"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 21 marzo 2025

Lastoriasiamonoi. 44 Antonio Gramsci: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L’indifferenza è il peso morto della storia».

                                Sopra. Gli esiliati di Ventotene.

(…). …è certa una cosa. Questo benedetto Manifesto di Ventotene non l'aveva letto nessuno e nessuno, facile previsione, continuerà a leggerlo, specie nell'unico modo possibile: collocarlo nel suo contesto, nelle biografie dei tre intellettuali antifascisti che lo scrissero, nel dibattito del tempo. Il manifesto Per un'Europa libera e unita (1941) per alcuni è un santino da sventolare, per altri - da ieri Giorgia Meloni - una pietra da scagliare (ma lei stessa, in passato, lo aveva usato come un santino). Non è un modo serio di fare politica, certo non lo è di fare pensiero. Intanto va chiarita una cosa: il Manifesto di Ventotene non fonda affatto le istituzioni dell'attuale Europa intergovernativa, è l'avvio - così incistato nel clima di quegli anni di ferro e di fuoco - di una corrente minoritaria e sconfitta della politica europea, quella federalista, di cui Altiero Spinelli fu uno dei principali animatori. Quel testo lontano, peraltro, ebbe all'epoca non molta fortuna e non esaurisce certo l'evoluzione del pensiero dei suoi estensori, almeno dei due che sopravvissero (Eugenio Colorni fu ucciso dalla Banda Koch): l'unico modo di leggerlo è restituirlo al suo tempo. I totalitarismi e la guerra avevano convinto i tre autori - un comunista anti sovietico (Spinelli), un socialista (Colorni) e un liberalsocialista (Rossi) - che la radice del male era lo Stato nazione e che, dopo la guerra, l'unico modo per evitare altre carneficine era creare una federazione europea attraverso una "rivoluzione socialista" e per i modi più spicci ("la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria"), in attesa di un governo mondiale. Si può discutere sulla diagnosi e sulla cura, ma questo è il Manifesto: non è un santino, non è un programma per l'oggi, né un ventaglio per farsi aria in una piazza affollata, ma il tentativo di tre uomini imprigionati di continuare a fare politica, di immaginarsi un dopo, di inventarsi un mondo diverso. (Tratto da “Il Manifesto e il santino sottratto al suo tempo” di Marco Palombi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20 di marzo 2025).

“Ora la piazza ha un’altra buona ragione”, testo di Corrado Augias pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, giovedì 20 di marzo 2025: La nostra presidente del Consiglio ha oltraggiato forse senza saperlo la memoria di quanti hanno combattuto in nome dell’Europa prima dall’esilio poi dalle fila della Resistenza per restituire all’Italia la dignità che il fascismo aveva distrutto, agli italiani la loro libertà. Giorgia Meloni è diventata una specialista delle citazioni monche che chissà chi le prepara a misura delle sue piccole polemiche. (…). Ignorando soprattutto che anche da quel Manifesto sarebbe poi venuta l’Italia democratica e repubblicana, lo Stato sociale di cui tutti abbiamo beneficiato. Non si può fare sfoggio di citazioni distorte per ammantare con parole altrui le proprie approssimative conoscenze. (…). Il 15 marzo scorso mentre guardavo piazza del Popolo gremita al punto di dover essere sbarrata a ogni ulteriore afflusso, mentre avvertivo, come molti intorno a me, il senso forte della partecipazione, la voglia di applaudire, di condividere quanto si diceva dal palco, direi di respirare in sintonia con gli oratori, mi sono detto: ecco dev’essere stato uno spirito come questo che ottanta e passa anni fa ha informato i padri fondatori della Costituzione e della Repubblica. Il loro era certamente un sentimento meno ingenuo, più sottile, più politico, se vogliamo più tecnico, era però qualcosa che s’avvicinava a quanto stava avvenendo in quella piazza. Allora erano in ballo tante concezioni diverse della politica, della fede religiosa, della stessa vita, unite però dalla volontà di dare finalmente all’Italia liberata dalla vergogna del fascismo, quella carta dei diritti che per secoli era stata, e si era, negata. (…). Sul palco di piazza del Popolo mi è tornato alla mente un altro vecchio ingenuo che nel 2011 scrisse un pamphlet di immediata e vastissima diffusione. Stéphane Hessel ebreo di nascita, morto nel 2013, nato a Berlino, poi naturalizzato francese, internato a Buchenwald, partigiano poi diplomatico e scrittore. Il titolo di quel librino, poco più di un opuscolo, valeva come una scudisciata: “Indignatevi!” Forse dovremmo ripeterci la stessa esortazione, indigniamoci, forse dovremmo dire svegliamoci, non aspettiamo che al riparo della nostra inerzia accada l’irreparabile. Le catastrofi, l’orrore, non arrivano di colpo, si insinuano a piccoli passi quasi impercettibili, come ladri nella notte, lo dice l’esperienza lo confermano gli osservatori più attenti. Il filosofo Tzvetan Todorov che ha insegnato a lungo alla parigina École des hautes études en sciences sociales ha scritto: “Uno degli insegnamenti del recente passato è che non esiste rottura tra estremi e centro bensì una serie di impercettibili transizioni. Se nel 1933 Hitler avesse rivelato ai tedeschi che dieci anni dopo avrebbe sterminato tutti gli ebrei d’Europa, non avrebbe mai vinto le elezioni – come invece accadde”. E qui viene la conclusione valida ancora oggi: “Ogni concessione è di per sé insignificante, prese insieme portano all’orrore”. Perché nessuno – o troppo pochi – reagiscono davanti alle più sfacciate diseguaglianze sociali, alla progressiva cancellazione di alcune garanzie che intaccano i diritti dei cittadini, per esempio l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo, perché nessuno reagisce di fronte al collasso della sanità pubblica che è stata a lungo un motivo d’orgoglio del nostro paese o di fronte ad una scuola pubblica sottofinanziata nell’edilizia, nelle attrezzature, negli stipendi degli insegnanti, perché nessuno reagisce davanti ad un’evasione fiscale di dimensioni gigantesche che impoverisce ulteriormente un paese già gravato da un debito pubblico immane? Dove sono finiti i valori della Resistenza quelli che hanno permesso di scrivere il testo di una costituzione che per la prima volta nel corso della loro travagliatissima storia ha dato agli italiani la certezza dei loro diritti? Quei valori sembrano spariti, sembra che della loro scomparsa importi poco a una maggioranza di cittadini che ha ceduto quel lascito generoso per il piatto di lenticchie di una piccola agiatezza. Quando è cominciato tutto questo? Ricordo anni in cui non passava sabato senza che ci fosse un corteo di protesta, compresi gli eccessi - vetrine infrante, auto rovesciate, fiamme – che rendevano quelle manifestazioni politicamente inutili, anzi controproducenti. Ricordo le grandi sfilate femministe degli anni Ottanta, giovani donne che avevano imparato a rivendicare uno status paritario gridando la loro indignazione. Più indietro negli anni rivedo le lotte operaie, i volantini degli attivisti, i segretari dei partiti ai cancelli delle fabbriche, i comizi volanti. Quando è cominciato il grande silenzio? Il lungo sonno? Al volgere del secolo? Poco prima o poco dopo, il grande corpo addormentato della volontà popolare giace immobile, muto, non risponde nemmeno più al richiamo delle urne. Ricordo quelle occasioni come un giorno di festa, nelle campagne si metteva il vestito buono, l’ho visto facendo lo scrutatore da studente, i carabinieri alla porta, il presidente del seggio consapevole della dignità del suo ruolo, l’emozione di avere in mano una scheda e una matita. Gli italiani votavano in massa, 80, 85 per cento, era su quelle basi che ognuno faceva, liberamente, le sue scelte. Da qualche tempo, chiunque può affondare i suoi colpi sul corpus della democrazia certo che non vi saranno reazioni, scomparsa la follia di alcuni fanatici assassini, ma scomparso anche l’orgoglio di chi sentiva di partecipare alla costruzione della casa comune mettendo una croce sulla scheda. È come se l’indifferentismo della borghesia che Alberto Moravia aveva raccontato nel 1929 si fosse esteso all’intera società, avesse irretito i giovani togliendogli la prerogativa migliore, l’entusiasmo spinto a volte fino all’irresponsabilità, il vigore, la voglia di cambiare il mondo essendone in qualche modo gli artefici. Ricordo che ancora prima, nel 1917, Antonio Gramsci aveva gridato la sua indignazione contro gli indifferenti. Aveva solo 26 anni ma le idee già molto chiare “Odio gli indifferenti”, aveva scritto. “Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la materia bruta che strozza l’intelligenza. Il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e sembra che sia la fatalità a travolgere tutto e tutti”. Molto prima, Dante aveva individuato e punito gli ignavi nell’Antinferno. Nudi, tremanti, gli ignavi sono coloro “che mai non fur vivi”, oggi sono quelli che figurano in fondo ai sondaggi, capaci solo di rispondere “non so, non ricordo” nel timore di prendere una qualunque posizione. Ottantant’anni fa i giovani italiani si sono tragicamente divisi. Anche nell’esercito di Salò c’era chi in buona fede credeva di combattere per la patria senza rendersi conto di servire, umiliato, il padrone nazista. Dalla parte opposta, chi era salito in montagna perché voleva un’Italia migliore di quella trascinata dal fascismo nella disfatta. Dove sono finiti? Dov’è finito il messaggio, l’esempio? Possibile che tutto l‘impegno dei giovani si esaurisca oggi in qualche scuola occupata dove poi bisogna contare i banchi sfasciati, i lavandini divelti, i muri insozzati da scritte di deprimente banalità? L’Italia dorme, dorme per la verità l’intero Occidente, i risultati si vedono e non sono soltanto politici, incidono sul costume, il tempo libero, la manipolazione delle notizie e dei consumi, la cancellazione della storia. La piazza di sabato 15 marzo mi ha fatto rivivere il grido di Stéphane Hessel, dovremmo davvero indignarci, prima ancora dovremmo finalmente svegliarci. Sarà possibile tenerlo vivo lo spirito di quella piazza?

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