"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 2 ottobre 2024

Lavitadeglialtri. 44 “Una Memoria”.

                                            Sopra. "Gaza", 23 di gennaio 2024.
 
UnaMemoria”. “Nelle terre di mezzo”, “memoria” di Davide Lerner pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 27 di settembre 2024: Quando, nell'autunno2023, sono arrivato alla Columbia University di New York per frequentare un master in giornalismo, la Striscia di Gaza era un angolo di terra dimenticato. Per anni il livello di attenzione dei media e dell'opinione pubblica mondiale alla questione israelo-palestinese era andato scemando, consentendo alle cancellerie occidentali di liquidare il conflitto con periodiche professioni di fede sulla necessità di una soluzione a due Stati, mentre lo trattavano, nei fatti, come un tema pronto a essere relegato ai libri di storia. In questo clima di indifferenza, alla Columbia la proposta di dedicare la mia tesi alla questione di Gaza era risultata originale. Consisteva nello scrivere un lungo reportage, nello stile di riviste come il NewYorker o The Atlantic sulla base di ricerche e interviste sul campo. Prima della guerra avevo esposto la mia idea ad Alexander Stille, il coordinatore del master a cui dovevo la borsa di studio per l'ateneo Ivy League più prestigioso della Grande Mela. Generazioni al contrario. «Sono passati quasi vent'anni da quando Israele ed Egitto hanno imposto il blocco economico e militare alla Striscia di Gaza» avevo scritto in una e-mail nemmeno due settimane prima di quel fatidico 7 ottobre. «Il ritiro voluto da Ariel Sharon e la vittoria di Hamas alle elezioni, che hanno portato alla chiusura della Striscia, risalgono rispettivamente al 2005 e al 2006». Descrivevo poi alcune conseguenze di questo spartiacque temporale sul piano umano. «Ciò vuol dire che i palestinesi di Gaza nati in quegli anni stanno per diventare maggiorenni avendo conosciuto soltanto un territorio minuscolo e senza aver goduto di alcuna libertà di movimento. A Gaza puoi andare a piedi da Est a Ovest in un'ora, e percorrere la distanza da Nord a Sud in macchina in 45 minuti. La generazione dei loro genitori ha vissuto un'era di maggiori interscambi fra israeliani e palestinesi, maggiore apertura e libertà negli spostamenti. In molti conoscono l'inglese e l'ebraico, hanno lavorato in Israele e talvolta viaggiato all'estero. Da questo punto di vista si può dire che la dinamica generazionale è invertita rispetto al resto del mondo, dove i giovani tendono a essere più cosmopoliti dei genitori». Non avevo dubbi che questa congiuntura storica sarebbe passata inosservata, tanto più in un contesto mediatico ancora dominato dalla guerra in Ucraina. Stille era d'accordo: «Mi sembra un tema importante» aveva risposto. «Puoi passare un paio di settimane lì, e cominciare fin da ora a stabilire contatti con le famiglie locali?». La gabbia infinita. L'idea era nata dai ricordi delle mie visite a Gaza di qualche anno prima. All'epoca vivevo a Tel Aviv e lavoravo per la versione in inglese del quotidiano Haaretz, dove sono rimasto per circa tre anni. La mia scelta di non richiedere la cittadinanza israeliana, come sarebbe stato mio diritto in quanto ebreo della diaspora in virtù della "legge del ritorno", era malvista dai miei superiori. Ma dall'altra parte restare "solo" cittadino italiano mi garantiva la possibilità di muovermi liberamente nei Territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza, dove l'ingresso agli israeliani, tanto più se di religione ebraica, è severamente vietato. Addentrarmi nella Striscia comportava il superamento di tre checkpoint di confine - quello israeliano, quello dell'Autorità palestinese e quello di Hamas - poi era necessario rinchiudersi in un gabbiotto per un colloquio approfondito con un militante del movimento islamista. Dopo il valico israeliano di Erez c'era un foglio volante con una freccia e la scritta "Gaza", dopo di ché si doveva attraversare una gabbia lunga 800 metri. A tanto era giunta la progressiva segregazione fra le popolazioni ai due Iati della frontiera, in aumento inesorabile prima e dopo il ritiro israeliano da Gaza e culminata con l'ascesa al potere di Hamas. Sogni proibiti. Prima dell'inizio della guerra, alla Columbia avevo già cominciato a raccogliere materiale per il mio reportage. Avevo avviato un dialogo con Yousef Hammash, un giovane di Gaza che, come me, è nato nel febbraio 1992. Solo nel 2022, a 30 anni, aveva lasciato per la prima volta la Striscia per un breve viaggio a Londra. Aveva tenuto un diario. «Sono entrato nel nuovo aeroporto del Cairo, che è il primo aeroporto che abbia mai visto in vita mia», si legge nel suo resoconto del primo giorno fuori da Gaza. Colpiva il modo in cui da adulto guardava il mondo con gli occhi di un bambino. «Un mio amico mi ha portato a fare qualcosa che aspettavo di fare da anni», scrive in un altro passaggio. «Andare a vedere un film in un cinema». Venerdì 6 ottobre 2023 era il giorno in cui la coordinatrice dei progetti di tesi della Columbia doveva dare il via libera definitivo ai viaggi, valutando il livello di rischio delle destinazioni prescelte. Mentre al mio compagno italiano, Sacha Biazzo, veniva negata la possibilità di recarsi in Ucraina, malgrado volesse solo andare nella città relativamente tranquilla di Leopoli, io avevo ricevuto il permesso di recarmi a Gaza. Le ultime parole famose della professoressa incaricata erano state: «Al momento, non è una zona di conflitto attiva». Diluvio di al Aqsa. Negli stessi istanti, a circa l0mila chilometri di distanza da New York, i militanti di Hamas, del Jihad islamico e di altri gruppi armati palestinesi stavano già caricando le armi per lanciare l'attacco. Circa dodici ore più tardi, l'invasione del Sud di Israele battezzata "Diluvio di al Aqsa" era cominciata. Sono note le efferatezze compiute sabato 7 ottobre nelle località del Sud di Israele. A renderle ancora più macabre c'era la consapevolezza di quello che inevitabilmente sarebbe stato il seguito: una spietata reazione di Tzahal, l'esercito di Israele, a Gaza. La "pace della forza", slogan delle destre israeliane, era scoppiata in faccia a Netanyahu. Ovviamente il mio progetto di tesi era naufragato. Columbia non avrebbe mai autorizzato un viaggio a Gaza in quelle circostanze. E, in ogni caso, Israele aveva sigillato i confini della Striscia. Mentre cercavo un'alternativa, mi rendevo anche conto che la regressione, avvenuta fra le diverse generazioni di palestinesi di Gaza nel modo di relazionarsi con il mondo esterno e con i vicini oltre confine, aveva un riflesso speculare nella parte israeliana della frontiera. Forse, indagare questo tema poteva essere un modo di raccontare la stessa storia, anche se dal punto di vista opposto. In prima linea. Gli israeliani che stanno diventando adulti oggi nelle zone di frontiera non hanno praticamente avuto nessuna interazione con i palestinesi di Gaza. Li hanno conosciuti soltanto attraverso le guerre. Li vedono come una piaga, come una minaccia, come un mistero su cui è meglio non indagare. Invece i loro genitori e i loro nonni, nelle comunità vicine alla Striscia, hanno vissuto un'epoca in cui, pur nell'ambito del conflitto, mantenevano relazioni personali, a volte anche intense, con i palestinesi di Gaza. Una realtà di coesistenza imperfetta, pur sempre vissuta nella cornice dell'occupazione, che però di questi tempi vale la pena - e potrebbe persino essere utile - ricordare. È così che ho finito per tuffarmi nel racconto di Netiv Ha'asara, e cioè "Il sentiero dei dieci", la comunità israeliana più vicina in assoluto alla Striscia di Gaza. Questo villaggio di frontiera è stato in prima linea durante le esplosioni di violenza e durante le iniziative di pace. La sua posizione vulnerabile negli anni lo ha esposto in maniera unica agli stravolgimenti geopolitici della storia mediorientale: paradossalmente, il fatto di essere ai margini della geografia del Paese ha messo questo villaggio al centro della sua Storia, facendone un formidabile punto di osservazione anche per la guerra in corso. Alla fine il mio reportage "immersivo" da questa zona militare chiusa, a cui ho avuto accesso grazie ai miei rapporti coi residenti sfollati dopo la strage del 7 ottobre, avrebbe vinto il primo premio di miglior tesi alla Columbia. Proprio nel pieno della protesta anti-israeliana scoppiata nei campus americani. La fuga fallita. Quando avevo scelto di passare un anno negli Stati Uniti, uno dei miei obiettivi era quello di approfondire temi diversi da quello del conflitto mediorientale. Non potevo immaginare che l'università newyorkese, anzi, il grande prato su cui si affacciava Pulitzer Hall, la sede della scuola dove si assegna anche il prestigioso premio di giornalismo, stesse per diventare il principale terreno di scontro nel contesto di un rinnovato dibattito mondiale su Israele e Palestina. Come in una versione alternativa della Samarcanda di Roberto Vecchioni, per quanto fossi andato lontano la mia fuga dal conflitto era fallita. Nella primavera 2024, infatti, il manto erboso dello snodo principale del campus ha iniziato a popolarsi di tende con cui gli studenti volevano esprimere la propria indignazione rispetto alla guerra senza quartiere condotta da Tzahal a Gaza. Una protesta che avrebbe mandato in tilt l'istituto punta di diamante del pensiero liberal americano e si sarebbe propagata in decine di altre università del Paese. Il movimento studentesco era visto come un sintomo di un nuovo modo di vedere il conflitto delle nuove generazioni americane, confermato dai sondaggi. Se per i loro genitori e nonni Israele era Davide, per i giovani era diventato Golia. Gli slogan duramente anti-israeliani hanno scatenato un caso. Fra quelli che ho sentito gridare c'era: «Non vogliamo due Stati, vogliamo tutto il territorio del 1948», «Globalizziamo l'Intifada», «La Palestina è araba». Su uno striscione ho letto: "Gloria a chi fa assaggiare l'amarezza all'occupante". Sul fronte opposto, colpiva I'indifferenza manifestata dalla componente filo-israeliana della popolazione studentesca, oltre che da tanta parte della politica americana, di fronte ai massacri della popolazione civile di Gaza. E il modo in cui, alla leggera, l'intero movimento di protesta, che per altro comprendeva una nutrita compagine ebraica, veniva tacciato di terrorismo e antisemitismo. Laddove la richiesta rivolta al governo americano era di fermare la guerra del governo più di destra della storia di Israele. Alla Columbia chi credeva nel diritto di Israele ad esistere, ma era disgustato dalle sue politiche repressive, come il sottoscritto, si sentiva stretto fra due fuochi. C'era da scegliere fra la tifoseria che considerava Israele un'entità coloniale illegittima in tutte le sue possibili conformazioni geografiche, e nazista nel suo modo di trattare i palestinesi, e una tifoseria che considerava accettabile derubricare a danno collaterale decine di migliaia di morti innocenti, protrarre l'occupazione e violare, oltre alla legge internazionale, anche il diritto dei conflitti armati. I margini per provare a proporre un approccio più costruttivo erano scarsi. Io mi illudevo che nel 2024 fosse ormai chiaro che la parola chiave per risolvere questo conflitto potesse essere una sola: compromesso. Fra due parti che hanno sostanzialmente entrambe ragione. Gli israeliani che, visto anche il bagaglio storico di persecuzioni antiebraiche e il legame storico con questa terra, vogliono uno Stato: possibilmente senza nessuno che gli spari addosso o continui a sostenere che proprio loro, fra tutte le nazioni, non ne hanno il diritto. E i palestinesi che si sono visti arrivare genti da tutti gli angoli del pianeta a spiegargli dove possono o non possono andare, cosa possono o non possono fare, e a rinchiuderli dietro recinzioni in spazi sempre più esigui. Ma alla Columbia la ricerca di soluzioni non era parte dell'agenda della protesta. Non è facile trovarsi nel mezzo. Lo sanno bene anche i contadini di Netiv Ha'asara, il villaggio israeliano vicino a Gaza. Con i residenti delle altre comunità di frontiera facevano parte di una realtà demografica e culturale estranea all'ideologia dominante in Israele che per anni aveva esasperato il conflitto. Malgrado questo, sono stati le prime di tante vittime collaterali di questa guerra.

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