"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 8 ottobre 2024

Lastoriasiamonoi. 07 Paolo Nori: «Mi viene in mente una cosa che ho letto, è la risposta di Mark Twain alla domanda "come si scrivono i romanzi?”. E Mark Twain ha risposto: "Stando seduti"».

                                            Sopra. Anton Cechov. 

DallaRussiaconAmore”. 1 (…). L'altro giorno sono stato a Parma a parlare di Russia, tanto per cambiare, (…). Qui una volta sono venuto a presentare un libro che si chiamava La grande Russia portatile e alla fine un signore si è alzato e ha chiesto: "Senta, io il libro l'ho già letto e mi sono accorto che non parla di Vasilij Grossman, come mai?". "Perché non mi piace", gli ho risposto io. Un anno e mezzo dopo sono venuto a presentare un libro che si chiamava I russi sono matti e alla fine un signore mi ha detto: "Senta, io il libro l'ho letto e mi sono accorto che non cita mai Vasilij Grossman, come mai?". "Ma lei", gli ho chiesto io, "è lo stesso di un anno e mezzo fa?". "Sì", mi ha detto lui. "Eh", gli ho detto io, "la risposta è la stessa: non mi piace". Allora, quando mi han detto che per questo discorso sull'Energia dell'errore di Viktor Sklovksij, era tutto esaurito, io ho pensato "Ma perché vengono a sentire sempre le stesse storie e a fare le stesse domande?" Forse perché quest'anno il tema del festival è l'errore e loro fanno, consapevolmente, un errore, e buttano via una serata. Chissà. Non indaghiamo. Il libro del quale mi è stato chiesto di parlare oggi è l'ultimo libro scritto da Vìktor Sklovskij, è uscito nel 1981, quando Sklovskij aveva 88 anni, si intitola L'energia dell'errore ed è difficilissimo dire, in poche battute, di cosa parla. Mi vien sempre in mente un altro scrittore russo, Vladimir Nabokov, che una volta gli han chiesto: "Qual è il messaggio del libro che ha scritto?". E lui ha risposto: "Il messaggio? Non son mica un postino, per portare un messaggio". E mi viene anche in mente una cosa che ho letto in questo libro di Sklovskij, è la risposta di Mark Twain alla domanda "come si scrivono i romanzi?”. E Mark Twain ha risposto: "Stando seduti". E mi viene in mente uno che, tanti anni fa, ha fatto un corso di scrittura con me e mi ha raccontato che una volta, a scuola, gli avevano fatto leggere La Gerusalemme liberata e gli avevano chiesto di fame un riassunto e lui l'aveva fatto e il suo riassunto era: "Gerusalemme è stata liberata". Ecco io non sono capace di fare un riassunto così preciso e penetrante, del libro di Sklovskij del quale parliamo oggi; ma direi, grossomodo, che il libro parla proprio di quello, di come si scrivono i libri e, in particolare, di come li scriveva Tolstoj. E racconta, tra le altre cose, di quando Tolstoj, giovane e incolto, parte per il Caucaso "verso un grande futuro", scrive Sklovskij, "con un flauto che non ha imparato a suonare, con un dizionario di inglese, con un libro di Sterne che non ha fìnito di tradurre, con un ottimo vestito che gli ha fatto un sarto francese e che lui non ha pagato e che avrebbe pagato più o meno dieci anni dopo". E scrive, Sklovskij, che quando Cristoforo Colombo, "che sapeva ciò che sapevano gli uomini del suo tempo, che conosceva le vecchie inattendibili carte, dopo incredibili sofferenze, umiliazioni, ottenne il denaro per equipaggiare le sue navi e quando partì su di esse verso il mondo sconosciuto, ciò che faceva era l'energia dell'errore" (traduzione di Maria Di Salvo). E che Ernest Rutherford alla domanda degli allievi che lo guardavano con venerazione "Cosa aiuta nel lavoro?", rispose: "Gli ostacoli". E intendeva: gli insuccessi. E che Persone felici non ce ne sono. E che esistono solo donne, gli uomini sono i maschi delle donne. E che Tolstoj era il maschio di una donna che, nelle sue memorie, ha scritto: "Per il genio bisogna creare un ambiente tranquillo, allegro, comodo; al genio bisogna dare da mangiare, bisogna lavarlo, vestirlo, bisogna trascrivere le sue opere un numero infinito di volte, bisogna amarlo, non fornire pretesti alla sua gelosia, perché sia tranquillo; bisogna nutrire ed educare gli innumerevoli figli che il genio procrea, con cui però si annoia e non trova il tempo di stare, perché deve comunicare con i vari Epitteti, Socrati e Budda e deve lui stesso tentar di diventare uno di loro" (traduzione di Francesca Ruffini e Raffaella Setti Bevilacqua). E che Tolstoj temeva non solo la morte, ma anche la vita, se era quella di sempre. E che Tolstoj aveva comprato della terra e annotato sul diario: "Ecco, ora ho comprato la terra e gli usignoli cantano come sempre e non sanno che ora sono miei e non dello Stato". E che i bambini con la testa grossa nascono con molta difficoltà. E conferma, questo Energia dell'errore, la predilezione di Sklovskij per Tolstoj. E dice, Sklovskij, che Anna Karenina è tutto costruito su monologhi interiori, sull'incomprensione reciproca. E che rileggendo il libro ci si stupisce più che leggendo Dostoevskij. E che, in Dostoevskij, i personaggi la pensano tutti allo stesso modo, come se fin dall'infanzia avessero letto un solo autore: Dostoevskij. E che lavorando si impara, scrive Sklovskij, col lavoro si diventa più intelligenti. E dice, Sklovskij, che il cammino di Tolstoj è stato continuato da Cechov. E che una volta anche Cechov aveva detto a un suo collega, Ivan Bunin, che bisogna lavorare, molto, per tutta la vita. E che, alla fine di un racconto, bisogna buttare via l'inizio e la fine. E che è lì che noi scrittori concentriamo il maggior numero di bugie, ha detto Cechov. E che l'opera Vittoria sole, scritta da Chlebnikov e Krucenych, e con le scenografie di Malevic, che debutta nel 1913, comincia con due uomini forzuti che dicono: "Tutto è bene quel che comincia bene", e qualcuno dalla sala dice: "Finisce", e una voce fuori - campo dice: "La fine non ci sarà". E che la grande letteratura russa non ha finali. (Tratto da “Letteratura russa senza un finale” di Paolo Nori pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di settembre 2024).

DallaRussiaconAmore”. 2 “Io mi sento russo, ma non ebreo”, testo di Massimo Fini pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 6 di ottobre 2024: Per parte di madre, Zenaide Tobiasz, ebrea, io sono metà russo, e più invecchio più mi sento russo, ma per nulla ebreo, (…). Non disistimo gli italiani (a parte quelli di oggi corrotti fino al midollo), perché ne apprezzo quello che è considerato il loro principale difetto, la faciloneria, cioè il non andare mai fino in fondo alle cose. Ma è proprio questa faciloneria che ha fatto sì che il Fascismo sia stato il meno criminale dei totalitarismi del Novecento, stalinismo e nazismo. Certo, non dimentico i crimini fascisti, dagli omicidi in Francia dei fratelli Rosselli, a Matteotti, alla crudele incarcerazione di Gramsci, (…). Fatte queste necessarie premesse, posso ricordare un esempio personale. Mio padre, antifascista, fu manganellato una prima volta dai camerati pisani, ma fu una bastonatura lieve (lui era di Pisa) perché si conoscevano tutti e l’Italia è pur sempre un Paese di campanili. Ma quando arrivarono i fascisti fiorentini la cosa fu seria e mio padre decise quindi di emigrare a Parigi. Era un fuoriuscito e non poteva ovviamente lavorare per i giornali italiani. Anche se in genere (anche se non sempre) il Fascismo preferiva relegare gli antifascisti in qualche esilio piuttosto blando, come fu quello di Curzio Malaparte a Lipari. A Parigi mio padre faceva letteralmente la fame, mia madre lo ricorda mentre rovistava in una pattumiera alla ricerca di qualche arancia marcia. Allora fu assunto per iniziativa di Paolo Monelli, che era capo della redazione parigina del Corriere. Naturalmente non poteva firmare i suoi articoli e della sua assunzione sapevano solo lo stesso Monelli e l’amministratore. Gli anni di Parigi furono particolarmente felici per i miei genitori. Allora, in quella Parigi, tutti gli artisti – a parte Picabia e in un secondo tempo Picasso, una vera carogna che in un interrogatorio di polizia fece finta di non riconoscere Guillaume Apollinaire che pur era stato il suo mentore – erano poveri. E anche due intellettuali strapenati com’erano mio padre e la sua futura moglie Zenaide Tobiasz, che fuggiva da un altro totalitarismo, quello stalinista, potevano frequentare quel mondo affascinante dove artisticamente si stava sperimentando di tutto: cubismo, dadaismo, puntinismo. È rimasto famoso il Boulevard des Italiens dove si radunava parecchia di quella gente. Ma torniamo ai russi: questo popolo immenso, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo, supremamente bugiardo, e comunque in ogni cosa eccessivo. Ma che una cosa non ha: il cinismo roman-andreottiano. Non si possono capire i russi se non si legge, nei Demoni di Dostoevskij, la rabbrividente confessione del principe Stavrogin: “Ogni situazione estremamente vergognosa, oltremodo umiliante, ignobile, e, soprattutto, ridicola, in cui mi è accaduto di trovarmi nella mia vita, ha sempre suscitato in me, insieme a una collera smisurata, una voluttà incredibile”. Ma tutta la vita di Stavrogin dice molto dell’animo russo. Sfidato a duello, si rifiuta ostentatamente di mirare all’avversario (spara in aria), che diventa pazzo per la rabbia perché ritiene l’umiliazione insopportabile. Passando su un ponte, viene avvicinato da un poveraccio che gli chiede pochi copechi, lui lo ignora e prosegue oltre, ma ripassando su quel ponte e ritrovando il clochard gli lascia alcune migliaia di rubli. Naturalmente la narrazione è di Fëdor Dostoevskij, che incarna perfettamente l’animo russo. Scrittore d’appendice, quasi senza un soldo, sperpera i suoi quattrini in tutti i casinò d’Europa. I russi sono sinceri anche quando sono insinceri. C’è un episodio emblematico. Trockij ha avuto una lieve indisposizione, Bucharin si precipita al suo capezzale e chiamandolo babushka, mio adorato babushka – i diminutivi e i vezzeggiativi fanno parte del linguaggio russo – gli dice: “Sono solo due le persone a cui io tengo, Lenin e te”. Uscendo di casa, Bucharin tradisce subito il babushka, il suo adorato babushka, per andare a denunciarlo da Stalin. Ma Trockij sottolinea in Ma Vie che Bucharin era assolutamente sincero nel momento in cui lo vezzeggiava. Il russo è uno scialacquatore e un dilapidatore. Innanzitutto di se stesso. Non ha, non aveva, nessun concetto dell’investimento. Ogni occasione è migliore del denaro da spenderci. Questo lo ritrovo anche in me. Mentre la mia ex moglie ha tre case, io una sola e piuttosto sgangherata. Son russo. Il periodo migliore, storicamente, è stato quello della Russia zarista. Per cui quando si dà a Putin dello Zar gli si fa solo un favore. L’oppressione era minima. In tanti anni di insurrezione furono fucilate solo dieci persone, purtroppo tra queste c’era anche il fratello di Lenin. Ma anche chi si opponeva era fatto di pasta diversa. Camus li chiama “i terroristi gentili”. Un pomeriggio uno di questi “terroristi” doveva gettarsi fra gli zoccoli di una carrozza degli Zar. Ma vi rinunciò perché vide che sulla carrozza c’erano anche i figli. I russi sono indolenti, indolentissimi, figuriamoci la loro servitù di una volta. Ma i rapporti fra i padroni e i servi, all’epoca dell’aneddoto che sto per raccontare non più “servi della gleba”, erano strettissimi. Una sera d’un inverno molto freddo, quando i lupi scendono verso le città per trovare qualcosa da mangiare, la carrozza in cui c’era il fratellino di mia madre, di otto anni, guidata da un servo, fu assalita dal branco. Lui tagliò le redini di un cavallo e lo diede in pasto ai lupi. Ma la carrozza, ovviamente, in questo modo andava più piano. Allora tagliò le redini anche del secondo cavallo della troika, ma la carrozza andava ancora più piano. Erano già in vista le torri antincendio di Saratov – non esisteva ancora un servizio antincendio –, città sul Volga a qualche migliaio di chilometri da Irkutsk dove era nato Nureev (se avessi potuto fare un film, il personaggio di Stavrogin l’avrei fatto fare a Nureev, il grande ballerino e coreografo che era russissimo, anche se ci teneva a sostenere di essere tataro, perché poi è quasi la stessa cosa: i tatari fanno parte della storia russa), allora il servo si gettò in pasto ai lupi. All’indolenza dei servi, quando andava oltremisura, i padroni reagivano a colpi di knut. È ciò che faccio anch’io, sia pur con mezzi diversi, con la mia domestica. Son russo.

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