Quegli “antri oscuri”, ai quali fa cenno questa prima “memoria”
che risale al venerdì 3 di aprile dell’anno 2009, sembrano siano tornati alla
collettiva “memoria” delle genti italiche, “antri oscuri” nei quali sembravano
a quel tempo essere stati rinchiusi, da un dio malefico, le libertà collettive
ed individuali.
Si era allora in trepida attesa di un “liberatore”, ovvero quello del cosiddetto “popolo della libertà”, del come “liberatori” si rappresentano oggigiorno i nuovi abitatori dei palazzi del potere. Registro una sostanziale differenza tra il “liberatore” di quel tempo andato ed i sopravvenuti “liberatori”: questi ultimi non ardiscono parlare della “libertà". Forse ne è venuta a noia la “libertà”. Brutto segno del tempo corrente. Annotavo giusto a quel tempo: Ha commentato “The Economist” il 26 di marzo ultimo scorso: “Il timore è che la Libertà nel nome del nuovo partito, altro non sia che quella di Berlusconi di fare tutto quello che vuole”. Un paese spaccato. Irrimediabilmente. Da una parte gli uni, gli altri sull’altra sponda. Posizioni inconciliabili. A pensarci bene ho provato un pizzico d’invidia per quella parte degli abitatori del bel paese che siano accorsi, sembra numerosi, alla messa in scena mediatica della nascita del cosiddetto “popolo della libertà”. Ho provato un pizzico d’invidia, dicevo, per quella buona metà del bel paese che all’improvviso si è schierata, come paladina della libertà negata, a difesa di un’idea, di un principio del quale si era stati defraudati negli anni, o meglio nei decenni trascorsi, privati della libertà da un moloch imperversante ed oscuro. Il moloch: chi sarà mai costui? Ora quella schiatta di paladini festanti alla buona novella provvederà a stanare il malefico dio per ricacciarlo negli antri oscuri dai quali era emerso con il consenso o la colpevole disattenzione dell’altra metà o quasi del bel paese, nella quale altra metà mi trovo inconsapevolmente incluso, ma non incolpevolmente, per mia personale dabbenaggine. Al pizzico d’invidia si associa o subentra, dipende dai miei stati d’animo, un senso profondo di colpa nei confronti di quella metà o quasi del bel paese alla quale ho concorso, nei decenni passati, a sottrarre la libertà alla quale disperatamente anelava. Il senso di colpa, a questo punto, mi porta quasi ad identificarmi con i più crudeli degli aguzzini ed a somatizzare, in mille forme, il mio malessere psichico, ed a nulla valgono le disamine del mio civico comportamento: mi sento bollato, assieme alla restante parte di italioti, mi sento marchiato come il più infame dei torturatori. Un oppressore. Sennonché, basta imbattermi in una innocua lettura che tale si possa definire, per rientrare da quell’inqualificabile senso di colpa e riacquistare la coscienza di non avere mai e poi mai sottratto libertà alcuna anche ad un solo componente dello schieramento contrapposto ma non avverso, schieramento che ai giorni nostri provvederà a riconquistarsi, ad uso personale, la libertà perduta. Mi ha soccorso in questa azione di personale igiene psichica la lettura di una sapiente riflessione di Nadia Urbinati pubblicata il 31 di marzo sul quotidiano la Repubblica col titolo “Popolo. L’oggetto del desiderio della nuova demagogia”. Quella lettura è riuscita a rasserenarmi ed a fare rientrare l’indescrivibile e spropositato senso di colpa provato. Prometto al mio senso di cittadinanza di mettermi in azione per incontrare al più presto, in un qualsiasi luogo, anche in campo avverso, un appartenente al cosiddetto “popolo della libertà” per socializzargli la dotta scrittura della professoressa Nadia Urbinati. Riuscirò nell’ardua impresa? Che non induca poi l’improvvida mia azione un nuovo acuto senso di colpa? È d’obbligo provare. Scrive Nadia Urbinati:
(…). Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. (…). Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente. Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo? Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme di individui-cittadini che fanno una nazione. Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprimere pubblicamente per poter essere valutate e scelte. Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella ‘voce’. Ma se la ‘vox dei’ abita un luogo definito e unico – sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo – se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso. Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclesiastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
Si era allora in trepida attesa di un “liberatore”, ovvero quello del cosiddetto “popolo della libertà”, del come “liberatori” si rappresentano oggigiorno i nuovi abitatori dei palazzi del potere. Registro una sostanziale differenza tra il “liberatore” di quel tempo andato ed i sopravvenuti “liberatori”: questi ultimi non ardiscono parlare della “libertà". Forse ne è venuta a noia la “libertà”. Brutto segno del tempo corrente. Annotavo giusto a quel tempo: Ha commentato “The Economist” il 26 di marzo ultimo scorso: “Il timore è che la Libertà nel nome del nuovo partito, altro non sia che quella di Berlusconi di fare tutto quello che vuole”. Un paese spaccato. Irrimediabilmente. Da una parte gli uni, gli altri sull’altra sponda. Posizioni inconciliabili. A pensarci bene ho provato un pizzico d’invidia per quella parte degli abitatori del bel paese che siano accorsi, sembra numerosi, alla messa in scena mediatica della nascita del cosiddetto “popolo della libertà”. Ho provato un pizzico d’invidia, dicevo, per quella buona metà del bel paese che all’improvviso si è schierata, come paladina della libertà negata, a difesa di un’idea, di un principio del quale si era stati defraudati negli anni, o meglio nei decenni trascorsi, privati della libertà da un moloch imperversante ed oscuro. Il moloch: chi sarà mai costui? Ora quella schiatta di paladini festanti alla buona novella provvederà a stanare il malefico dio per ricacciarlo negli antri oscuri dai quali era emerso con il consenso o la colpevole disattenzione dell’altra metà o quasi del bel paese, nella quale altra metà mi trovo inconsapevolmente incluso, ma non incolpevolmente, per mia personale dabbenaggine. Al pizzico d’invidia si associa o subentra, dipende dai miei stati d’animo, un senso profondo di colpa nei confronti di quella metà o quasi del bel paese alla quale ho concorso, nei decenni passati, a sottrarre la libertà alla quale disperatamente anelava. Il senso di colpa, a questo punto, mi porta quasi ad identificarmi con i più crudeli degli aguzzini ed a somatizzare, in mille forme, il mio malessere psichico, ed a nulla valgono le disamine del mio civico comportamento: mi sento bollato, assieme alla restante parte di italioti, mi sento marchiato come il più infame dei torturatori. Un oppressore. Sennonché, basta imbattermi in una innocua lettura che tale si possa definire, per rientrare da quell’inqualificabile senso di colpa e riacquistare la coscienza di non avere mai e poi mai sottratto libertà alcuna anche ad un solo componente dello schieramento contrapposto ma non avverso, schieramento che ai giorni nostri provvederà a riconquistarsi, ad uso personale, la libertà perduta. Mi ha soccorso in questa azione di personale igiene psichica la lettura di una sapiente riflessione di Nadia Urbinati pubblicata il 31 di marzo sul quotidiano la Repubblica col titolo “Popolo. L’oggetto del desiderio della nuova demagogia”. Quella lettura è riuscita a rasserenarmi ed a fare rientrare l’indescrivibile e spropositato senso di colpa provato. Prometto al mio senso di cittadinanza di mettermi in azione per incontrare al più presto, in un qualsiasi luogo, anche in campo avverso, un appartenente al cosiddetto “popolo della libertà” per socializzargli la dotta scrittura della professoressa Nadia Urbinati. Riuscirò nell’ardua impresa? Che non induca poi l’improvvida mia azione un nuovo acuto senso di colpa? È d’obbligo provare. Scrive Nadia Urbinati:
(…). Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. (…). Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente. Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo? Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme di individui-cittadini che fanno una nazione. Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprimere pubblicamente per poter essere valutate e scelte. Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella ‘voce’. Ma se la ‘vox dei’ abita un luogo definito e unico – sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo – se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso. Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclesiastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
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