“UnNomeUnaGaranzia”. “Del Debbio, il prete mancato fedele solo alla stirpe Berlusca”, testo di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di ottobre 2024: Il tono è quello del taxi driver De Niro davanti allo specchio: “Ehi! Voglio dire all’assistente di studio che se continua a rompermi i coglioni con i suoi cartelli, mi alzo e vengo lì! È chiaro?”. Ma chi è ’sto buzzurrone in diretta tv? Un pazzo fuori dai gangheri che su Retequattro si crede Del Debbio? Oppure è un Del Debbio che è diventato matto? Ma sì. Al netto del capello phonato, della barba sfatta, del vestito affittato per officiare in pubblico la Prima Comunione con la Meloni e il popolo sovrano, è proprio lui, Paolino Del Debbio da Lucca, che da ragazzo dell’altro secolo doveva fare il prete, in seminario a 16 anni, per poi trasvolare verso gli studi di Filosofia alla Pontificia, pregando e strascicando i piedi tra la Toscana anarchica, la sua copertura, e la Città santa del potere, la sua destinazione. Addestratosi in proprio a fare finta di ribellarsi al mondo, per poi ubbidire con zelo al prevosto o al capofabbrica del momento. Pescato, intorno ai trent’anni, dal dottor Berlusconi Silvio che lo sceglie dal mazzo aziendale, spremuto in teologia fino a rendere compatibile le virtù cardinali con lo sterco del demonio e le soubrette, buttato prima in politica, poi nella cattiva televisione, che dentro al santuario di Arcore stavano diventando la stessa cosa. Era il mitico anno 1993. Racconterà: “Un giorno il Dottore mi disse ‘sto per fondare un partito. E siccome vincerò le elezioni, mi servirebbe un programma. Ti metti là e me lo scrivi’”. Tale fu l’emozione che, uscito stordito da Arcore, il neofita Del Debbio guidò talmente tanto “che mi ritrovai a Torino”. Era ancora fatto di pasta e ribollita. Veniva da una povera infanzia in lucchesia, nato il 2 febbraio 1958, mamma sigaraia, babbo internato in un campo di concentramento durante la guerra, poi operaio della Ferrero, “tutti e due umilissimi, onestissimi, il mio orgoglio”. Prima del Seminario è stato “il piccino di macelleria”, il garzone del lattaio, il cameriere. Quando s’è scocciato di frequentare “la scuola dei deboli”, si è trasferito in quella di Sant’Agostino che lo ha condotto al matrimonio con Gina Nieri, famiglia d’alto lignaggio di Lucca, manager della emergente Fininvest, che è stata la diagonale del suo ascensore sociale, poveri bye bye. A quel tempo serviva da assistente di Fedele Confalonieri, ammirava Martelli, votava Craxi e qualche volta i Radicali che si portano con tutto. Si vantava di dirsi liberal e liberale, nonostante gli inchini al più agguerrito tra i monopolisti in circolazione. Ma ora che l’età si è di molto allargata, il danno degli infiniti signorsì gli hanno piegato la schiena e l’umore, voltando le sue radici di devozione populista nella quotidiana ginnastica di insolenze che fanno ridere i suoi ospiti, specialmente quelli della sinistra più sciocca, che corre contenta a fare da pietanza alla sua cena mediatica intitolata 4 di sera, dove gli ingredienti vengono scottati sulla brace della cronaca voltata in politica: crimini di strada, invasione dei migranti, sicurezza nelle periferie, emergenza scippi, emergenza risse, emergenza movida. Fino al capolavoro della sua personale Opera Rom, anno 2023, sei ore di televisione in cinque puntate di Diritto e rovescio, dedicate alle borseggiatrici, le famigerate streghe della metropolitana, come fossero anche loro emergenza nazionale, non il narcotraffico, non la mafia del suo amico Dell’Utri, meno che mai la corruzione delle élite. E guai a dissentire: “Chi pensa che le borseggiatrici non siano un problema, è pregato di andare a abitare vicino a un campo Rom”. Aizzare rancori sociali è la sua personale missione e miniera d’ascolti. Che hanno finito per trasformarlo in un Satanasso del monoscopio, nonostante le scenografiche burbanze da parroco d’oratorio: “Aggiustate il volume, non sento un cazzo!”. “Se vi sovrapponete vi tolgo il microfono, siete avvertiti”. Che hanno alimentato l’equivoco buonista di considerarlo un Mario Giordano di gomma piuma. O a volte un Gianfranco Funari con la mandibola e le narici scariche. In realtà la sua catechesi serale è un’aggravante: sa quel che fa e fa quel che dice, esplorare la società liquida, tuffandosi nei suoi liquami, per poi incassare, tra un segno della croce e l’altro, la sua milionata di ingaggio annuale. Se la merita, visti gli incassi di ascolto che in apparenza fa con la mano sinistra in tasca, arrivando in studio un minuto prima della messa in onda. “È pronto il copione?” Si siede là in fondo sul gradino, accende il mezzo toscano, legge anzi, leggiucchia, si stufa, ha fretta, dice “Embè, cominciamo?”. La formazione della squadra è fissa e collaudata: un paio di bamba comunisti a far da esca, “certo che ci vuole la patrimoniale!”, un Capezzone illividito che strilla “Zitto tu, antisemita!”, un Belpietro che furoreggia contro “la dittatura dei vaccini” e un Sallusti contro quella “delle toghe rosse”. Più la trattoria o la piazza in collegamento a dare fiato alla vox populi, vox dei, che strilla: “Ma cosa ce ne frega a noi della Palestina?!”. Giusto, bombardiamo le borseggiatrici. A perfezionare la sua fama di narratore, “pensatore poliedrico”, difensore degli ultimi – “a me Bertinotti mi fa una sega” – due perle vanno segnalate tra la sua dozzina di libri pubblicati: “Le dieci cose che ho imparato dalla vita”, vissuta conciliando “l’amore per Dio, per le donne, per la gente comune”. E il capolavoro “In nome della libertà”, dedicato alla memoria di Silvio, dove non si parla mai dei soldi accumulati, dei processi schivati, meno che mai dei “pullman di troie” promessi, ma solo del suo lascito politico, morale, anzi etico, che trascolora nel suo ultimo manoscritto consegnato alla figlia Marina, in forma di decalogo e testamento: “Forza Italia è il partito del cuore, il partito dell’amore, il partito del cristianesimo”. Del Debbio, da antico seminarista, fa finta di credere a tutto. Persino a Giorgia Meloni, nuova titolare del potere, per la quale allestisce un’intervista in versione televendita alla Emilio Fede. Nel frattempo e per non sbagliare si dichiara “anarchico con voglia di assoluto”. In realtà lavora, come sempre, alle strette dipendenze degli eredi, Pier Silvio & Marina, che vogliono coltivare il brivido di un nuovo centro – sempre più lontano dalla Lega di Salvini – che coniughi la destra e i diritti, lo Stato securitario con l’amore fluido, il privilegio dei ricchi, ma con tanta compassione per la povertà.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 13 ottobre 2024
MadeinItaly. 37 Del Debbio: «Forza Italia è il partito del cuore, il partito dell’amore, il partito del cristianesimo».
Sembrerà strano, ma a volte rivolgersi
all'operetta aiuta: "La danza delle libellule" debutta nel 1922, su
musica di Franz Lehar e libretto di Carlo Lombardo. La trama è un gran
pasticcio che vede la vedova Cliquot corteggiata da un riccone, Piper, che
vuole stupirla mettendo in scena una commedia. I colpi di scena e gli intrighi
sono abbastanza simili al caso Boccia-Sangiuliano, quindi non ci interessano:
quel che è interessante, invece, è che già oltre cento anni fa ci si dilettava
nella rappresentazione del crimine a uso e consumo dei privilegiati, e dunque i
nobili invitati si divertono a travestirsi da malavitosi di allora, gigolettes
e apaches, canticchiando «In loschi tabarin/danziamo al ritmo del bicchier».
Non è cambiato moltissimo, in termini di rappresentazioni che non corrispondono
alla realtà, se si pensa alla raffica di reati previsti dal ddl Sicurezza:
oltre a quelli già citati, come ricordava Adriano Sofri su Facebook in una
lettera a Paolo Del Debbio viene trasformata da illecito amministrativo in
reato la «disobbedienza passiva» a un ordine della polizia penitenziaria da
parte di tre o più detenuti, «puniti con la reclusione da uno a cinque anni»,
e, «se promotori», «da due a otto anni». Un capolavoro. Ora, se si prende in
mano il rapporto Censis del 2022, si vedrà che avevamo allora (e abbiamo ancora
oggi} un problema di paura: il 51,7% degli italiani teme di rimanere vittima di
reati, nonostante nell'ultimo decennio il numero delle denunce sia diminuito
del 25,4%; gli omicidi volontari calano del 42% (i femminicidi restano sempre
stabili, invece), le rapine e i furti in casa del 48%. Eppure, questo governo
agisce proprio sul terrore degli italiani; un paio di anni fa, la presidente
del Consiglio rispondeva alle non poche polemiche relative al decreto Anti-rave
e Anti-tutto con queste parole: «È una norma che rivendico e di cui vado fiera
perché l'Italia, dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte
all'illegalità, non sarà più maglia nera in tema di sicurezza». Qualche tempo
fa, inoltre, l'ineffabile Luca Ricolfi contestava il ddl Zan scrivendo sulla
Ragione che si può condannare l'odio, ma non la paura: «Perseguire xenofobia,
omofobia e transfobia equivale a sostenere che la gente non abbia il diritto di
manifestare sentimenti di paura verso determinate categorie di persone». Giuro
che l'ha scritto davvero. Che poi la paura non sia quella di venir aggrediti o
uccisi, ma di perdere uno status sociale, come notava anni fa la psicologa
Chiara Volpato, poco conta: l'importante è che si continui a essere
terrorizzati, magari dai fantasmi, e si esulti quando il governo in carica
risponde da par suo. Recentemente, infatti, la commissione Cultura, Scienza e
Istruzione ha approvato una risoluzione presentata dalla Lega, firmata da tutta
la maggioranza, che si oppone alla «propaganda gender» nelle scuole. Il primo
firmatario Rossano Sasso ha motivato la risoluzione dicendo che le drag queen
non devono entrare nelle aule delle elementari. Perciò, la cosa preziosa di
oggi è "Chi ha paura del gender?" di Judith Butler (Laterza,
traduzione di Federico Zappino). L'onorevole Sasso non lo leggerà, ma chi può
lo faccia: perché la filosofa ribatte punto su punto a chi vorrebbe, con il
pretesto del gender, «neutralizzare le conquiste giuridiche e sociali» che ci
hanno permesso di vivere un po' meglio. E con meno paura, nei fatti. (Tratto
da “A qualcuno piace giocare con la
paura” di Loredana Lipperini pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4
di ottobre 2024).
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