Non lo capisco: da dove viene tutta questa agitazione? Non sapevamo chi fosse Trump? Non avevamo sentito i suoi discorsi? Non ci eravamo accorti che non è un politico, ma un bullo? Ignoravamo che, (…), capisce solo il linguaggio della forza? Avevamo dimenticato che, (…), disprezza la democrazia e che aveva organizzato un colpo di Stato? Nessuno ci aveva detto che odia l’Ue (…) e che non vuole un’Europa unita (da qui il suo sostegno ai leader europei che cercano di smantellare l’Ue)? Non era evidente che questo secondo Trump, circondato da magnati ossequiosi e imbevuti di tecno-autoritarismo, sarebbe stato peggiore del primo? (…). Credevamo che avrebbe minacciato guerre commerciali suicide con il Messico e il Canada, ma non con noi? Non era ovvio che in Ucraina avrebbe cercato di accordarsi con il suo complice di Mosca senza consultare gli europei, un accordo perfetto per la prossima invasione russa (le stazioni successive: Moldova e i Paesi baltici)? Tutto questo e molto altro lo sapevamo benissimo, ma facevamo finta di non saperlo, e ora ci scontriamo con la realtà: non è un’iperbole dire che Trump aspira alla distruzione della democrazia, e per far questo deve rompere o indebolire l’Europa, il grande baluardo della democrazia, e smantellare gli organismi internazionali, al fine di abolire un ordine mondiale basato su regole e fondare un nuovo ordine autoritario, governato dall’unica legge che rispetta: la legge del più forte. Questa è la situazione e chi non la vede è perché non la vuole vedere. Quindi l’Europa deve rispondere immediatamente. Come? Ci sono almeno cinque cose di buon senso. La prima è capire una volta per tutte che un’Europa unita - cioè un’Europa federale, capace di combinare l’unità politica con la diversità linguistica, culturale e identitaria - è l’unica garanzia di pace, prosperità e democrazia nel continente, nonché della sua rilevanza nel mondo. La seconda è rendersi conto che, almeno in Europa, la divisione fondamentale non è più quella che separa la sinistra dalla destra, ma l’internazionalismo dal nazionalismo, l’europeismo dal sovranismo, l’apertura mista e inclusiva dall’isolamento purista ed esclusivo. (…). Terzo: l’Europa non deve dipendere dagli Stati Uniti, deve essere autonoma sotto tutti i punti di vista - politico, energetico, difensivo - e parlare con una sola voce nel mondo, chiara e potente. Quarto: è urgente che l’Europa prenda coscienza della propria forza; siamo la terza economia del mondo (la prima, prima del disastro reversibile della Brexit), usiamo la seconda moneta più forte e disponiamo di uno dei mercati più importanti; dobbiamo liberarci dal complesso di inferiorità nei confronti degli Stati Uniti - come ha detto Joseph Stiglitz -, dobbiamo sfidare gli Stati Uniti e la Cina invece di cercare di placarli - come ha detto Abraham Newman - abbiamo molto più potere di quanto crediamo, e se non lo esercitiamo è per mancanza di unità, ambizione politica, visione storica, fede in noi stessi. C’è una quinta cosa: e se il mondo stesse aspettando l’Europa? E se avesse bisogno di noi molto più di quanto immaginiamo? Arancha González Laya, ex ministra degli Esteri, l’ha detto così: «Ci sono molti Paesi che si sentono già orfani e bisognosi di un partner stabile e serio come l’Ue, che è un’isola di stabilità e affidabilità di fronte a questi Stati Uniti che sono oggi l’epicentro dell’instabilità geopolitica globale». Il XX secolo è stato degli Stati Uniti; il XXI forse non lo sarà: Trump è il sintomo di una decadenza in incubazione da anni. Chi dominerà il futuro? Lo spietato autoritarismo cinese o l’Europa con la sua democrazia, con il suo welfare e il suo ordine internazionale basato sulle regole? Che cosa preferisce il mondo? Che cosa preferisce lei? (Tratto da “Come rispondere a Trump” dello scrittore Javier Cercas, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, venerdì 7 di marzo 2025).
“Gli yankee
son sempre stati così, anche prima di Trump”, testo di Massimo Fini pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” di ieri: Incontrando l’inviato speciale di Trump,
Paolo Zampolli, Salvini ha affermato che “gli Stati Uniti sono un modello”.
Solo un uomo superficiale come il leader della Lega può pensare, ma non è
certamente il solo, che gli Usa di oggi siano un modello. Modello di violenze,
all’esterno e all’interno con le continue sparatorie soprattutto di giovani e
giovanissimi che evidentemente non stanno bene in quella società e all’esterno
con le aggressioni a Stati sovrani. Certamente oggi i Dik Dik non canterebbero
Sognando la California (1966) che è la maggior economia ‘sub-nazionale’ del
mondo, ma ai cui ingressi stazionano decine di migliaia di homeless che
inalberano un cartello dove è scritto “venite nello Stato più ricco del mondo”,
perché le sperequazioni sociali ci sono dappertutto ma negli Usa sono più
evidenti e colossali perché tutto in quel Paese è colossale a cominciare dai
suoi grattacieli. Ma partiamo dall’America di ieri. La storia americana inizia
con un genocidio quello dei Pellerossa, un popolo spirituale come spirituali
sono quasi tutti i popoli indigeni. Genocidio vilissimo, Winchester contro
frecce, con l’aiuto delle armi chimiche dell’epoca: l’alcool. Gli americani
sono razzisti, del resto ancora oggi esistono “riserve pellerossa”. La mia
infanzia è stata funestata da decine di film dove i pellerossa apparivano come
crudeli scalpatori e gli americani naturalmente come i buoni. Soldato blu
(1970) era di là da venire. Non è quindi solo colpa di Trump se gli immigrati
messicani vengono fermati brutalmente alla frontiera. Ma il popolo yankee, dico
il popolo non i suoi dirigenti, è pieno di contraddizioni non tutte negative. È
gente ingenua, quasi naïf. Ha deglutito senza fiatare non solo l’assassinio di
Kennedy, ma la favola per cui Jack Ruby, un tenutario di case chiuse, aveva
ucciso Oswald, l’assassino di Kennedy, per riscattare l’onore dell’America.
Hanno deglutito la sconfitta di Sonny Liston, l’‘orso’, contro Cassius Clay (in
quel momento Liston era più forte del giovane Clay) perché l’‘orso’ era legato
alla mafia americana che aveva deciso che era più producente se perdeva. Già,
la mafia. Gli Usa sono corrosi dalla mafia (lo stesso Kennedy era legato al
capomafia Sam Giancana) e in questo caso siamo stati noi italiani a
inoculargliela, non per nulla tanti mafiosi storici portano nomi italiani, da
Lucky Luciano ad Al Capone, Frank Costello, Vito Genovese. Non c’è dubbio
comunque che nel Dopoguerra gli americani abbiano avuto un influsso positivo su
noi italiani. Non solo e non tanto perché ci avevano liberati dal
nazi-fascismo, ma per il loro senso innato di libertà che si esprime anche
nella comodità del vestire. Le donne vanno in teatro in pelliccia, ma con le
scarpe da tennis. In una sala lettura della Columbia University, un vero
gioiello, i ragazzi non si fanno nessuno scrupolo a mettere le loro scarpe da
tennis sulle scrivanie di raffinato mogano. Prima stare comodi, il resto viene
dopo. Gli americani hanno esportato in Europa il rock che allora era una musica
di rottura che proveniva dal jazz. Hanno esportato i jeans. Ed è strano che
questo senso di libertà si sia trasformato oggi in una pruderie insopportabile.
Il MeToo è nato in America e presidenti o ministri rischiano il posto non per i
propri crimini, ma per “comportamenti inappropriati” con le donne. È
un’ipocrisia tutta, anche se non solo, americana, ipocrisia che si esercita in
ogni campo. Negli Usa la tortura è formalmente vietata, allora si va a
torturare a Guantanamo. Un’altra caratteristica degli yankee, parlo più in
senso psicologico che politico, è quella di umiliare i vinti. I processi di
Norimberga e Tokyo sono l’esempio più noto, ma quando fu catturato Bin Laden si
disse che si era riparato dietro una delle sue mogli. Di al-Baghdadi che si era
messo a piangere. E anche lo scontro fra Zelenksy e Trump, Zelensky solo contro
tutti, The Donald, J.D. Vance e tutta la stampa americana, fa parte di questo
tema. Negli anni 50 c’è stata anche una certa opposizione a questo soccombismo
italiano e c’è qualche testimonianza nella canzone Tu vo fa l’americano (1956)
di Renato Carosone (…). E in certi deliziosi racconti di Dino Buzzati, dove
l’autore cercando un posteggio scrive: “Delicata manovra di retromarce lungo la
murata di una gigantesca vettura americana bianca e rossa, vero oltraggio alla
miseria… il suo, blindato, scudo possente di cromo, carico di specchianti
globi, contrafforti e barbacani, che da solo basterebbe, io penso, a sfamare
dieci anni una famiglia” (Il problema dei posteggi, Sessanta racconti, 1958).
Buzzati, nato a Belluno, non aveva nessuna simpatia per gli americani, ma
piuttosto per i tedeschi, La corazzata “Tod”, la corazzata Morte è un inno alla
grande Germania morente cioè alla Germania nazista. Direi che la frattura
culturale fra noi europei e gli americani, ma qui intendo parlare soprattutto
dell’Italia, c’è stata negli anni 60 in epoca esistenzialista. Noi non
consideravamo gli americani né buoni né cattivi. Ci erano semplicemente
indifferenti. Leggevamo Camus, Sartre, Merleau-Ponty e, a ritroso, Baudelaire,
Rimbaud, Lautréamont che hanno influenzato in modo determinante la cultura
europea del Novecento, soprattutto artistica. Poi venne il tempo dello yankee
go home, ma era un fatto politico non culturale. Ciò che mi colpisce degli
americani di oggi è la volgarità, che non è solo di Trump. Se voi entrate in un
ristorante e sentite parlare inglese potete capire subito se si tratta di
sudditi di Sua Maestà o di yankee. Lo capite dal fracasso che fanno questi
ultimi. Del resto gli americani non sono consapevoli di essere odiati. In
qualsiasi circostanza si comportano da primi della classe cui è concesso tutto,
anche violare un minimo di buona educazione. (…). Più recentemente, ma parliamo
comunque di parecchi anni fa, stavo prendendo un taxi davanti all’Hotel
Principe di Savoia. La precedenza era mia come avevano confermato sia l’autista
sia il valet dell’albergo. Ma mentre ero già seduto si infilò nella macchina un
giovane americano, (…) dicendo: “I’m first”. Mi toccò uscire dal taxi, aprire
la portiera di sinistra, tirar fuori l’energumeno e cominciare una scazzottata
che fu interrotta dai valet dell’albergo (…). “I’m first”. Questa è
l’ossessione americana. “Make America Great Again”.
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