito a gomito con i maestri del grande
schermo, tutti vivi e operanti. Forse un po’ disincantati, compreso Fellini
alle prese con quello che sarà il suo ultimo film. Notti magiche, il nuovo film
di Paolo Virzì – presentato alla Festa del Cinema di Roma e dall’8 novembre
nelle sale – è come un’elegia – una appassionata, commossa ma anche molto
divertita elegia. Lo incontro nel suo studio romano, mi pare di buonumore.
Comincio da questo: dagli stati d’animo; la cupezza rabbiosa di questa
stagione, le tentazioni nostalgiche. «Chi ha un po’ di formazione classica alle
spalle», sorride Virzì, «rischia di coltivare la convinzione che solo il
passato, tanto più se remoto, sia la culla della bellezza. Dai Greci
all’altroieri, al latte “che non è più quello di prima”. Si tratta di
valutazioni poco lucide, frutto di un pensiero fin troppo emotivo, appannato,
da ciglio umido. Bisognerebbe sforzarsi di distinguere, di valutare i
miglioramenti anche solo rispetto all’Italia premoderna dei miei nonni: alla
mia età avrei già perso tutti i denti. Riuscire a dire, come faceva Obama, “the
best is yet to come” non è facile, e non sempre è vero, ma la nostalgia
indiscriminata è comunque un errore».
Dovremmo provarne un po’ per l’Italia in cui
ambienta “Notti magiche”, quella dei primi anni Novanta? «No, non è questo. Era
per certi versi una società immobile, bloccata per le note ragioni
geopolitiche. La classe dirigente spendeva tanto, in maniera spesso dissennata,
accumulando molto per sé e maturando un debito pubblico impressionante. I
protagonisti sulla scena - Andreotti, Craxi, o il ministro ballerino - per la
mia sensibilità dell’epoca erano indigesti. E tuttavia ci tocca riconoscere che
in un Paese miracolistico, mammista, sempre infantile sul piano delle responsabilità,
parlavano una lingua a suo modo autorevole, la lingua delle competenze.
Ballavano in discoteca, ma poi erano capaci di affrontare gli operai del
petrolchimico. Erano più colti, certo. Non erano innocenti».
In una scena del film appare Craxi seguito
dal solito codazzo. Tre anni dopo, gli lanciano le monetine fuori da un albergo
romano. «Quel giorno - era l’aprile del ’93 - passavo di lì per caso. Ero in
compagnia di un giovane produttore, incazzato perché era saltata una cosa di
lavoro: Vedi?, mi diceva, è perché non sono socialista, non mi fanno lavorare.
Sentiamo questo bordello di voci, dalle parti di piazza Navona: la scena, come
si dice oggi, io l’ho vista “live”. Ma se da un lato ero fra quelli che
guardavano assai criticamente a quelle figure politiche di avventurieri, di
guasconi, dall’altro sentire l’odore del sangue, il richiamo della
ghigliottina, mi dette un senso di angoscia. Davanti al Raphaël si respirava un
po’ l’aria di un eterno Piazzale Loreto, dove infieriva di più chi era stato più
fascista. La stagione di Mani pulite, il male inaccettabile ma giudicato
“necessario” di persone che si ammazzavano in carcere, e poi l’arrivo della
“gente”, degli uomini nuovi già mostrava tutti i pericoli del giacobinismo.
Doveva certamente esserci un ricambio, una rottura, ma…».
Ma poi non è andata meglio? «Poi è
cominciata una stagione del nostro degrado, di tanto in tanto intervallata
dall’avvento di zii giudiziosi che provavano a rimettere a posto i cocci».
E di Berlusconi, il cui nome fa quasi sbuffare,
avendone parlato per vent’anni. «Sottovalutatissimo, però, sulle prime. Il
tycoon dell’editoria, il presidente del Milan, un partito nato dal nulla, da
un’azienda… Ricordo i commentatori e anche molti fra i miei amici alzare le
spalle, ridacchiare: dove cazzo va questo con le canzoncine, le spillette? E
invece. All’indomani della prima clamorosa vittoria, ancora più sonora nei
quartieri operai, fummo avvolti da una cappa di sgomento, di frustrazione, di
rabbia, un senso - forse anche sproporzionato - di fine della storia. Non
avevamo capito».
Nel ’96 diresse “Ferie d’agosto”,
protagoniste due famiglie molto diverse in vacanza. Per provare a capire? «Direi
che provare a capire qualcosa è per statuto professionale la nostra “mission”,
così si dice, no? Provare a guardare gli altri, a capire quelli diversi da noi.
Mettevamo a confronto un ceto, o “generone”, che non si era mai sentito davvero
rappresentato e votava Berlusconi, con una comitiva di quella sinistra
intellettuale che poteva assomigliare a me e ai miei amici, sguardo
apocalittico, pensoso. “Ma perché non si rilassa un po’ anche lei?”, dice a un
certo punto il capofamiglia berlusconiano Mazzalupi (Ennio Fantastichini) al
giornalista Molino (Silvio Orlando). Quella canzonatura, al fondo bonaria,
verso gli intellettuali oggi è diventata disprezzo, rancore».
È questa la differenza? «Non so, mi pare che un argine che stava franando si sia completamente dissolto. Il berlusconismo era l’anomalia del mondo - d’altra parte, siamo sempre stati dei grandi sperimentatori: nel Novecento abbiamo inventato il fascismo e l’abbiamo esportato, Trump è uno spin-off di Berlusconi, più stronzo - e il centrodestra al potere ha governato poco e maluccio, occupandosi essenzialmente dei problemi finanziari e giudiziari del premier. Ma la destra populista, sbruffona e fasulla che oggi è al potere è peggio. Sbandiera come genuinità popolare ogni ostentazione di egoismo, meschinità, grettezza. Ma la parola “popolo” andrebbe maneggiata con molta cura. Il risultato? Una stagione penosa di semplificazioni, di rifiuto delle ricette complesse, a favore di slogan - la pacchia, i taxi del mare - da predicatori d’odio».
“Prima gli italiani”. «Quello che mi fa
rabbia non è tanto il ragazzo che faceva lo steward al San Paolo di Napoli e
oggi si trova a dover risolvere i problemi economici dell’Italia, esprimendosi
più o meno come il personaggio della supercazzola in “Amici miei”. Volendo, il
governo del cambiamento sarebbe manna per noi commmedianti. In una settimana
hanno abolito la povertà e l’hanno annunciato da un balcone! Personaggi
coloriti come Di Battista sono perfetti per la commedia, con quel velleitarismo
mitomane e narcisista. Quanto al ministro che, bevendo un mojito, pronuncia
parole di disprezzo per i deboli, mi rattrista: non tanto lui, ma lo smisurato
consenso che ha guadagnato».
Lo sforzo non è capire Salvini, ma sedersi
accanto al suo elettore. Provare ad ascoltarlo. «Sì, mi viene da ridere quando
dicono: che genio chi gestisce la comunicazione di Salvini! Ma non ci vuole
granché a lavorare sui pensieri brutali; sarebbe un genio se riuscisse ad avere
seguito lavorando sull’esatto contrario. E con la signora di Lodi che dice gli
stranieri sono come zecche, che facciamo? La prendiamo a schiaffi? No,
bisognerebbe provare a farla ragionare. Soffre di una paranoia, è ostaggio
della sua paura».
Difficile parlare di esclusi a chi si sente
escluso. Penso al prof Iacovoni-Castellitto del suo “Caterina va in città”. «Forse
in quel film avevamo toccato il nervo scoperto del grillismo prima del
grillismo. Il sentimento di esclusione che covava nella piccola borghesia, nel
ceto medio: Iacovoni con il romanzo nel cassetto, con l’astio verso le
“conventicole”. Il “sentiment” della Rete l’ha fatto esplodere. E quel sentirsi
ai margini oggi produce un dolore, una sofferenza e una rabbia che mi pare perfino
superiore a quella dei personaggi del neorealismo, i ladri di biciclette con le
loro esigenze primarie, il loro istinto di sopravvivenza, la loro ostinazione».
Allora come si parla con la signora di Lodi?
«Dobbiamo trovare il modo, provarci. Cominciamo dalle storie, perché raccontare
vuol dire avvicinarsi. E odiare da vicino è impossibile. In un film che ho
fatto anni fa, “N.”, un furibondo giacobino sogna tutte le notti di ammazzare
Napoleone. Il destino glielo manda sotto casa, all’Elba, ma quando lo vede, lo
accosta, prova quella roba che si chiama compassione, pietà, e il suo furore si
affloscia… Se prevale una narrazione di chiusura, di odio, ci tocca smontarla,
raccontando altre storie: ci vorranno anni, ma è l’unico modo per curarsi dal
peggio. Una volta mi capitò di leggere un libro di James Hillman sulle storie
che curano. Lo sventolai sotto il naso di mia madre, che mi voleva medico,
dicendole: hai visto? È come se fossi un dottore anch’io. Raccontare gli altri,
come sono, cosa pensano, le paure che hanno quelli che fanno paura a noi, il
loro desiderio di essere felici, raccontare, sì, significa provare empatia,
ripartire dal fatto di essere esseri umani».
In “Notti magiche”, la lezione dei vecchi
leoni del cinema è di stare alla finestra, osservare. “Ma voi li guardate mai
gli altri?”, chiede ai ragazzi uno sceneggiatore calcato sui grandi Age e
Scarpelli. «In quella Roma tenebrosa, polverosa, fuligginosa, fiocamente
illuminata, con qualcosa di mediorientale, come i miei personaggi del film,
sono stato il ragazzo di provincia che arrivava nella capitale del cinema. E
poteva incrociare i gagliardi ex giovanotti che ne avevano segnato la storia.
Ho rubato da loro, dai loro film, la cassetta degli attrezzi del narratore. E
ho capito che a un Paese di ignavi e cialtroni era stata salvata la reputazione
a livello planetario proprio grazie a come ci hanno raccontato Rossellini, De
Sica, Fellini e poi i virtuosi della commedia all’italiana. Il mio omaggio, in
“Notti magiche”, è un modo per saldare il debito, ma anche un tentativo di
liberarsi dal peso della loro eredità. E continuare a raccontare. Perché
qualunque cosa esiste solo se la racconti».
Nessun commento:
Posta un commento