“Bandoneon
aiutami a ritrovare mio nonno”, testo dello scrittore Paolo Rumiz
pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di
settembre 2025: «Che cos'ha in valigia?». Un bandoneon. «Apra, per
favore». Comincia così, al controllo sicurezza dell'aeroporto di Trieste, il
volo per Buenos Aires, dove è nato mio padre. Come faccio a spiegare che quel bagaglio
a mano è la mia segreta scatola nera, una "fìsa" senza tastiera, un
piccolo, diabolico mantice che mi fa da pesce pilota in un viaggio nel tempo, e
da colonna sonora di un descubrimiento che mi porterà nel cuore del tango, e
quindi dell'Argentina? Troppo complicato dire che sono caduto in un trappolone
musicale, teso da un quartetto di fisarmonicisti di anima slava e latina, e che
questi mi hanno costruito un ponte transoceanico verso le mie radici. Ancora
più complicato, spiegare che la "colpa" di tutto è aver sentito dal
vivo la voce di quello strumento, tra le dita di un mago: Rodolfo Mederos,
erede di Piazzolla e di Gardel. Ed è il volo nella notte atlantica, diagonale
di dodicimila chilometri e cent'anni, intervallo di buio necessario a varcare
la soglia di un mondo nuovo e sterminato, fatto per macinare sogni, orizzonti e
malinconie, un'Europa in trasferta che, in un'eterna quarantena, non smette di
elaborare la distanza da casa. In un'altra parte dell'aereo, i quattro
fisarmonicisti annaspano in un sonno sospeso e sincopato. Per loro è
l'occasione della vita. Maurizio Marchesich, Zoran Lupine, Stefano Bembi e Imad
Saletovic apriranno il "Festival mundial del tango" su invito e in
compagnia di Mederos, forse il più grande bando neonista del mondo. Ansimano,
come i loro strumenti. Eseguono respiraciones, che poi è il nome del loro
programma. Un mese prima li ho sentiti a Trieste e Lubiana. Una folgorazione,
un'intesa diventata subito amicizia. La loro musica saldava fra loro due spleen
nati per incontrarsi: quello balcanico-mitteleuropeo e quello dell'emisfero
australe. Quattro mantici, quattro vite (Four bellows, four tales è il nome
dell'ensemble), quattro scuole musicali che, sul terreno del tango, creano un
amalgama fuori di testa. Provo a dormire, accanto a Irene. Siamo oltre
l'Equatore, in viaggio verso l'inverno. Il bandoneon respira anche lui, nella
valigetta sopra la cappelliera. Appartiene a Maurizio, ma è stato affidato a me
per una questione di spazio-bagagli. Già lo sento un po' mio. Ogni tanto lo
apro, gli parlo. E ho l'impressione che risponda. Gran vento dalle Ande sul Rio
de la Plata, pioggia battente sulla banchina dove arrivarono milioni di
migranti e dove nel 1887 sbarcò mio nonno Domenico, da solo, a otto anni.
Imbarcato da un familiare su un transatlantico nel porto di Le Havre, e
affidato non si sa bene a chi. Nei registri argentini c'è scritto "No
acompanado" e il nome è già diventato Domingo. Solo. Solo per dodici
giorni in Atlantico e quaranta di quarantena. Poi, subito al lavoro. Domingo
friulano, che fa un po' di fortuna, va a sposare un'altra friulana conosciuta
per lettera, ha due figli e muore di dolore a 44 anni per il crack della banca
cui ha affidato i risparmi. La nonna tornerà in Italia povera in canna e mio
padre sarà cresciuto da uno zio piemontese. Nulla di tutto questo trovi nel
deludente museo dell'immigrazione. La storia di milioni di umani liquidata in
quattro stanze semivuote. Meglio camminare sotto la pioggia. Chissà se uno
Spielberg narrerà questa epopea, se qualche regista andrà mai oltre la retorica
nazionalista nel narrare un mondo che era fame e guerre e sopraffazione, ma
sapeva cantare - e danzare - la sua disgrazia. Ne conosco uno solo, Pantelis
Voulgaris. Il tassista chiede cosa vengo a fare a Baires. «Estoi buscando un
abuelo perdido, con un bandoneon en mi maleta». Cerco un nonno perduto,
portando un bandoneon in valigia. Rispondo così, mi piace sorprendere con
quello strumento. È come se un europeo ricordasse al Sudamerica le sue radici.
Ai giovani argentini, oggi, del tango importa poco. Quello migliore si balla in
Europa. A Londra, Parigi, Torino. E anche Trieste. Che mestiere fai, chiede
ancora il driver. Dico: «Scrittore». «Mis mejores deseos para tu trabajo»,
auguri per il tuo lavoro, risponde con calore. In Argentina essere scrittori è
importante. Si sono battuti per il popolo. Hanno lottato contro la giunta
militare. In Italia non è così. Se dico di essere scrittore, la gente del
popolo fa un risolino di compatimento. Con qualche ragione. La musica della
valigetta batte il tempo della pioggia sui vetri della casa di Puerto Madero. È
affacciata sulla Plata color fango, estuario smisurato, sventagliato dalle
raffiche. È il regalo di lusso di Oscar, un immigrato di ritorno. La terrazza
pare il balcone di un mega-transatlantico. Siamo ancorati all'America, anche
noi in una specie di quarantena, in attesa di accedere alla megalopoli. A
Puerto Madero si è tra due immensità, si respira viento y silencios, si
misurano le distanze. Leggo che i migliori tanghèri furono gli immigrati greci
nel primo Novecento, e la scatola nera del viaggio conferma che la musica
migliore nasce dalle lontananze, e dall'erranza: vedi il blues, il klezmer, il
flamenco. Scaturisce dal dolore degli ultimi e da una cosa che i ricchi non
conoscono: il destino. E via per avenidas con Marcela, una donna che non
deflette dalla letizia anche quando è satura di preoccupazioni. Ci porta sulla
torre detta Barolo, a bere un aperitivo sopra le luci della città sterminata.
Ho conosciuto suo padre Bruno per lettera, nei giorni di gloria dell'elezione
di Bergoglio. Mederos ci ha invitati a una grigliata a casa sua, per suggellare
l'alleanza transatlantica. Ha 85 anni e un'energia invidiabile. Gli chiediamo:
«Dove la trovi tutta questa polenta?», laddove "polenta" a Baires è
sinonimo di forza vitale. La risposta ci inchioda: «Mi vida es una resurrecciòn
permanente... L'aria è piena di musica non scritta che aspetta solo me per
essere composta». L'uomo è smilzo, quasi evanescente. Mi ricorda mio padre.
Mette maxi-bistecche sul fuoco, le rivolta in scioltezza. Potrebbe grigliarne
anche mille, tanta è la legna che ha accumulato sul terrazzo. Si pasteggia a
vino rosso italiano del migliore. Ascolto dai cinque parole da iniziati. «Il
tango è nudo. Va vestito, della tua espressività», oppure «la vera musica viene
dall'anima e dall'orecchio. Lo spartito è solo un'agenda». Rodolfo non è solo
un concertista. È un mago che propizia incontri, atmosfere e musica. Con gli altri
quattro, riunisce l'impossibile. Mozart, Piazzolla, musica barocca e da
fisarmonica diatonica, il tango della guardia vieja e quello nuovo, con fughe
nel jazz e nelle atmosfere dei rioni popolari. Il mago prende lo strumento, lo
bacia, lo appoggia sulle ginocchia come un gatto da coccolare. Poi, quando si
fa silenzio, attacca con l'immortale Adios nonino, che Piazzolla scrisse per la
morte del padre. Un tradimento, per me che sono qui a cercare mio papà, e il
papà di mio papà. Esegue il pezzo tirando le pause allo spasimo, con
trascinamenti chiamati arrastre e strappi sincopati subito interrotti per non
disturbare la melodia. Tutta roba che raschia l'anima. Quando smette di
suonare, riemerge come da un sogno. Il tango è profondo. Se ci caschi dentro,
fatichi a uscirne. A me, piomba tutto addosso: il dolore del nonno, che ha dato
l'anima e la vita a un Paese che l'ha fregato. Lo vedo, piccolo in un oceano smisurato,
vedo il suo addio alla famiglia, la solitudine, la fatica. E poi mio padre che
sessant'anni dopo mi muore tra le braccia, in levità com'era vissuto; papà
ufficiale gentiluomo che dà del lei ai soldati; papà che al mattino canta Puccini
sbarbandosi; papà tanghero, che fa volare sul parquet anche le grasse, dio solo
sa come. Barrio Nord, via Manzilla, ventottesimo isolato, un numero che è quasi
tremila. L'ha scovato Elisa Iussig, amica argentina a Trieste. Mi chiama ogni
giorno da quando sono qui. Sono dieci anni che mi spinge verso l'Argentina, e
ora eccomi davanti alla casa paterna che non c'è più. È diventata rivendita di
pizze e empanadas, tra una salumeria e uno studio di manicure. Un tradimento,
per un carpentiere che ha costruito mezza Buenos Aires. La scatola nera
registra ogni cosa. Ora suona il tango dell'abuelo, il nonno finito non so in
che cimitero. C'è un tango per tutte le tristezze, dice Borges che pure
preferiva la milonga. Martin Caparros scrive che il suo ritmo nasce dalla
delusione per una terra che per molti migranti non è mai quella promessa, e
dirotta quella delusione sulla femmina impossibile. Mio nonno, chissà, poteva
assorbire il colpo ballando con una bella portena. E invece da friulano ha
sofferto in silenzio ed è morto di crepacuore. Marco Ciriello, scrittore che
per seguire Maradona è stato più volte in Argentina, commenta che il tango fa
comodo ai ricchi perché dirotta sul sesso la rabbia sociale. «Infatti - mi
scrive in una chat - i tanghi li trasmettevano alla radio sotto la dittatura». Concerto
di prova al Dom San Martin, nel teatro della comunità slovena, commossa per la
visita dei quattro fratelli di lingua, e di Rodolfo, gran sacerdote del
ricongiungimento. Buenos Aires è un arcipelago di culture orfane delle origini.
I cinque di Respiraciones potrebbero accendere allo stesso modo le nostalgie di
tedeschi, francesi, russi, greci, armeni. Potrebbero farlo anche per gli
italiani, ma all'Istituto italiano di cultura la cosa non importa. Nessuna
risposta alle mail. Omaggio all'Italia con 'Na voce, 'na chitarra; poi alla
Slovenia, con Cvetije vjeseni, fiori d'autunno. Il teatro trema per gli
applausi. Commozione in-contenibile. Il bandoneon di Mederos è più piccolo ma
più potente delle quattro fisarmoniche di contorno. Emerge come la testa di un
cobra svegliato da un dio pifferaio, infrange ogni diga linguistica, fa
confluire il Danubio e il Rio de la Plata in un unico pentolone sonoro. Finale
mitteleuropeo tra gnocchi e pentoloni di gulasch; ma appena torna il silenzio,
la musica rie-merge in ciascuno di noi. "Vuelvo al sur / coma se vuelve siempre al
amor / Soy del sur I coma Los aires del bandoneon ". Quella sera,
tornando a casa, ballerò per strada il tango della pioggia con Irene. Serata
inaugurale del Festival Mundial, teatro strapieno. Qui è solo musica: i
ballerini se ne stanno in un'altra arena, ed è meglio non convivere con le
geometrie perfezioniste dei palestrati. È un altro pianeta. Lo sento un po'
privo di passione, lontano dal popolo, dall'angiporto e dal coltello. Il tango,
dice Mederos, non è per chi non ha sofferto. Anche qui, ovazioni. Specie quando
Maurizio affianca Rodolfo in un duo pazzesco di bandoneon, El motivo, di Carlos
Cobiàn. Uno dei due strumenti è quello che ho custodito in volo, e stasera pare
volare ancora. Arpeggiando sulla tastiera, Stefano percorre chilometri con le
dita; Zoran aggiunge espressività da diatonica; Imad il bosniaco, che ha
perduto la sua terra, ci dà di nostalgia meglio di tutti. E poi c'è Teresita,
che sul parquet dell'Accademia del Tango - luogo sacro con le icone dei Grandi
- ci insegna i passi fondamentali. Teresita Brandon, capelli neri alla
maschietto, creatura nata a Lima da padre anglo-peruviano e madre argentina.
Non so come diavolo faccia a portare un sacco di patate come me, fingendo di
essere portata. Ora la musica è Mi Buenos Aires querido di Carlos Gardel, e
Teresita va, pallida sul nero della tenuta - scarpette senza tacchi, braghe con
scaldamuscoli e pullover, più il vermiglio delle unghie e del rossetto - con
una delicatezza da ballerina classica imparata dalla madre, che faceva quel
mestiere e della quale porta il ritratto nel telefono. Quando le chiedo della
sua storia, risponde: «Tienes un panuelo?», ce l'hai un fazzoletto? Ed è solo
l'attacco di una ballata fatta di migrazioni difficili, fatica e tanta musica.
Ma precisa: «Guarda che so anche divertirmi». Scrive e canta canzoni sue. Me ne
manda alcune sul telefono. Lulù, No me importa. E altre. Tenerissime. Una
rondine. E non solo per il gioco del bianco e del nero: anche per il canto
d'altri tempi, per la leggerezza del ballo, per la grazia con cui sorvola gli
incidenti della vita, e anche per essere così minuta in una città sterminata.
Ballando, persino un orso come me sente attraverso il corpo la sua sensibilità.
Quanto ha ragione Mederos. Chi non ha sofferto, non può far tango. Finisco
davanti allo stadio del Boca solo per comprare le magliette di Maradona ai
nipotini, ma anche per un voto fatto in Afghanistan. Dei predoni mi avevano
preso per americano e mi minacciavano col mitra, e allora, per convincerli che
non lo ero, dopo analoga esperienza di un collega giornalista, gridai: «Italia,
Napoli, Maradona» ed ebbi salva la pelle. La Bombonera non è uno stadio, ma il
tempio azzurro-oro di un rione popolare detto El Caminito. Sorge in un mare di
casette colorate basse, e Marcela mi fa notare che questo lo fa sembrare più
grande di quello che è. È sabato, e intorno è un pandemonio di allegria che sa
più di milonga che di tango. Fumo di sarde alla piastra, giocolieri, cannonate
in memoria degli "eroi" delle Malvinas e la banda della Prefectura
Naval, con la feluca piumata, che intona marcette. Milei sta sui comi a tutti.
Il tifo è patriottico, ma di sinistra. Non capisco niente di calcio, ma l'arte
pedatoria è di mio padre, dei miei figli e dei miei nipoti. Sul piano
genealogico sono un alieno. E ora lo stadio è come se dicesse: ragazzo, qui e
ora farai i conti col tuo sangue. Ed ecco che nel corridoio d'accesso alle
gradinate, mi becca a tradimento una commozione da paura. È il legame fra
generazioni che mi fermenta nella carne. Sangue no xe acqua, si dice dalle mie
parti. È tutto così folle. Non so ballare, non leggo musica, non gioco a
calcio, ed ecco che l'Argentina mi conquista proprio lì: baile, musica e
futbol. Le icone nazionali. Succede perché il mito si mangia col pane, al
Caminito. Quando usciamo è impossibile resistere alle grigliate e ci buttiamo
su un choripan, panino caldo col chorizo. Sento il mio corpo spalmarsi su tutta
l'America latina. E sento che il futuro è qui. Non negli Stati Uniti.

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