“Guevara, l'ultimo Don Chisciotte”, testo di
Massimo Fini pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15 di ottobre 2024: (…).
La prima volta che seppi di Guevara fu nel ’57. A quell’epoca Guevara non era
ancora un mito della sinistra tanto che il mio “incontro” con il Che avvenne
sulle pagine di Gente, il settimanale diretto da Edilio Rusconi che di tutto
poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un
servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un’immagine di Guevara a torso
nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia
fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell’uomo.
Nelle didascalie si raccontava di questo giovane medico argentino che, con
altri ribelli, era sbarcato nella Cuba di Batista a combattere per la libertà
di un Paese non suo. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo
interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell’ideale” in
fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora così integrato,
“globale”, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere
considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra. Il giorno
che si seppe della morte di Guevara Tommaso Giglio, il mitico direttore
dell’Europeo, mandò Franco Pierini, il nostro miglior inviato, a La Higuera col
compito di intervistare l’uomo che aveva ucciso il Che. Impresa che pareva
impossibile. Dopo nove ore di volo per Bogotà e poi lo spostamento a La Higuera
Pierini si trovò di fronte un’impenetrabile cortina di guardie del corpo che
proteggevano l’assassino. Aveva pochissimo tempo. Due giorni. Era lunedì e il
giornale doveva essere pronto per il giorno d’uscita, mercoledì, altrimenti
avrebbe perso lo scoop. Pierini telefonò allora a Giglio dicendo che la cosa
era impossibile. Giglio rispose: “farai bene a trovarlo perché ho già fatto la
copertina che dice: ‘Abbiamo intervistato l’uomo che ha ucciso Che Guevara’” e
sotto l’adrenalina che il terribile Giglio ti metteva riuscì nell’impresa.
Questo dice, non solo e non tanto del modo di fare giornalismo di quei tempi,
ma soprattutto dell’importanza che aveva Guevara allora. I sessantottini fecero
di Guevara un loro mito. Del tutto arbitrariamente. Se proprio si vuole si può
ritenerlo un’espressione del movimento hippie per certe azioni un po’
goliardiche che aveva avuto nella prima giovinezza: medico, dopo aver
vivisezionato un corpo all’obitorio, ne portò, come se nulla fosse, l’intera
gamba su un autobus. Espressione dell’atmosfera sessantottesca che si respirava
negli anni Sessanta? Non diciamo cazzate. È sotto le mura della Statale che ho
sentito scandire il rabbrividente slogan: “viva Stalin, viva Berija, viva la
GPU” ed era la prima, e spero l’ultima, volta che si inneggiava a una polizia
politica e al suo capo. E non ce lo vedo proprio il Che inneggiare non dico a
una polizia politica e più generalmente al Potere che ha sempre disprezzato
tanto da abbandonarlo quando, divenuto Ministro dell’Industria con Castro, se
ne andò ritenendo che il castrismo avesse preso una deriva autoritaria. C’è una
bella e affettuosa lettera a Fidel dove, non rinnegando nulla del passato,
pensa di poter portare gli ideali della Rivoluzione cubana in un altro Paese,
la Bolivia. Un’altra causa non sua e persa in partenza, che gli costerà la
vita. Sulla dittatura di Castro c’è però da dire qualche altra cosa. Ci si
dimentica che prima di lui a Cuba comandava Batista che aveva fatto di quell’isola
un casinò per i ricchi americani. Del resto Cuba, inserita come da regola
nell’”asse del Male” se è diventata comunista non ha perso però i suoi
connotati socialisti: la sanità e l’istruzione sono gratuite. Poi le
infrastrutture sono allo sfascio come in tutti i regimi comunisti ma questo
senso di solidarietà sociale i cubani lo hanno conservato, tanto che durante il
Covid mandarono in Italia cinquanta medici per darci una mano (naturalmente per
i media italiani, da sempre sudditi degli yankee, erano spie come spie erano i
medici militari russi che furono inviati da Putin nel nostro Paese). Nei primi
tempi della Revolución, ministro, si dava da fare anche partecipando al lavoro
sui campi. Il Che era un uomo dolcissimo. Sia durante l’apprendistato rivoluzionario,
cioè l’avvicinamento all’Avana, sia dopo, quando ebbe il potere, trovava il
tempo di scrivere ai familiari, in particolare alla madre e alla nonna. Il
padre di Guevara, Rafael Guevara Lynch, che apparteneva alla medio alta
borghesia argentina si meravigliava che “questo mio figliolo così affettuoso
sia potuto diventare un rivoluzionario”. Affettuoso sì, ma intransigente.
Quando i familiari del Che andarono all’Avana per incontrare il figlio furono
trattati con affetto ma messi nella condizione di tutti gli altri. I comunisti
italiani, a loro modo, furono più coerenti nei confronti di Guevara. Mi ricordo
di sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola che gli rimproverava, forse non a
torto dal suo punto di vista, una certa vaghezza ideologica, di essere un
byroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della Rivoluzione.
Inoltre non sta nel Dna positivista dei comunisti che uno che ha preso il
Potere lo abbandoni. Lo consideravano un segno di debolezza. Ma il Che non era
un uomo ideologico, era un uomo d’azione. Guevara soffriva da sempre di asma,
per rimediare in qualche modo, quando era ancora in Argentina si mise giocare a
Rugby. Ma una volta, sulla Sierra, fu colpito da un tremendo attacco e dovette
stendersi a terra con la sola speranza che i nemici non arrivassero. Si salvò,
anche grazie all’aiuto di un compagno. Tutti gli uomini di potere, anche quelli
non spregevoli, hanno un’arma decisiva per offendere e difendersi: il cinismo. Il Che ne mancava completamente, era un Don Chisciotte trasportato dalla Spagna
al Sud America. Nel frattempo i fasulli sostenitori di Guevara, a sinistra come
a destra, sono diventati manager e imprenditori che esercitano il loro potere
con un cinismo che farebbe invidia a quei “padroni delle ferriere” che fingevano
di contestare. Fosse di sinistra o di destra, o tutte due le cose, o nessuna,
Guevara rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal
realismo e dalla forza del denaro sempre più prepotenti (“In un mondo dove il
male è di casa e ha vinto sempre, dove regna il capitale, oggi più
spietatamente” Guccini, Don Chisciotte, 2000). Il Che quindi è dimenticato. Ma
per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza e lo
rimaniamo, Ernesto Guevara de la Serna è un mito che non rinneghiamo. “Hasta la
vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 25 ottobre 2024
Lavitadeglialtri. 49 Massimo Fini: «Tutti gli uomini di potere, anche quelli non spregevoli, hanno un’arma decisiva per offendere e difendersi: il cinismo. Il Che ne mancava completamente».
Poi scoppiò la rivoluzione e per ognuno di noi,
anche se in momenti diversi, l'esistenza cambiò. Per qualcuno ciò avvenne
quando salì a bordo di una nave a Sebastopoli, per altri quando i soldati di
Budennyj entrarono in un villaggio della steppa. Per me, nel bel mezzo della placida
vita di Pietroburgo. Non c'erano lezioni al Conservatorio. Mitenka, che era a Pietroburgo
da un mese (era venuto a studiare composizione), arrivò da noi la mattina del 25
ottobre, mentre la mamma era a letto con l'influenza. Suonò il piano, mangiammo,
poi si addormentò. Come mi ricordo quel giorno! Non so perché ero indaffarata a
cucire qualcosa. La sera giocammo a carte tutti e tre, mi rammento persino che
a cena avevamo mangiato manzo e cavolo. (Tratto da “L'accompagnatrice” – 1985 – di Nina Berberova).
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