Sopra. Fotogramma tratto dal film "900" di Bernardo Bertolucci.
Le piacciono gli autori di destra? «Quando ho letto Karl Kraus, Joseph Roth, Elias Canetti o Jacques Maritain non pensavo minimamente che fossero scrittori di destra. E non credo neppure che avrebbe senso incasellarli. Ma avevano sensibilità e antenne per sorprenderci intorno al secolo che si è chiuso».
Cos'è che le manca della sinistra? «Forse il fatto di essere cresciuto con quelle idee ed essermi impegnato per esse».
Lei è nato a Cuneo. «Città fondamentalmente "bianca", clericale. Era difficile per un bambino o un adolescente socializzare senza passare dalle organizzazioni ecclesiastiche. Ricordo un periodo di lunga solitudine. Finì con la maturità che presi nel luglio del 1966. Poi mi trasferii a Torino, per iscrivermi all'università».
Suo padre è Nuto Revelli, scrittore e partigiano. Che ricordo ne ha conservato? «Di una persona con una storia dura alle spalle. La guerra e la Resistenza ne segnarono il corpo».
In una testimonianza lei ha parlato di una "vita spezzata". «La sua esistenza, come tante altre della generazione di allora, fu nutrita dalle menzogne del fascismo. Era un campione del lancio del disco poi un rugbista. Scelse con entusiasmo l'accademia militare. Da ufficiale degli alpini chiese di partire per la guerra. Prima in Albania e poi in Russia, fu quest'ultima tragica esperienza che gli aprì gli occhi».
Nel senso? «Dalla sconfitta e dalla ritirata comprese e rigettò la retorica bellica, la violenza nazifascista, la ferocia dei tedeschi verso i partigiani russi. In quel momento di estrema sofferenza e di abbandono Nuto maledì il duce e la guerra. Tornato in Italia, entrò nelle file partigiane. Nella lotta per la libertà ebbe inizio la sua seconda vita».
Tutto questo divenne poi racconto quando decise di fare lo scrittore. «Voleva dare voce ai vinti, sia a quelli dispersi e morti in Russia sia al suo mondo contadino senza il cui aiuto non sarebbe sopravvissuto nella guerra partigiana. Raccontò per coloro che non c'erano più e per quelli che sarebbero venuti dopo, affinché sapessero cosa era accaduto e che si può scegliere da che parte schierarsi».
L'impressione è che oggi sia venuta meno proprio la capacità di scegliere. «Quando Nietzsche pronunciò la famosa sentenza "Dio è morto", non capivo che avrebbe riguardato tutti noi direttamente. Che la perdita di senso di un intero periodo storico ci avrebbe ridotti a naufraghi alla deriva. La delusione fu tanto più forte quanto più profondo era stato l'impegno che ci mettemmo».
Parla dei suoi anni torinesi. «Fu un periodo bello e intenso, di trasformazione profonda per l'università e per la fabbrica. Arrivavo da una città di 50 mila abitanti e mi trovavo con Mirafiori che aveva 60 mila operai».
Alla Cuneo "bianca" si contrappose la Torino "rossa" di quegli anni, alimentata da quella parte del pensiero politico che iniziò a riflettere sulla specificità della figura dell'operaio. «È l'operaismo legato soprattutto a Panzieri e Tronti».
Che relazione ha avuto con quel mondo? «L'operaismo torinese non era solo dei Quaderni Rossi e successivamente di Classe operaia, ma anche quello della Camera del lavoro, con sindacalisti straordinari, una élite operaia alla quale mi sentivo più legato».
Citava anche l'università. «Aveva un'aura di eccellenza assoluta. Ero iscritto a giurisprudenza. Facevano lezione Norberto Bobbio, Giovanni Conso, Carlo Federico Grosso».
A proposito di Bobbio, lui ha spesso ribadito che la differenza tra destra e sinistra risiede nell'atteggiamento davanti alle diseguaglianze. «Lo scandalo della diseguaglianza è la radice antropologica della sinistra. È un fattore prepolitico, quasi un tratto del carattere. Bobbio lo ha detto. Visse con sofferenza lo scandalo della diseguaglianza quando alle scuole elementari, lui figlio di un famoso chirurgo, vedeva quanto diversi fossero i suoi coetanei più poveri e senza opportunità. La stessa reazione la ebbe Ingrao: "La diseguaglianza mi fa star male", diceva».
Non crede che questo scandalo oggi sia stato in larga parte rimosso? «Penso all'abitudine che abbiamo fatto ai naufragi nel Mediterraneo, all'orrore delle diseguaglianze sociali. Quindi sì. Ma la diseguaglianza resta il discrimine per una sinistra che vuole avere ancora una visione politica credibile».
Un pensiero di destra può controbatterle che la radice antropologica non si fonda sull'uguaglianza ma sulle differenze. «È vero, l'uomo di destra conclude che la diseguaglianza sta nell'ordine naturale delle cose. E sbaglierebbe chi pretendesse cambiare quell'ordine. Questo pensa il grande conservatore. Il che determina un destino di infelicità per l'uomo di sinistra».
L'infelicità alla quale allude presuppone nell'uomo di sinistra un residuo religioso. «È quel che resta di religioso dopo la "morte di Dio". Nel senso che il messaggio escatologico delle religioni salvifiche si esprime storicamente nella promessa di emendare le ingiustizie del mondo in un futuro costruibile. Che è poi quello che il pensiero conservatore e in particolare Molnar, che ho citato, definisce "l'inquietudine ontologica", l'incapacità dell'uomo di sinistra di aderire all'essere, intendendo per essere il qui e ora».
Il disagio di vivere nel presente. «Non ne coglie la pienezza, quello che Nietzsche chiamava "il grande meriggio". L'attesa rinvia a un futuro migliore e da costruire».
L'elemento utopico. «Che, intendiamoci, è una grande risorsa per la sinistra. Senza quella risorsa non avrebbe conquistato il grande seguito di massa che ha avuto. Una sinistra priva di un briciolo di utopia non interessa nessuno, allora meglio la destra che è fatta di cose presenti».
Ma un briciolo quanto? Perché quando si maneggiano le grandi macchine oniriche spesso non conosciamo il limite oltre il quale l'utopia non funziona e magari diventa una distopia. «Come difenderci dall'assolutizzazione della dimensione utopica, questo è il problema. Cioè dagli orrori prodotti sotto il socialismo reale, Stalin, Pol Pot, il terrorismo. Nel nome del dispositivo utopico, quelle esperienze hanno considerato così sublime il fine da giustificare l'uso di qualunque mezzo».
Il limite allora qual è? «È il rispetto della vita umana, la dimensione dell'umanesimo senza la quale la sinistra diventa l'arido esercizio del potere».
Perché dovrebbe essere così difficile spiegare cos'è oggi la sinistra? «Perché non c'è più, se dovessimo cercarla nelle pieghe della nostra quotidianità non la troveremmo. Esiste paradossalmente nell'ossessione della destra che definisce la sinistra il nemico».
Ma il fatto che non ci sia più non può far pensare che proprio le categorie destra e sinistra sono ormai obsolete, inadeguate a descrivere la nuova mappatura del mondo? «Destra e sinistra non colgono la fenomenologia della politica. Perché una delle caselle oggi è talmente rarefatta da apparire vuota. Nei fondamenti caratteriali delle persone la differenza continua ad essere riconoscibile. Non siamo tutti omologati. L'attuale disastro politico dipende da ragioni soggettive e di sistema».
Me ne elenchi qualcuna. «I comportamenti delle leadership globali hanno favorito questo svuotamento. Quando i leader delle sinistre decisero che si doveva essere come tutti, hanno rinunciato alla loro primogenitura, a muoversi in direzione ostinata e contraria. Poi ci sono elementi di contesto: l'emergere di uno stile di pensiero radicalmente individualista, quella religiosità di cui parlavo prima era legato all'agire collettivo. Oggi l'individuo è solo rispetto alla crisi di senso».
Ma la crisi della sinistra non si può spiegare anche con il fatto che parte del suo programma è stato realizzato? «Ci sono conquiste indubitabili della sinistra ma è come se quel percorso si sia interrotto. La sinistra ha avuto nel '900 una congiuntura straordinariamente favorevole. Si combinavano i diversi elementi: l'agire collettivo, lo Stato nazione contenitore della forza politica e la fabbrica fordista come motore dello sviluppo sociale. Sono venuti meno tutti e tre. E con essi è venuta meno anche una certa idea di futuro. Oggi viviamo quasi esclusivamente nel presente».
Che è la vera fine della storia. «Ma se il futuro diviene impronunciabile, che si fa? Non saperlo più misura il fallimento della mia generazione. Resta il senso di colpa di aver dato alle generazioni successive un mondo senza futuro. Mio padre mi ha consegnato un mondo migliore del suo. Io consegno alla mia figlia ideale un mondo che è peggiore del mio. Noi abbiamo goduto di una prosperità incredibile. La criticavamo ma avevamo anche una speranza possibile di migliorare il mondo».
Cosa si rimprovera? «Per citarle il caso più eclatante: abbiamo sottovalutato la questione ecologica. Noi vedevamo solo la potenza della rivolta nella fabbrica e non coglievamo il lato mostruoso di quei conglomerati tossici che cancellavano vite umane».
Che cosa ci ha consentito di essere un passo avanti rispetto all'illusione? «Il fatto di poter scrivere la nostra Costituzione perché ci fu l'8 settembre, perché la patria allora morì. Solo così potemmo rinascere».
Dopo questi fallimenti che ne è delle sue certezze? «Non ne ho. La politica ci ha consegnato una forma di infelicità sotto la forma del destino».
Come tradurrebbe questo? «Avverto, come mai ho sentito, un senso di vuoto. Questa è la mia condizione esistenziale. Ma non rinnego niente. Non ho nessun rammarico. Ecco, registro un fallimento generazionale. Tutto l'impegno oggi è nel trovare degli appigli per contrastare lo smarrimento del senso dell'agire collettivo che rischia di riflettersi sull'agire individuale. È un contesto disperante quello in cui verso. Non avrei mai immaginato che il nostro Paese potesse vivere una regressione politica così radicale».
Quello che lei descrive con grande onestà intellettuale la mette in una condizione di forte disagio. Allora ha senso continuare a immaginarsi che ci sia ancora un residuo di possibilità che le cose cambino? «È orribile, ma certe volte mi dico: per fortuna che mio padre non c'è più, perché così non deve assistere a questo spettacolo. Più il tempo passa e più mi auguro di dimenticare questo presente. È un tormento penoso assistere a questo spettacolo».
Ma perché continua a infliggerselo? «Uno non sceglie il momento storico in cui vive e non può scegliere di accondiscendere a quello che accade. Sono i miei riflessi pavloviani».
Si diventa come personaggi di un romanzo. Forse solo lo sguardo di un grande scrittore sarà in grado di raccontarci come andrà. «Magari sarà una nuova figura profetica a introdurre quello scarto, quel movimento laterale, che ci farà uscire dalla gabbia dell'immodificabile. I grandi scrittori sono profeti, hanno la forza di alzare lo sguardo oltre l'orizzonte dei loro contemporanei. Il mio maestro Bobbio inorridirebbe».
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