"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 20 ottobre 2024

Lavitadeglialtri. 47 Levitico (19, 34): «Lo straniero che risiede con voi sia per voi come chi è nato tra voi. Lo amerai come te stesso, perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto».


«Gaza e le sue vite indegne: siamo tutti “reclutati”», intervista di Maddalena Oliva alla “filosofa” Judith Butler pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di oggi, domenica 20 di ottobre 2024: (…). Butler, in Regimi di guerra scrive: "La guerra è una logica di precarizzazione di alcune vite rispetto ad altre, polarizza in un noi e in un loro la radicale uguaglianza umana, ovvero la vulnerabilità dell'esistenza". Quando inizia questo processo? “La guerra non è una cosa univoca e non esiste una sola logica per tutti i conflitti. Ci sono scontri in cui il vincitore piange con forme rituali lo sconfitto. Oggi invece ai vinti non viene riconosciuta nemmeno la dignità di lutto, come non fossero esseri viventi. Pensiamo la guerra un evento separato dalle questioni sociali, ma se guardiamo ai curdi o ai palestinesi vediamo in che modo la disuguaglianza sociale e politica culmini in forme di violenza che compromettono la vita stessa di quei popoli”.

Gaza è il punto più estremo di questo discorso? “L'argomento del governo di Israele e di parte della popolazione è basato sulla colpa collettiva. Ovvero, tutti i palestinesi devono pagare per ciò che alcuni di loro hanno fatto: avendo votato per Hamas che ha commesso atrocità e crimini di guerra sono stati loro a provocare la risposta violenta dell’Idf. Muoiono per colpa loro. Un argomento immorale perché disconosce la massiccia distruzione dell'esercito israeliano a Gaza prima - tale da far parlare di violenza genocidaria - e a Beirut ora”.

Sembriamo sempre più indifferenti agli oltre 40 mila morti palestinesi. Come è possibile? E perché per parlarne bisogna partire sempre dal commemorare le vittime del 7 ottobre? “Gli attacchi del 7 ottobre sono stati un crimine contro l'umanità e vanno condannati. Ma condanna e comprensione storica non sono in contraddizione, e questa storia non inizia il 7 ottobre. Far partire tutto da lì significa spiegare la violenza israeliana come ritorsione o autodifesa. Non ci si domanda a cosa reagisca Hamas, quale sia la sua storia, gli obiettivi, i rapporti con il resto dei palestinesi. Quando ci viene chiesto di condannare Hamas all'inizio di una conversazione, si vuole congelare il punto di partenza della storia”.

La sua lettura del 7 ottobre le è valsa molte critiche... “Se dovessi rimanere nel mio dolore di ebrea, senza vedere la devastazione che Gaza sta subendo, restringerei la mia visione e fallirei nella lettura del quadro. La mia risposta al 7 ottobre è stata il pianto per la perdita di ebrei israeliani (cosa che ha fatto arrabbiare alcuni amici palestinesi) e l'insistenza sulla pari dignità di lutto per le vite palestinesi (cosa che ha infastidito molti sionisti). Non rientro nello schema bellicista. E l'aggressione a Gaza non ha nulla a che vedere con la vocazione ebraica per la giustizia in cui sono cresciuta”.

Lo schema bellicista vorrebbe un noi e vs un loro. “Una divisione che in guerra si rinforza. Un gruppo di persone viene rappresentato con un unico punto di vista. E quando quella moltitudine si esaurisce in una singola figura diventa un fantasma: non è più una vita umana ma l'incarnazione di una minaccia da distruggere”.

Così normalizziamo la morte degli "altri"? “In una certa misura, sì. Chiediamoci perché la nostra indignazione è riservata ai civili israeliani, anche se in molti condannano l'uccisione di palestinesi innocenti, bambini compresi, e per questo scendono in strada a protestare. La guerra restringe il campo delle nostre emozioni, attivandone alcune e attenuandone altre. Il giornalismo embedded e i media ci mostrano l'orrore, ci sembra di toccarlo e sentirlo, ma è una sequenza di immagini che non è in grado di farci comprendere e analizzare cosa stia succedendo e perché. È per questo che - scrivo - la guerra si impegna a minare una democrazia ragionevole. Ecco perché dobbiamo essere in grado di capirla fino in fondo la guerra, registrarla con i nostri sensi e fare in modo che il dolore e la rabbia ci muovano per mettere in discussione, apertamente e collettivamente, quella distruzione, per valutare se sia o meno giustificabile”.

Lei sostiene che la guerra sia una messa in scena. “Non penso certo che sia una finzione, anzi! Ma quando un fotografo o un'agenzia di stampa racconta, inquadra sempre. Anche se si sforza di essere neutrale. Selezionare un fatto piuttosto che un altro, la sua angolazione, sono tutti atti interpretativi. La cornice partecipa attivamente a una strategia di contenimento, imponendo ciò che per noi lettori o spettatori conterà come realtà. Pensiamo al governo israeliano. Ci viene detto che i civili vengono uccisi perché Hamas si nasconde tra loro: dovremmo quindi credere che siano danni collaterali o che, fornendo riparo al nemico, partecipino alla guerra. Ma ci sono notizie che ribaltano questa cornice interpretativa: quei civili vengono attaccati direttamente, nelle loro case, scuole, rifugi”.

A imporre le cornici sono gli Stati, i media o i social? “Almeno in condizioni di assenza di censura da parte dello Stato, ci sono molti attori che, anche attraverso un cellulare, creano cornici, spesso contraddittorie. Dobbiamo quindi chiederci non solo quali siano le notizie da Gaza, ma attraverso quali cornici le riceviamo. Ci faremo la nostra idea, senza farcela dettare”.

Chi dissente da una certa idea viene però criminalizzato e delegittimato... “In questo stato di violenza sono preoccupata sia per la libertà di stampa sia per quella accademica. Molto dipende dal tipo di nazionalismo che gli sforzi bellici costruiscono e consolidano. L'idea di nazione non ammette migranti, rifugiati, attivisti Lgbtqia+, oppositori: sono tutte minacce allo Stato e al suo successo in guerra”.

Siamo tutti reclutati? “Forse dobbiamo diventare più consapevoli di come avviene il reclutamento. La gente vuole subito sapere da che parte stai. Potremmo voler prendere una posizione al di fuori del dualismo noi-loro o contro la guerra in quanto tale: in entrambi i casi ci verrà detto che siamo dall'al-tra parte, cioè con il nemico. Come ebrea, se non sostengo Hamas - e non lo sostengo - vengo definita sionista. Ma se critico il sionismo nella sua forma attuale, appartengo ad Hamas! Entrambe queste accuse ricadono in quella logica di guerra cui mi oppongo. Il nostro sforzo deve essere teso a sviluppare cornici interpretative che vadano oltre: l'obiettivo è un mondo non violento, in cui coabitino uguaglianza e libertà per tutti”.

La guerra è "maschile"? “No, c'è della mascolinità belligerante in certe forme aggressive di autodifesa e di sadismo. E ad abbracciare questa logica ci sono anche donne. Ma esistono donne, uomini e persone di altro genere unite contro la guerra: per me sono la speranza”.

L'esito delle elezioni Usa inciderà sulla fine della guerra in Ucraina e su Gaza? “Sì, influenzerà gli invii di armi. Trump è un protezionista che non ama spendere soldi per guerre lontane: se vincerà, abbandonerà Kiev e cercherà un accordo che favorisca Mosca. Ma non smetterà di sostenere Israele. Su Kamala Harris, stiamo aspettando di vedere fino a che punto romperà con Biden”.

Le sinistre globali sembrano in affanno su Gaza, mentre sull'Ucraina hanno sposato, con il sostegno a Kiev, la logica dell'escalation... “Non saprei chi o cosa definisca la sinistra globale oggi. Ma vedo alcune grandi mobilitazioni per la Palestina e appelli per la fine della violenza in Ucraina. Se si vogliono sconfiggere nazionalismo e autoritarismo, è alle proteste transnazionali che dobbiamo guardare. Ricordiamoci che Bolsonaro e Trump sono stati cacciati dal voto popolare e che la sinistra sta crescendo in Francia, anche se è stata privata del potere dall'autocrazia neoliberista di Macron”. (…).

“Ama il tuo nemico come te stesso”, testo di Massimo Recalcati pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 17 di ottobre ultimo: L’amore cristiano per il prossimo dichiarato da Gesù come comandamento fondamentale dell’Evangelo e di fronte al quale indietreggia inorridito Freud, viene, in realtà, già annunciato, com’è noto, nella Torah. In particolare nei versetti del Levitico (19, 18): «ama il tuo prossimo come te stesso». Nondimeno, poco più avanti, la ripresa di questo precetto fondamentale diviene ancora più radicale. Si tratta di uno spostamento d’accento significativo che verrà ripreso e enfatizzato proprio dalla predicazione di Gesù. Il riferimento adesso è allo “straniero”. «Lo straniero che risiede con voi sia per voi come chi è nato tra voi. Lo amerai come te stesso, perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto» (19, 34). Questa specificazione ulteriore dell’amore per il prossimo come amore per lo straniero è di notevole importanza poiché l’amore non investe tanto il prossimo come figura di colui che ci sta accanto, come il vicino o come il soccorritore, ma in quanto sconosciuto, lontano, straniero appunto. Con l’aggiunta altrettanto capitale che questo straniero non è solo colui che viene da fuori ma anche colui che in me è straniero. Il primo atto di fratellanza che incarna l’amore per il prossimo è, dunque, un atto che devo rivolgere allo straniero interno, al mio essere straniero a me stesso. Colui che non sa accogliere questa intimità sconosciuta non è predisposto all’amore per il prossimo. Si tratta di una precisazione che viene radicalizzata dal magistero di Gesù per il quale l’amore per il prossimo non è affatto un amore che si fonda sul reciproco rispecchiamento quanto su di una dissimmetria fondamentale. Il prossimo non va infatti confuso con il simile, con l’identico, con l’eguale. Tutto al contrario. È la sua scandalosa interpretazione del comandamento del Levitico. Se, infatti, uno amasse chi lo ama, se amasse chi già gli vuole bene che merito avrebbe? Il vero salto è quello di concepire il prossimo non come il “simile” ma come il “remoto”. È una puntualizzazione che si trova in Così parlò Zarathustra di Nietzsche: solo se l’amore è per il remoto e non per il vicino esso si rivela davvero amore per il prossimo. Ecco perché Gesù nella sua lettura radicale della Torah interpreta l’amore per il prossimo come l’amore per il forestiero, per lo straniero, per chi non è di casa e, in ultima istanza, per il nemico. Perché è questa la radice più scabrosa dell’amore. Non amare chi è a nostra disposizione, chi resta accanto a noi, chi ci è vicino. Non amare la sua presenza empatica, la sua prossimità, la sua rassicurazione. Ma amare il prossimo come la parte più straniera di me stesso e dell’Altro, amare la sua alterità, quella più profonda e incondivisibile. Quella stessa alterità che Gesù nella sua testimonianza umana ha saputo incarnare quando, per esempio, ricorda ai suoi di non essere venuto per restare ma per andarsene o quando, nel tempo della sua resurrezione, si rivolge a Maria Maddalena ricordandole che non può più toccarlo (Noli me tangere). Testimonianza radicale dell’impossibilità di concepire l’amore come appropriazione, fusione, identificazione narcisistica al simile. È quello che Freud non comprende: l’amore per il prossimo non è amore per colui che mi è indifferente, ma per lo sconosciuto che è in me e in chi mi sta accanto, per lo straniero che io stesso sono presso me stesso e per il tratto sempre inappropriabile della libertà assoluta dell’Altro. Diversamente dal mito platonico di Eros nell’amore per il prossimo come amore per il nemico non si dà nessuna riconciliazione possibile, nessuna ricomposizione dialettica della scissione, nessuna armonia pacificata. L’orizzonte della fratellanza si inaugura infatti, già nel racconto della Torah, con l’atto fratricida commesso da Caino: il fratello è innanzitutto un intruso e un usurpatore. L’odio precede così l’amore perché esprime il rifiuto della condivisione, della presenza dell’Altro che non è a mia disposizione. Non a caso la guerra si scatena sempre a partire da un sentimento di violazione dei propri confini. Non può di conseguenza essere la sostanza del sangue a fondare la fratellanza, a garantire la conversione dell’odio nell’amore. Non a caso quando la Bibbia racconta i legami fraterni racconta sempre dei fallimenti traumatici. Non solo quello tra Caino e Abele ma anche quello tra Esaù e Giacobbe, quello tra Giuseppe e i suoi fratelli o quello tra il figliol prodigo e il suo fratello maggiore. La logica del sangue e della discendenza non è sufficiente a fondare l’amore per il prossimo come nucleo insormontabile di ogni possibile fratellanza. È necessario uno scatto ulteriore, uno sforzo differente. La necessità della biologia – l’identità del suolo e del sangue – sono sempre illusioni pericolose come ha mostrato in modo terrificante la stagione dei totalitarismi novecenteschi. Gesù ci aveva allertati: «chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?». L’identità del sangue non può mai essere l’ultima parola sulla fratellanza. Anzi, per certi versi, essa è un ostacolo all’istituzione dell’amore come amore per la differenza irriducibile dell’Altro. Perché questo indica l’amore per il nemico affermato scandalosamente da Gesù: ama chi non è tuo, chi non è come te, chi non è a tua disposizione, ama la distanza che lo separa da te, ama che se ne vada, che non resti, che non sia qui, che non ti appartenga mai. Stravolgimento radicale di ogni simmetria e di ogni reciprocità speculare. Per questa ragione egli ricorda che l’atto d’amore è sempre a fondo perduto. Non si realizza nell’essere ricambiato ma nel suo spendersi senza misura, illimitatamente, senza interessi. Ecco perché la vera gloria non è mai dell’amato ma dell’amante.

1 commento: