“A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruivi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana. (Da “La vita facile” di Alda
Merini)
Tratto da “Essere
santa senza Dio. I primi versi di Alda Merini” di Vito Mancuso, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 1° di novembre dell’anno 2014: Da
dove nasce quella strana disposizione della mente che porta alcuni esseri umani
a valicare il piano della vita ordinaria, afferrati da un bisogno irresistibile
di oltrepassare la superficie su cui gli altri si aggirano al sicuro ma che da
loro è avvertita come piatta superficialità? Chi viene investito da questa
particolare energia si scopre a concepire un nuovo modo di rappresentare le
forme e i colori se è pittore, un nuovo modo di articolare i suoni se
musicista, un nuovo modo di pensare l’esistenza se filosofo, e un nuovo lessico
e nuove connessioni tra le parole se poeta. Ma da dove viene l’energia che
accende il fuoco interiore detto ispirazione, creatività, illuminazione,
profezia? L’inedito di Alda Merini (…) nel quinto anniversario della morte
(avvenuta a Milano il 1° novembre 2009) risponde a questa domanda. Intitolato
Santi e poeti e datato 2 dicembre 1948, è un testo molto prezioso dal punto di
vista biografico in quanto precede la prima pubblicazione dell’autrice che fu
la poesia Il gobbo del 22 dicembre 1948. È quindi la prima poesia conosciuta
di Alda Merini, allora 17enne essendo nata a Milano il 21 marzo 1931. Ma come
mai è rimasta inedita fino a oggi e qual è la sua storia? Dimenticata dall’autrice,
venne riscoperta casualmente insieme ad altri due inediti posteriori (uno senza
titolo datato 14-3-54, l’altro intitolato Mosè ma senza data) il giorno in cui
la Merini ricevette l’amica Marisa Tumicelli nella sua casa sui Navigli e la
portò a visitare la soffitta: fu lì che, scorgendo alcuni fogli sparsi sul
pavimento, ritrovò questa poesia del tutto dimenticata. Donò i fogli
all’amica, la quale li custodì per diversi anni fino a quando li affidò a don
Marco Campedelli, sacerdote veronese, burattinaio e liturgista, grande amico e
confidente della Merini che lo chiamava affettuosamente “don Chiodo” e a cui
dettò un centinaio di poesie poi confluite nell’opera del 2005 Nel cerchio di
un pensiero. (…). Io credo che Santi e poeti sia un vero e proprio manifesto di
Alda Merini. La poesia infatti risponde alla domanda fondamentale posta
all’inizio di questo articolo dicendo che la sorgente di quell’energia
particolare che dà origine all’ispirazione è l’armonia del soggetto con il
bene e la giustizia, in una relazione così stretta da potersi chiamare
santità: «Bisogna essere santi per essere anche poeti». La poesia nasce
dall’ordinamento del caos che ci abita. Lasciato a se stesso esso conduce nei
«vicoli ciechi del cervello, sbriciolati in miriadi di esseri senza vita
durevole e completa», ma domato «con un gesto calmo della mano, con un guardar “volutamente”
buono», fa ritrovare la “strada maestra”: e «nulla è più fecondo e più
stupendo di questo tempo di conciliazione». La poesia quindi sorge dalla
lacerazione esistenziale e si compie nella conciliazione tra il singolo e la
vita nel mondo. Si tratta di una poetica decisamente antimoderna, e quindi
altrettanto decisamente classica. L’idea-madre della classicità infatti è che
si può dare bellezza solo in unione armoniosa con il vero e con il buono,
secondo ciò che la filosofia tomista chiama dottrina dei trascendentali
dell’essere, ovvero l’idea dell’intima connessione tra logica, ontologia, etica
ed estetica. Per la mentalità contemporanea al contrario la creazione
artistica non ha nulla a che fare con il vero e con il bene, ma vive solo della
soggettività dell’autore. Sei anni prima dell’inedito della Merini scriveva
Simone Weil: «Il bene è disprezzato non solo nella storia ma in tutti gli
studi proposti ai giovani… è una verità divenuta luogo comune tra i giovani e
gli adulti che il genio non ha nulla a che fare con la moralità». La
moralità, ovviamente, non è moralismo, perché è evidente che il genio non
ha nulla a che fare con il moralismo: la moralità è armonia tra idee e vita,
tra dottrine ed esistenza, tra parole e realtà, è il contrario
dell’illusione, è il contatto reale e trasparente con i fenomeni.
Diceva Goethe: «Cos’altro è il genio se non quella forza creatrice da cui scaturiscono azioni ben accette a Dio e alla natura, e che proprio per questo hanno seguito e durata?». La classicità vive della connessione dell’artista con il reale. La produzione culturale odierna al contrario il più delle volte conosce solo l’originalità dell’artista fine a se stessa. Alda Merini intuisce da giovane che è solo nella relazione con una più alta dimensione dell’essere che l’arte può fiorire, secondo un’indubbia ispirazione religiosa. In seguito però giunsero per lei l’oscurità e la sofferenza dei lunghi anni passati in manicomio. Ne è venuto un chiaro-scuro della sua ispirazione per descrivere il quale si è parlato di orfismo, il movimento spirituale dell’antica Grecia che esaltava la nobiltà originaria dell’anima vedendola al contempo imprigionata in questo mondo-caverna. Gli orfici attribuivano potere soteriologico ai misteri, Alda Merini alla bellezza e alla forza della parola. Ed è questo, io credo, il punto di vista da cui intendere Cristo in quanto incarnazione della Parola salvifica, quel Cristo “dal cuore di donna” che la Merini tanto amava e che contrapponeva al Dio padre e maschio, responsabile del governo di questo mondo e dalla “voce di colpa e di rovina”. Durante gli anni del manicomio la Merini bevve a lunghi sorsi l’oscurità di questo mondo, ma a salvarla fu la forza della parola come un giorno ebbe lei stessa a dichiarare: «Quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita». Io penso che proprio qui stia la grande attrazione della sua poesia: nel fatto che la Merini ha abitato, come scrive il suo grande amico don Marco Campedelli, «i piccoli manicomi nei quali possiamo precipitare, l’urlo che abita nel fondo di noi, ma anche tutta la voglia di vivere, di aggrapparci ad un raggio di luce».
Diceva Goethe: «Cos’altro è il genio se non quella forza creatrice da cui scaturiscono azioni ben accette a Dio e alla natura, e che proprio per questo hanno seguito e durata?». La classicità vive della connessione dell’artista con il reale. La produzione culturale odierna al contrario il più delle volte conosce solo l’originalità dell’artista fine a se stessa. Alda Merini intuisce da giovane che è solo nella relazione con una più alta dimensione dell’essere che l’arte può fiorire, secondo un’indubbia ispirazione religiosa. In seguito però giunsero per lei l’oscurità e la sofferenza dei lunghi anni passati in manicomio. Ne è venuto un chiaro-scuro della sua ispirazione per descrivere il quale si è parlato di orfismo, il movimento spirituale dell’antica Grecia che esaltava la nobiltà originaria dell’anima vedendola al contempo imprigionata in questo mondo-caverna. Gli orfici attribuivano potere soteriologico ai misteri, Alda Merini alla bellezza e alla forza della parola. Ed è questo, io credo, il punto di vista da cui intendere Cristo in quanto incarnazione della Parola salvifica, quel Cristo “dal cuore di donna” che la Merini tanto amava e che contrapponeva al Dio padre e maschio, responsabile del governo di questo mondo e dalla “voce di colpa e di rovina”. Durante gli anni del manicomio la Merini bevve a lunghi sorsi l’oscurità di questo mondo, ma a salvarla fu la forza della parola come un giorno ebbe lei stessa a dichiarare: «Quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita». Io penso che proprio qui stia la grande attrazione della sua poesia: nel fatto che la Merini ha abitato, come scrive il suo grande amico don Marco Campedelli, «i piccoli manicomi nei quali possiamo precipitare, l’urlo che abita nel fondo di noi, ma anche tutta la voglia di vivere, di aggrapparci ad un raggio di luce».
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