“UnaMemoria”. “Nelle terre di mezzo”, “memoria”
di Davide Lerner pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 27
di settembre 2024: Quando, nell'autunno2023, sono arrivato alla Columbia University di New
York per frequentare un master in giornalismo, la Striscia di Gaza era un
angolo di terra dimenticato. Per anni il livello di attenzione dei media e
dell'opinione pubblica mondiale alla questione israelo-palestinese era andato
scemando, consentendo alle cancellerie occidentali di liquidare il conflitto
con periodiche professioni di fede sulla necessità di una soluzione a due
Stati, mentre lo trattavano, nei fatti, come un tema pronto a essere relegato
ai libri di storia. In questo clima di indifferenza, alla Columbia la proposta
di dedicare la mia tesi alla questione di Gaza era risultata originale.
Consisteva nello scrivere un lungo reportage, nello stile di riviste come il
NewYorker o The Atlantic sulla base di ricerche e interviste sul campo. Prima
della guerra avevo esposto la mia idea ad Alexander Stille, il coordinatore del
master a cui dovevo la borsa di studio per l'ateneo Ivy League più prestigioso
della Grande Mela. Generazioni
al contrario. «Sono passati quasi vent'anni da quando Israele ed Egitto
hanno imposto il blocco economico e militare alla Striscia di Gaza» avevo
scritto in una e-mail nemmeno due settimane prima di quel fatidico 7 ottobre.
«Il ritiro voluto da Ariel Sharon e la vittoria di Hamas alle elezioni, che
hanno portato alla chiusura della Striscia, risalgono rispettivamente al 2005 e
al 2006». Descrivevo poi alcune conseguenze di questo spartiacque temporale sul
piano umano. «Ciò vuol dire che i palestinesi di Gaza nati in quegli anni
stanno per diventare maggiorenni avendo conosciuto soltanto un territorio
minuscolo e senza aver goduto di alcuna libertà di movimento. A Gaza puoi
andare a piedi da Est a Ovest in un'ora, e percorrere la distanza da Nord a Sud
in macchina in 45 minuti. La generazione dei loro genitori ha vissuto un'era di
maggiori interscambi fra israeliani e palestinesi, maggiore apertura e libertà
negli spostamenti. In molti conoscono l'inglese e l'ebraico, hanno lavorato in
Israele e talvolta viaggiato all'estero. Da questo punto di vista si può dire
che la dinamica generazionale è invertita rispetto al resto del mondo, dove i
giovani tendono a essere più cosmopoliti dei genitori». Non avevo dubbi che
questa congiuntura storica sarebbe passata inosservata, tanto più in un
contesto mediatico ancora dominato dalla guerra in Ucraina. Stille era
d'accordo: «Mi sembra un tema importante» aveva risposto. «Puoi passare un paio
di settimane lì, e cominciare fin da ora a stabilire contatti con le famiglie
locali?». La gabbia infinita. L'idea era nata dai ricordi delle mie visite a
Gaza di qualche anno prima. All'epoca vivevo a Tel Aviv e lavoravo per la
versione in inglese del quotidiano Haaretz, dove sono rimasto per circa tre
anni. La mia scelta di non richiedere la cittadinanza israeliana, come sarebbe
stato mio diritto in quanto ebreo della diaspora in virtù della "legge del
ritorno", era malvista dai miei superiori. Ma dall'altra parte restare
"solo" cittadino italiano mi garantiva la possibilità di muovermi
liberamente nei Territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza, dove l'ingresso
agli israeliani, tanto più se di religione ebraica, è severamente vietato.
Addentrarmi nella Striscia comportava il superamento di tre checkpoint di
confine - quello israeliano, quello dell'Autorità palestinese e quello di Hamas
- poi era necessario rinchiudersi in un gabbiotto per un colloquio approfondito
con un militante del movimento islamista. Dopo il valico israeliano di Erez
c'era un foglio volante con una freccia e la scritta "Gaza", dopo di
ché si doveva attraversare una gabbia lunga 800 metri. A tanto era giunta la
progressiva segregazione fra le popolazioni ai due Iati della frontiera, in
aumento inesorabile prima e dopo il ritiro israeliano da Gaza e culminata con
l'ascesa al potere di Hamas. Sogni proibiti. Prima dell'inizio della guerra,
alla Columbia avevo già cominciato a raccogliere materiale per il mio
reportage. Avevo avviato un dialogo con Yousef Hammash, un giovane di Gaza che,
come me, è nato nel febbraio 1992. Solo nel 2022, a 30 anni, aveva lasciato per
la prima volta la Striscia per un breve viaggio a Londra. Aveva tenuto un
diario. «Sono entrato nel nuovo aeroporto del Cairo, che è il primo aeroporto
che abbia mai visto in vita mia», si legge nel suo resoconto del primo giorno
fuori da Gaza. Colpiva il modo in cui da adulto guardava il mondo con gli occhi
di un bambino. «Un mio amico mi ha portato a fare qualcosa che aspettavo di fare
da anni», scrive in un altro passaggio. «Andare a vedere un film in un cinema».
Venerdì 6 ottobre 2023 era il giorno in cui la coordinatrice dei progetti di
tesi della Columbia doveva dare il via libera definitivo ai viaggi, valutando
il livello di rischio delle destinazioni prescelte. Mentre al mio compagno
italiano, Sacha Biazzo, veniva negata la possibilità di recarsi in Ucraina,
malgrado volesse solo andare nella città relativamente tranquilla di Leopoli,
io avevo ricevuto il permesso di recarmi a Gaza. Le ultime parole famose della
professoressa incaricata erano state: «Al momento, non è una zona di conflitto
attiva». Diluvio di al Aqsa. Negli stessi istanti, a circa l0mila chilometri di
distanza da New York, i militanti di Hamas, del Jihad islamico e di altri
gruppi armati palestinesi stavano già caricando le armi per lanciare l'attacco.
Circa dodici ore più tardi, l'invasione del Sud di Israele battezzata
"Diluvio di al Aqsa" era cominciata. Sono note le efferatezze
compiute sabato 7 ottobre nelle località del Sud di Israele. A renderle ancora
più macabre c'era la consapevolezza di quello che inevitabilmente sarebbe stato
il seguito: una spietata reazione di Tzahal, l'esercito di Israele, a Gaza. La
"pace della forza", slogan delle destre israeliane, era scoppiata in
faccia a Netanyahu. Ovviamente il mio progetto di tesi era naufragato. Columbia
non avrebbe mai autorizzato un viaggio a Gaza in quelle circostanze. E, in ogni
caso, Israele aveva sigillato i confini della Striscia. Mentre cercavo un'alternativa,
mi rendevo anche conto che la regressione, avvenuta fra le diverse generazioni
di palestinesi di Gaza nel modo di relazionarsi con il mondo esterno e con i
vicini oltre confine, aveva un riflesso speculare nella parte israeliana della
frontiera. Forse, indagare questo tema poteva essere un modo di raccontare la
stessa storia, anche se dal punto di vista opposto. In prima linea. Gli
israeliani che stanno diventando adulti oggi nelle zone di frontiera non hanno
praticamente avuto nessuna interazione con i palestinesi di Gaza. Li hanno
conosciuti soltanto attraverso le guerre. Li vedono come una piaga, come una
minaccia, come un mistero su cui è meglio non indagare. Invece i loro genitori
e i loro nonni, nelle comunità vicine alla Striscia, hanno vissuto un'epoca in
cui, pur nell'ambito del conflitto, mantenevano relazioni personali, a volte
anche intense, con i palestinesi di Gaza. Una realtà di coesistenza imperfetta,
pur sempre vissuta nella cornice dell'occupazione, che però di questi tempi
vale la pena - e potrebbe persino essere utile - ricordare. È così che ho
finito per tuffarmi nel racconto di Netiv Ha'asara, e cioè "Il sentiero
dei dieci", la comunità israeliana più vicina in assoluto alla Striscia di
Gaza. Questo villaggio di frontiera è stato in prima linea durante le esplosioni
di violenza e durante le iniziative di pace. La sua posizione vulnerabile negli
anni lo ha esposto in maniera unica agli stravolgimenti geopolitici della
storia mediorientale: paradossalmente, il fatto di essere ai margini della
geografia del Paese ha messo questo villaggio al centro della sua Storia,
facendone un formidabile punto di osservazione anche per la guerra in corso. Alla
fine il mio reportage "immersivo" da questa zona militare chiusa, a
cui ho avuto accesso grazie ai miei rapporti coi residenti sfollati dopo la
strage del 7 ottobre, avrebbe vinto il primo premio di miglior tesi alla
Columbia. Proprio nel pieno della protesta anti-israeliana scoppiata nei campus
americani. La fuga fallita. Quando avevo scelto di passare un anno negli Stati
Uniti, uno dei miei obiettivi era quello di approfondire temi diversi da quello
del conflitto mediorientale. Non potevo immaginare che l'università newyorkese,
anzi, il grande prato su cui si affacciava Pulitzer Hall, la sede della scuola
dove si assegna anche il prestigioso premio di giornalismo, stesse per
diventare il principale terreno di scontro nel contesto di un rinnovato
dibattito mondiale su Israele e Palestina. Come in una versione alternativa
della Samarcanda di Roberto Vecchioni, per quanto fossi andato lontano la mia
fuga dal conflitto era fallita. Nella primavera 2024, infatti, il manto erboso
dello snodo principale del campus ha iniziato a popolarsi di tende con cui gli
studenti volevano esprimere la propria indignazione rispetto alla guerra senza
quartiere condotta da Tzahal a Gaza. Una protesta che avrebbe mandato in tilt
l'istituto punta di diamante del pensiero liberal americano e si sarebbe
propagata in decine di altre università del Paese. Il movimento studentesco era
visto come un sintomo di un nuovo modo di vedere il conflitto delle nuove
generazioni americane, confermato dai sondaggi. Se per i loro genitori e nonni
Israele era Davide, per i giovani era diventato Golia. Gli slogan duramente
anti-israeliani hanno scatenato un caso. Fra quelli che ho sentito gridare
c'era: «Non vogliamo due Stati, vogliamo tutto il territorio del 1948»,
«Globalizziamo l'Intifada», «La Palestina è araba». Su uno striscione ho letto:
"Gloria a chi fa assaggiare l'amarezza all'occupante". Sul fronte
opposto, colpiva I'indifferenza manifestata dalla componente filo-israeliana
della popolazione studentesca, oltre che da tanta parte della politica
americana, di fronte ai massacri della popolazione civile di Gaza. E il modo in
cui, alla leggera, l'intero movimento di protesta, che per altro comprendeva
una nutrita compagine ebraica, veniva tacciato di terrorismo e antisemitismo.
Laddove la richiesta rivolta al governo americano era di fermare la guerra del
governo più di destra della storia di Israele. Alla Columbia chi credeva nel
diritto di Israele ad esistere, ma era disgustato dalle sue politiche
repressive, come il sottoscritto, si sentiva stretto fra due fuochi. C'era da
scegliere fra la tifoseria che considerava Israele un'entità coloniale
illegittima in tutte le sue possibili conformazioni geografiche, e nazista nel
suo modo di trattare i palestinesi, e una tifoseria che considerava accettabile
derubricare a danno collaterale decine di migliaia di morti innocenti,
protrarre l'occupazione e violare, oltre alla legge internazionale, anche il
diritto dei conflitti armati. I margini per provare a proporre un approccio più
costruttivo erano scarsi. Io mi illudevo che nel 2024 fosse ormai chiaro che la
parola chiave per risolvere questo conflitto potesse essere una sola:
compromesso. Fra due parti che hanno sostanzialmente entrambe ragione. Gli
israeliani che, visto anche il bagaglio storico di persecuzioni antiebraiche e
il legame storico con questa terra, vogliono uno Stato: possibilmente senza
nessuno che gli spari addosso o continui a sostenere che proprio loro, fra
tutte le nazioni, non ne hanno il diritto. E i palestinesi che si sono visti
arrivare genti da tutti gli angoli del pianeta a spiegargli dove possono o non
possono andare, cosa possono o non possono fare, e a rinchiuderli dietro
recinzioni in spazi sempre più esigui. Ma alla Columbia la ricerca di soluzioni
non era parte dell'agenda della protesta. Non è facile trovarsi nel mezzo. Lo
sanno bene anche i contadini di Netiv Ha'asara, il villaggio israeliano vicino
a Gaza. Con i residenti delle altre comunità di frontiera facevano parte di una
realtà demografica e culturale estranea all'ideologia dominante in Israele che
per anni aveva esasperato il conflitto. Malgrado questo, sono stati le prime di
tante vittime collaterali di questa guerra.
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