"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 21 novembre 2022

Virusememorie. 97 «Per fortuna c'è il cambiamento climatico. Almeno una buona notizia!».  

 

A lato. "Venezia" (2022), acquerello di Anna Fiore.

UnVirusChiamatoUomo”. Ha scritto Elena Stancanelli in “Prove di rivoluzione” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 12 di novembre 2022: (…). Per fortuna c'è il cambiamento climatico. Almeno una buona notizia! Pensate che incubo se tutto il casino che abbiamo fatto alla Terra avesse invece causato un abbassamento delle temperature, se adesso dovessimo contrastare l'avanzamento dei ghiacci e bande di pinguini assetati di sangue. Per fortuna fa sempre più caldo, le estati sono roventi e gli inverni miti e avremo quindi bisogno di una minore quantità di quel gas che importiamo dal dittatore pazzo. Dunque il riscaldamento globale "ha fatto anche cose buone"? Grande è la confusione nelle nostre teste e gigantesca la catastrofe che incombe su di noi. Che, soldatini silenziosi e obbedienti, marciamo come una falange verso la soluzione, anche se nessuno ha idea di quale potrebbe essere. Compriamo borracce, ospitiamo amici e vicini sotto la doccia, non prendiamo più gli aerei per andare a trovare la fidanzata in Erasmus a Praga, non mangiamo carne, non ci puliamo gli orecchi con i cotton fioc (o quantomeno li ingoiamo subito dopo) e soprattutto dividiamo diligentemente in più contenitori possibili la spazzatura. E tutto questo mentre continuano a dirci che non servirà a niente, che ormai è troppo tardi. Che i comportamenti virtuosi del singolo sono solo minuscole dilazioni: l'onda arriverà comunque, o l'incendio o il terremoto. La fine sta lì e ci guarda con tenerezza, come il leone guarda la gazzella un attimo prima di lanciare su di lei. Che fare? Possiamo nel frattempo pensare che un po' di calduccio ci aiuti a sopportare la tensione, che dividere la spazzatura è un esercizio per la mente e per il corpo: possiamo fare buon viso a cattivo gioco, come si diceva un tempo. Oppure possiamo fare la rivoluzione. Lo pensano molti ragazzi e ragazze, anche se per adesso stanno soltanto facendo le prove. Tirano zuppe contro quadri di Van Gogh, per esempio, ben sapendo che c'è il vetro e quindi non succederà niente ai girasoli ma finiranno su tutti i giornali. Sì, ma chi si ricorda perché l'hanno fatto? Giusto, e infatti, come dicevo, stanno solo facendo le prove. Non è tutto intelligente quello che fanno, è abborracciato, isterico. Versano il latte a terra dalle confezioni nei supermercati, per esempio, chissà perché. Scioperano silenziosi e disobbedienti ogni venerdì, sedendo in silenzio con cartelli che indicano la loro rabbia. Ma lo fanno, perché hanno capito che non basta rinunciare alla bistecca e bere dalla borraccia (ma intanto sono vegani, e bevono dalla borraccia). E ci odiano, perché non capiscono che cosa stiamo aspettando. E forse un giorno non molto lontano qualcuno di loro si darà fuoco in una piazza. O metterà una bomba in un ufficio postale, come la figlia dello svedese in Pastorale americana di Philip Roth (Einaudi), la capostipite delle ribelli nichiliste e confuse, estremiste e incapaci di elaborare una strategia efficace. Sono passati 25 anni da quando quel libro meraviglioso e profetico è uscito. Forse non sono sufficienti, ma prima o poi quella confusione prenderà una forma più esatta e allora diventerà di colpo efficace. Quel giorno inizierà la rivoluzione. E noi ci troveremo comunque impreparati, nonostante siano passati 25 e più anni da quando si è capito che la misura era colma, il punto di non ritorno era superato. E noi non abbiamo fatto altro che pensare vabbé, un autunno più caldo significa una bolletta più bassa. Se nel frattempo io stacco le etichette dalle lattine di pelati per metterle insieme alla carta, cosa mai di brutto mi potrà succedere? Di seguito, “Quando l’estate era solo estate” di Nadia Terranova” pubblicato sul periodico “Green&Blue” del 10 di novembre ultimo: Sono seduta di fronte a un mare che non è il mio, nella cappa di un cielo che tentenna ma non dà pioggia, e tutto quello che provo è una gelosia quieta, una forma anarchica ·di nostalgia per una vecchia estate che perde oggi la sua epicità. Ora che è settembre si può dire: quest'estate è davvero la più calda, spodesta quell'altra soffocante di cui mi tocca prendere le parti, e intanto il mare non mio non s'increspa e non si muove. Vent'anni sono passati dal 2003 - quasi venti, ne manca uno, per farmi dispetto e negarmi la cifra tonda - e allora ero un'altra me con pantaloni chiari che tiravano sui fianchi, capelli gommosi di olio o gel, scarpe verdi, in testa gli articoli sull'invasione della zanzara-tigre e sul corpo i segni del suo passaggio. Era una zanzara gigantesca che pareva uscita dai fumetti, dentro un giornale di carta qualcuno l'aveva disegnata dentro un cerchio rosso accanto a una zanzara comune ormai banale e inoffensiva, oltre che minuscola. Era l'estate in cui le bolle che dai polpacci salivano sulle cosce venivano commentate con: "eh, la zanzare-tigre" e io, a mio agio dentro i miei vent'anni, liquidavo le bolle scoprendole sotto pantaloncini sempre più corti, sempre più stretti. "Eh, il clima", diceva qualcuno; forse pure io, ma il cambiamento climatico non era una preoccupazione quotidiana e la mia generazione era impegnata a lamentarsi dei lavori interinali e del precariato. Ci lamentavamo in estate, quando i pochi che avevano un contratto se lo vedevano sospendere perché nessun editore voleva pagare agosto e, fra i molti che volevano scrivere, i più fortunati venivano chiamati per le sostituzioni estive nelle redazioni che si riempivano dell'ansia performativa di mostrarsi indispensabili. Davamo per scontato che lavorare fosse un premio ai migliori, e io festeggiavo le mie piccole fortune stappando birre del supermercato sui balconi di case in affitto vicino alle stazioni della metropolitana oppure proiettavo i fallimenti sul biglietto di ritorno a casa, dove avrei rubato poche vacanze alla mia prima estate da adulta. L'estate 2003, la prima da lavoratrice, la prima a Roma e non in Sicilia, la prima davanti a un mare non mio, era in effetti la più calda del millennio, anche se il millennio aveva tre anni ed era decisamente giovane. Noi pensavamo che quel record sarebbe-rimasto per sempre: quello che succede a vent'anni è eterno, così credono tutti, così credevo anch'io. Oggi parlo da sola davanti a un altro mare non mio che non sa niente, fermo nel suo grigiore estraneo e sciupato; provo un certo disagio a pensare che quella di vent'anni fa ero proprio io, stesso corpo, stessa pelle. Se ogni sette anni si rinnovano le cellule allora le mie sono cambiate già tre volte, il nome sulla carta d'identità sarà lo stesso, ma io non ho più la carta d'identità. Mi arrendo, questa estate è stata più calda, più lunga, più insopportabile di quella del 2003. È iniziata prima, è finita dopo. Anzi: non finisce. Ci sono state alluvioni, smottamenti e pezzi di isole crollati e perduti; ha piovuto dove e quando non doveva, il sole non ci lasciava, niente pause di buio, da maggio a settembre i giorni sono stati un unico giorno asfittico. Siamo scappati oppressi dall'afa e inseguiti dai sensi in colpa per ogni climatizzatore acceso, anche per quelli che non avevamo acceso; siamo andati su e giù per mezza Italia cercando ristoro nelle spiagge ma le spiagge erano prese d'assalto dall'euforia post-pandemica di tutti quelli che non vedevano l'ora di uscire di casa, finalmente. Tra tutti quelli lì c'ero pure io, e tutti noi stavamo stretti e sudati pure là. La verità è che non stiamo vivendo nessun dopo, la pandemia non è finita, non è finito il caldo e non è finita nemmeno l'estate, pure se stiamo correndo a raccontarcela - i racconti sono riti, si spera anticipatori. Difficile accettare di declinare le storie al presente, specie quelle da cui si vuole scappare. Seduta davanti a questo mare non mio sono una pellegrina in una stanza vuota. Penso che nessuno nei mesi trascorsi ha detto: zanzara-tigre. Questa estate le zanzare sono tornate a essere zanzare e basta, e quando le nostre gambe si sono riempite di bolle abbiamo detto: oh no, i pappataci. Come dicevamo da bambini. Siamo corsi dall'unico dermatologo aperto a ferragosto e lui ha detto che erano tarme da letto, o forse insetti che vivono a loro volta sui corpi delle tarme da letto, non ho capito bene. Comunque sono insetti predatori che vivono nascosti dentro i materassi e i cuscini dei dondoli, dove aspettano i culi sudati e salati degli umani che tornano su dalla spiaggia, ci sono sempre stati ma questa è l'estate in cui ci facciamo caso, perché facciamo caso a tutto e non sappiamo più cosa è sempre esistito e cosa invece no, cosa è colpa del cambiamento di un pianeta cui non sappiamo dare un nome. Forse non abbiamo mai saputo darglielo. Mentre il mare non mio si intristisce e mi raggela, la cosa più difficile dentro questo caldo estivo è farne racconto senza mettergli addosso vestiti distopici o tardivamente allarmisti, senza forzarlo nelle scarpe del futuro e combattendo movimenti retrogradi. Ho ascoltato due ventenni raccontarmi il cambiamento climatico in anni in cui c'ero e loro non erano ancora nati. Ho pensato a quando nell'estate 2003 svuotavo i piatti sotto i vasi in balcone perché le zanzare-tigre depositano le loro uova nell'acqua, e le piccole pozzanghere sotto le piante sono il male. Ho pensato agli odori dell'estate, l'odore di vongole e frutti di mare, la spazzatura per strada con la sua puzza di abbandono, il profumo che si appiccica al sudore. E poi ai rumori degli incubi, ai cinghiali e ai gabbiani fuori misura, alle ossessioni di plastica come le bottigliette di acqua che non usiamo più, ai rubinetti che teniamo chiusi per non sprecare l'acqua, all'acqua corrente che abbiamo usato per lavarci le mani sperando che tenerle pulite ci proteggesse dal Covid-19, a questa che non è l'estate più calda del millennio ma la prima delle estati che verranno, a questa pandemia che non è l'anomalia ma la prima di quelle che verranno. Penso al tempo che si accorcia, agli anni che si confondono, e torno all'anarchica gratitudine verso vecchie estati. Un po' mi vergogno e mentre mi vergogno, finalmente, il mare si increspa e forse dal cielo comincia a piovere.

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