"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 31 marzo 2025

Lavitadeglialtri. 78 Michele Serra: «Mio padre partì per la guerra in Africa a vent’anni e tornò a casa nel ’46 dopo una lunga e dura prigionia. Non ne parlava mai»


Storie&Guerra”. 1“Il racconto di Francesca, cento anni tra guerra e resistenza: «Mussolini vietò il grecanico, parlarlo diventò una vergogna»”, testo di Silvio Cacciatore – cortesemente segnalatomi dalla carissima amica Agnese A. – pubblicato sul sito www.lacnews24.it il 23 di marzo 2025: «Sono passati cent’anni. Cento anni… che vuoi dire?». Francesca Plutino ha la voce sottile e una lucidità che spiazza. È nata a Bova nel 1924, quando l’Italia era ancora un regno e parlare greco, nella sua famiglia, era normale. «I miei genitori si parlavano in greco tra loro, ma a noi figli non lo insegnavano. Avevano paura. Dopo Mussolini, parlare greco era diventato una vergogna». Oggi, mentre il tempo sembra aver cancellato tutto, c’è chi prova a salvare ciò che resta. (…). La lingua che si spegne non fa rumore. Muore in cucina, tra un gesto e l’altro, nell’assenza. Così è stato per il greco di Calabria: imposto il silenzio, si è fortemente ridotto. Francesca lo ricorda come una ferita che non ha mai smesso di sanguinare: «Noi bambini capivamo, ma facevamo finta di niente. Era meglio non dire nulla». La storia di Francesca è la storia di una cancellazione, e non solo linguistica. È il segno concreto di una politica che ha voluto azzerare la memoria per sostituirla con l’uniformità del potere. (…). «Quando scoppiò la guerra, non avevamo radio. Le notizie si passavano a voce, arrivavano dai paesi vicini. Nessuno sapeva niente, si cercava solo di sopravvivere». Il fronte non era ancora arrivato, ma la fame sì. Poi arrivarono anche le bombe. E infine, la chiamata. Suo marito, come molti, fu richiamato. Partì per servire la patria e finì prigioniero. I tedeschi dissero che li avrebbero riportati a casa. Invece li caricarono su vagoni merci, chiusi, senza cibo. «Viaggiarono tre giorni e tre notti. Fermi di giorno, si muovevano di notte. Pensavano di tornare, invece finirono nei campi di lavoro». Nel vagone c’erano solo assi di legno, un secchio per i bisogni, nessuna aria, nessuna sosta. Gli uomini si reggevano in piedi uno contro l’altro. Alcuni non arrivarono mai. Il marito di Francesca sì. Ma quando scese, era già un altro. Arrivò a pesare 36 chili. Lavorava fino allo sfinimento. «Gli davano una fetta di pane sottile come un’ombra e un pezzo di pasta cruda per tutto il giorno. Se non lavoravi, ti fucilavano». Di notte scavava sotto la rete per recuperare cavoli e patate tra gli scarti. Una notte lo beccarono: calcio del fucile in testa. Si salvò per miracolo. Quando racconta, Francesca abbassa gli occhi, come a cercare il punto esatto in cui finisce il racconto e inizia il ricordo. Il campo era vicino a uno di concentramento. «Vedeva i forni crematori. L’odore acre, il fumo, li ricorda ancora. Una volta un’asinella partorì. Per fame cucinarono il piccolo. Attaccavano la carne ai muri caldi dei forni per farla cuocere». Quelle immagini sono sopravvissute anche quando tutto il resto sembrava scomparso. Lì, tra il fango e il filo spinato, c’era ancora qualcosa di più profondo del dolore: il terrore di non essere più uomini. Quando arrivarono gli americani, i prigionieri videro i soldati tedeschi scappare. Non capivano. Poi venne l’annuncio: erano liberi. Ma non poterono tornare subito. Sei mesi in un campo intermedio, per curare la scabbia, i pidocchi, le infezioni. Nessuno poteva rientrare a casa in quelle condizioni. Quando finalmente tornò, Francesca lo trovò irriconoscibile. «Appena vedeva i maccheroni, sudava. Non riusciva a mangiarli. Gli ricordavano la pasta cruda del campo. Aveva paura anche del cibo». Era giovane, ma portava negli occhi il peso della fame, della guerra e della colpa di essere sopravvissuto. Per mesi, parlava poco. Si svegliava di notte. Si sedeva in silenzio, guardando fuori. E ogni volta che raccontava qualcosa, lo faceva come se gli costasse. Francesca racconta per lasciare traccia. Racconta perché nessuno lo fa più. Le madri che si vedevano portare via i figli appena nati, i bambini lasciati nelle ruote delle suore, la fame, la paura, le bombe. «Una mia cugina aveva il marito in carcere. Quando partorì, le portarono via il bambino. Glielo diedero in adozione a Bova Marina. Non le dissero neppure dove». È una storia che si ripeteva, sottovoce, in tanti paesi del Sud. Nascere nel momento sbagliato, da una madre sbagliata, significava scomparire. Poi c’erano quelli che partivano per l’America. «Alcuni tornavano, altri mai. Alcuni non li riconoscevano neppure come figli. Succedeva anche questo». Famiglie divise, lingue spezzate, identità frantumate. «Ci si arrangiava. Ci si vergognava. Ma si viveva. Anche se non si sapeva bene come». Francesca lo dice senza rabbia, come una verità troppo antica per farle ancora male. Oggi Francesca è una delle ultime voci di quella Calabria che non ha solo sofferto, ma è stata sistematicamente messa a tacere. Prima dal regime, poi dalla miseria, poi dall’oblio. Ha mani magre e occhi fermi. Parla con precisione, anche quando i ricordi si sfilacciano. Ogni parola sembra pesare più del silenzio. «Io parlo perché è rimasto poco. Pochissimo. Ma non è giusto che vada tutto perduto. Noi siamo ancora qui». È molto più della sua storia personale. È la storia di un popolo intero che non ha mai avuto voce. È il ricordo di chi ha perso tutto, anche la lingua per dirlo. Raccontare oggi Francesca significa recuperare un pezzo di ciò che siamo. È una necessità, più che un atto di nostalgia. «Sono passati cent’anni. Cento anni… che vuoi dire?». Francesca Plutino oggi lo sa. Lo dice. E lo lascia a chi verrà.

Storie&Guerra”. 2 “L’addio alle armi di zio Nino”, testo di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 30 di marzo 2025: Antonio (l’attore Antonio Albanese n.d.r.) ce l’aveva in corpo, questa storia, da tutta la vita. Da quando, ancora bambino, sentiva parlare – ma poco, solo qualche frase, qualche accenno – di questo zio scappato nel cuore della guerra da un campo di lavoro in Austria, e tornato a piedi nel suo Paese sulle Madonie, Petralia Soprana. Un ragazzo di ventidue anni per mesi in balia della fame, della sete, del freddo e soprattutto della paura degli altri uomini, che nel disordine catastrofico della guerra diventano bestie sconosciute. Ce l’aveva in corpo, questa storia, e l’ha scritta (“La strada giovane”, Feltrinelli editore, pagg. 128, euro 16 n.d.r.) nel più fisico dei modi, perché è il corpo delle persone, in guerra, che viene messo in gioco fino al terrore, allo sfinimento, all’annientamento. La cosiddetta anima diventa un lusso, si è solo corpi che cercano di non morire. Bere dove capita, mangiare quello che capita, dormire cercando scampo dal gelo e scappare, scappare, scappare, con il miraggio di tornare a casa perché solo la casa è il luogo nel quale la vita torna ad avere una forma e un senso. Perfino una normalità. Se sei cresciuto in una famiglia di panettieri, come Nino, il profumo del pane è la bussola che la memoria mette a disposizione, l’odore incancellabile da inseguire anche dove è stato cancellato – il pane, in guerra, non è pane, è un surrogato che mortifica. E le voci e il volto della madre e della giovane moglie sono l’approdo sognato, l’immagine interiore grazie alla quale metti un piede davanti all’altro anche se sei sfinito, anche se ti viene voglia di sdraiarti là dove sei e lasciarti morire. (Ma nei momenti di disperazione: ci saranno ancora, mia madre e mia moglie, saranno vive? È davvero esistita, la vita, prima della smisurata esplosione della guerra?). Il racconto è veloce, diretto, senza fronzoli e senza fiato, centoventi pagine che trascinano il lettore dentro una fuga vertiginosa e ostinata, dentro la quale luoghi e persone sono leggibili solo nella chiave primitiva, potentissima, della sopravvivenza: se mi avvicino a quelli, mi sparano o mi danno da mangiare? E questo paesino dall’aria tranquilla, mi offrirà riparo o mi darà la morte? Antonio Albanese, (…), ha ricostruito il viaggio disperato di suo zio Nino (era il fratello del padre) sviluppando i pochi dettagli noti, come le lumache raccolte per sfamarsi; e per il resto affidandosi alla sua facoltà di narratore. E in casi come questi raccontare, colmando con la letteratura, con l’arbitrio della scrittura, ciò che non è stato detto, è un omaggio emozionante a chi non disse, a chi non raccontò, perché non aveva abbastanza parole o perché quelle che aveva non gli sembravano della misura giusta per raccontare la sua smisurata avventura, e sventura. Come in molti sappiamo il silenzio è stato, per molte delle nostre madri e dei nostri padri usciti dalla Seconda guerra mondiale, una ostinata difesa contro memorie indicibili, cicatrici da occultare. Viaggi identici a quello di Nino sono toccati in sorte a centinaia di migliaia di europei, dalla ritirata di Russia alle meno note e a volte ignote ritirate individuali di soldati fuggiaschi, di prigionieri scampati per un soffio alla mattanza, di ragazzi che volevano disperatamente, ostinatamente, una cosa sola: tornare a casa, vedere se la vita normale era ancora una ipotesi verosimile o solamente un sogno che la guerra aveva cancellato per sempre, per non restituirlo mai più. Si mossero con ogni mezzo verso l’uscita da quel tunnel fragoroso e disumano, magari saltando su un treno per qualche tratto di binario non sventrato dalla dinamite e per il resto a piedi, sempre a piedi, per centinaia, migliaia di chilometri, nascondendosi nei boschi, cercando di decifrare i segni di un mondo sfasciato, impazzito, nel quale distinguere tra amici e nemici era diventato quasi impossibile. L’Europa, specie negli ultimi anni della guerra, è stata disseminata dalle tracce di quei fuggiaschi, presto cancellate dal tempo e ancora più presto dimenticate pur di lasciare spazio alla vita che tornava a vivere, all’odore del pane e a tutti gli altri odori, e suoni, di un risveglio nel proprio letto. Il racconto di Antonio Albanese è capace di offrire a zio Nino, e ai tantissimi come lui, le parole che non hanno potuto o voluto avere. Lo fa calandosi nel corpo stremato e affamato di chi poi, una volta scampato alla guerra e tornato a casa, non ha più voluto parlarne. (…). La povertà degli avi, la fame, la sete, la migrazione, la durezza materiale della vita, ecco che cosa scava le persone, dà fisionomia ai loro volti e significato ai loro sguardi, le rende tragiche e le rende comiche: siamo vivi, tutti quanti, perché siamo scampati alla morte, o qualcuno prima di noi è scampato, generandoci. (…). Mio padre partì per la guerra in Africa a vent’anni e tornò a casa nel ’46 dopo una lunga e dura prigionia. Non ne parlava mai, l’unica traccia che conosco (come le lumache di Nino) di quella sua gioventù marchiata e reclusa è il racconto di un passero che, con i compagni di camerata, era riuscito quasi a addomesticare. Poi so che puliva locomotori, credo in Algeria. Nient’altro. Fortunato Nino che ha trovato, ottant’anni dopo il suo viaggio, qualcuno che ha saputo raccontarlo.

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