“Lo strano sollievo: non è la mia quell’intera famiglia spazzata via” di Aya Ashour – palestinese riparata in Italia – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, giovedì 30 di ottobre 2025: Erano le 3:15 del mattino quando mia sorella Noor mi ha mandato un messaggio su WhatsApp: "Ci stanno bombardando. Mi sono svegliata al rumore delle esplosioni". Un breve messaggio, eppure mi ha fatto tremare, sola nel mio esilio, pensando alla mia famiglia. Ma come? E la tregua? Ho pensato alla piccola Rola: si sarà svegliata terrorizzata? Il prossimo missile li colpirà? Non riuscivo a riaddormentarmi. Sono uscita presto di casa, correndo per le strade deserte di Siena, cercando di scacciare dalla mente quei pensieri terrificanti. Ho scritto a Noor: "Cosa stai facendo adesso? Sono tutti svegli? Come sta Rola?". Lei ha risposto: "Sì, sono tutti svegli". So esattamente come si sentono, l'ho vissuto anch'io. Quando Israele ha violato il secondo cessate il fuoco lo scorso marzo, ci siamo svegliati al rumore dei missili che piovevano intorno a noi, chiedendoci: "Cosa sta succedendo?". Scorrendo le foto dei bambini uccisi negli ultimi attacchi aerei, mi sono imbattuta nell'immagine di un bambino e una bambina che erano stati uccisi insieme ai loro genitori nel campo profughi di Nuseirat. Li ho riconosciuti, insieme alla loro madre. Ci siamo laureate insieme a Gaza City. Ancora non riesco a credere che non ci sia più. Aveva già perso suo padre all'inizio della guerra. Nello stesso momento, mia mamma mi ha chiamato per chiedermi di inviarle dei soldi per comprare e immagazzinare generi di prima necessità: nessuno sa se Israele manterrà aperto il valico di Rafah per le merci e gli aiuti. Dentro di me ho pensato: se solo potessi mandare loro tutto quello che ho, solo per farli mangiare ciò che vorrebbero e che possono riuscire ad avere mentre sono ancora vivi. La mia famiglia qualche giorno fa ha provato la rara gioia di acquistare un chilo di pollo, per 30 euro. Non lo mangiavano da marzo. Noor mi ha mandato una foto di Rola che tiene in mano il pollo, felice. Sono seduta qui, al sicuro, e mi chiedo: come posso convivere con tutti questi sentimenti? Sono esausta dal controllare costantemente i gruppi Telegram che pubblicano aggiornamenti sui bombardamenti, solo per vedere se sono vicini alla mia famiglia o meno. Poi mi dico: "Ok, questa volta non è la mia famiglia". Ma è un'altra famiglia, con i loro figli, le loro madri, i loro padri. Che tipo di egoismo è questo, provare sollievo perché i nostri cari sono sopravvissuti, mentre un'altra famiglia è stata spazzata via? Che tipo di distorsione dell'umanità stiamo vivendo e come potremo mai guarirne? Anche noi, le vittime, ci sentiamo in colpa per essere sopravvissuti. Come può il mondo provare il nostro dolore? In momenti come questi, gli abitanti di Gaza comprendono il significato dell'assurdità: vedere decine di vite, bambini e donne, cancellate dal registro civile in poche ore. Sentirsi in colpa per essere vivi mentre altri sono stati uccisi. E poi, tutto si ferma, come in un videogioco scadente. Come se nulla fosse successo. Rimangono solo il dolore e il lutto nei cuori degli orfani, delle vedove e delle madri in lutto. Nessuna giustizia, nessuna responsabilità criminale. In questo nuovo ciclo di genocidio, non c'è spazio per parlare di orizzonti politici o svolte decisive. Le uccisioni sono diventate una parte essenziale, anche se non ufficiale, degli accordi - benedetti immediatamente da Trump - e lo saranno fintanto che l'occupazione israeliana sarà libera di dichiarare, ogni volta che crede, sia il rinnovo del cessate il fuoco sia la propria adesione a esso, in presenza di mediatori deboli o complici.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
giovedì 30 ottobre 2025
CosedalMondo. 73 Tomaso Montanari: Donald Trump alla Knesset: «Abbiamo dato molte armi a Israele, e le avete usate bene».
Sopra. "Martirio di Sant'Orsola" (olio su tela, 1610) di "Michelangelo Merisi detto il Caravaggio".
La leggenda, ambientata nel IV secolo dopo Cristo, è quella di sant'Orsola
e delle undicimila vergini che attraversano l'Europa dal nord fino a Roma, e che
sulla via del ritorno, a Colonia, incontrano il martirio per mano di Attila, il
pagano re degli unni. Questi avrebbe voluto risparmiare solo Orsola, per
sposarla. Ma quando la bellissima principessa che guida la spedizione lo
rifiuta - proprio come una eroina classica -Attila prende una freccia e, a
distanza ravvicinatissima, gliela scocca nel petto, uccidendola. Caravaggio
tralascia le undicimila vergini, non ci mostra paesaggi, navi o viaggi: vediamo
solo lei. Così voleva certo il committente Marco Antonio Do ria, che aveva una
figlia monaca che si chiamava proprio Orsola. Ma così soprattutto volle
Caravaggio, per cui la storia è sempre fatta da persone, corpi, pezzi unici. Ne
viene fuori un quadro in cui sentiamo tutto intero già Rembrandt: ancora
strepitoso, nonostante i danni provocati da chi lo mise ad asciugare al sole
quando era appena stato dipinto. Caravaggio, più volte testimone diretto di
fatti di violenza, racconta l'omicidio al rallentatore: a nulla vale il gesto
di pietà di un cortigiano, che stende una mano quasi per proteggere la santa,
alla quale la freccia si è ormai conficcata nel petto. Orsola si piega: tra un
minuto stramazzerà al suolo. È un quadro terribile, un quadro ultimo da tutti i
punti di vista: ed è così che Caravaggio si congeda dalla pittura e dalla vita.
Ed è un quadro che rappresenta la violenza mostruosa del potere: Attila è un
re, uno che decideva guerre, combattute da altri, massacri compiuti dai suoi
uomini. Sulla sua coscienza dovevano gravare migliaia e migliaia di morti. Come
è scritto nella sentenza di condanna del criminale nazista Adolf Eichmann,
emessa dal tribunale di Gerusalemme e commentata da Hannah Arendt, «il fatto di
essere più o meno vicini [...] a chi materialmente ha ucciso quelle vittime,
non ha alcuna influenza sulla responsabilità. Al contrario, questa
responsabilità, in generale, cresce quanto più ci si allontana da chi, con le
sue mani aziona, lo strumento usato per uccidere». Eppure, per capire davvero
che un capo di Stato è un assassino, dobbiamo vederlo come qui vediamo Attila:
mentre pianta la freccia mortale nel cuore di Orsola. Pensiamo ai monarchi
barbarici del nostro tempo, a Donald Trump che dice
alla Knesset: «Abbiamo dato molte armi a Israele, e le avete usate bene».
Una confessione di genocidio, un autoritratto collettivo del potere
occidentale: con l'arco in mano. (Tratto da “Gli Attila dei nostri
tempi” di Tomaso Montanaro pubblicato sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 24 di ottobre 2025).
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