“Inettitudine&Politica”. (…). …gli sceneggiatori della politica non sono in grado di progettare immaginando cosa avverrà fra 40mila anni, (…): il problema è che l'idea generale di futuro non supera i quattro mesi, o forse i quattro giorni. Questa è la sensazione a una settimana dalla piazza romana pro-Europa del 15 marzo: ma la riflessione va fatta prescindendo dalle divisioni feroci fra fautori del riarmo e pacifisti e dal discorso di Roberto Vecchioni sulla supremazia della cultura europea che è piaciuto solo al ministro Giuseppe Valditara. Va fatta prescindendo persino dall'uso improprio del "Manifesto di Ventotene'', raccontato come mito fondativo di un'Unione europea molto lontana dal pensiero dei confinati che immaginarono quel testo. Va fatta, invece, perché quella piazza è stata concepita per diventare notizia di cronaca prima ancora che come incontro di una comunità: è stata costruita, cioè, in funzione della sua rappresentabilità televisiva e giornalistica, con la scaletta giusta e gli ospiti di richiamo, ben dosati (qui gli scrittori, qui i cantanti, qui gli opinionisti) e di consolidata popolarità. Sicuramente la maggioranza dei partecipanti era in piazza del Popolo col desiderio di contare qualcosa: ma la sensazione è che questa formula, che ormai è un format, non sia sufficiente. Per fare politica servono i corpi, vero, ma serve, soprattutto, una forma di azione che vinca l'ossessione dell'autorappresentazione e smetta di trasformarci, che lo vogliamo o no, in pubblico che consuma prodotti d'intrattenimento. Serve un progetto, in effetti, e un desiderio in grado di attraversare gli anni e, volendo, pure le galassie. Per questo, la cosa preziosa di oggi è "Non tutto è come appare'', uscito per Apogeo, scritto da Simona Ruffino: vi si dimostra molto bene come la politica sia passata dall'interesse collettivo a quello personale e come attraverso la costruzione di una narrazione binaria si sia distrutta la complessità. E inoltre come la cultura sia un valore prezioso e non un ornamento buono per riempire le scalette delle manifestazioni. Infine, si elogia l'utopia come diritto di ripensare il mondo e non è poco. (…). Vogliamo ancora. Vorremmo. Anche senza scaletta. (Tratto da “Partecipazione non è la scaletta di un grande show” di Loredana Lipperini pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 21 di marzo 2025).
“Quei giovani assuefatti alla guerra”, testo di Luigi Manconi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 21 di marzo 2025: (…). La prendo alla lontana. Le cronache ecclesiastiche e le leggende medievali raccontano che, nel primo scorcio del 1200, un movimento di bambine e bambini (puellae e pueri), guidato dal giovanissimo pastore Stefano, attraversò le contrade della Francia da Saint-Denis a Marsiglia «su mandato di Dio». Si intendeva promuovere una crociata che raggiungesse Gerusalemme e conquistasse la reliquia del legno al quale era stato crocifisso Gesù Cristo. Nello stesso periodo, migliaia di fanciulli attraversarono la Germania e poi le Alpi per giungere infine a Genova, mossi dallo stesso bruciante fervore religioso. Oggi, nel mondo, sono oltre 350 mila le bambine e i bambini impegnati in conflitti bellici. Dunque, si può dire che un numero crescente di giovanissimi partecipa al riprodursi della guerra guerreggiata tra gli individui, i gruppi sociali e i popoli. Insomma, l’innocenza infantile è un tabù antico, sempre messo in discussione dalla ruvidezza delle vicende storiche che confermano come l’impresa di preservare il candore originario dalla corruzione della violenza sia davvero improba. D’altra parte, non si pensi che quanto detto riguardi esclusivamente un altrove temporale (il Medioevo) o spaziale (il Sud del mondo): esso già si manifesta nella nostra realtà più prossima. Si sente dire che «per ottant’anni l’Europa non ha conosciuto la guerra». Si dimentica, evidentemente, quanto è accaduto dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia, in Serbia e in Kosovo, a Sarajevo e a Srebrenica. E si scorda, soprattutto, che dal febbraio 2022 la guerra infuria là, a un passo dalle nostre case. Un tempo si diceva a un tiro di schioppo, mentre oggi l’impetuoso sviluppo della tecnologia militare cambia radicalmente le unità di misura e i parametri delle distanze. Sopra le nostre teste, assai più vicini dei satelliti di Elon Musk, volano i droni: quelli del servizio metereologico nazionale, quelli del marketing pubblicitario e probabilmente quelli dell’esercito della Federazione Russa. E mentre si parla di economia di guerra ci sfugge il fatto che già ci troviamo all’interno di società in armi. E che questo, necessariamente, ha una relazione stretta, direi intima, con i pensieri, le emozioni e i gesti degli appartenenti a quella stessa società. E, in particolare, dei più esposti e vulnerabili tra essi, che sono i bambini, i preadolescenti e gli adolescenti. Per queste categorie di minori la guerra è davvero una faccenda domestica. Come stupirsi se, per loro, essa possa diventare, oltre che uno scenario familiare, visto e rivisto su tutti gli schermi, un tratto dell’esistenza, un ambiente di gioco e di apprendimento, un sistema di rapporti. E come meravigliarsi se si diffonde una sorta di abitudine alla violenza, che trascorre dalla televisione allo smartphone fino alla pratica dello scontro tra pari e della consuetudine alla sopraffazione. Si diffonde così l’idea che in alcune aree delle nostre città una quota significativa degli accoltellatori e degli accoltellati sia costituita da minori. E quelle che vengono definite gang giovanili, spesso poco più che comitive di adolescenti, sono raffigurate come gruppi di predoni dediti al saccheggio. Poco importa quale sia la reale rilevanza statistica e sociologica del fenomeno, ciò che più conta è che quella rappresentazione sia funzionale alla stigmatizzazione di tutte le forme di trasgressione e di devianza dei minori, facendo di essi un capro espiatorio e un nemico pubblico. Ma è sempre stato così? Penso di no. La novità risiede in questo onnipervasivo scenario bellico dove anche i minori diventano bambini soldato. La violenza viene normalizzata e cade progressivamente l’interdizione morale nei confronti della guerra. C’è in questo, tra l’altro, molta cattiva politica criminale e una idea autoritaria dell’ordine pubblico. Ma non bisogna sottovalutare il mutamento in corso nella psicologia collettiva, specie in quella infantile. Proprio mentre cresce la dimestichezza con il linguaggio delle armi, si tende a rinunciare a qualsiasi giudizio morale sulla guerra. Se quest’ultima diventa un’attività normale, familiarizzarci è una esperienza quotidiana che limita il veto morale che la sanzionava. Ciò riguarda la Grande Guerra che minaccia le relazioni internazionali, così come le piccole guerre che lacerano il tessuto sociale. (…). Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che questa normalizzazione della guerra e il suo penetrare nella vita collettiva, e la sua capacità di formare e deformare i cittadini più fragili, è un costo enorme. La violenza urbana, le aggressioni e gli atti di bullismo, gli stessi crimini di genere hanno cause e origini diverse, ma risentono di questo complessivo «incrudelirsi» delle nostre società, dove la repulsa e, ancor prima, il giudizio morale sull’esercizio della sopraffazione sono sempre più incerti e dove il tabù della violenza è sempre meno cogente.
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