“Vivere&MorireInKiev”. “Re Artù l’angelo queer di Kiev”, testo inedito in Italia della scrittrice e giornalista Katia Petrowskaja – ucraina, laureata a Mosca, vive a Berlino dall’anno 1999 – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di oggi, 27 di ottobre 2024: Era poco dopo le cinque di mattina, il coprifuoco era terminato. Eravamo arrivate alla stazione di Kiev quando la mia amica Yevgenia alzò gli occhi dal telefono e mi chiese se conoscessi Artur. E io capii subito perché me lo chiedeva. Artur o "Arturéìk", come lo chiamavano in molti, era morto. Il mio feed di Instagram brulicava di foto e video coloratissimi. E quel flusso ininterrotto somigliava a un grido. Artur è caduto al fronte. Era un angelo del movimento queer ucraino. Questi due dati di fatto correvano come linee parallele dentro la mia testa, per incrociarsi oltre l'orizzonte della mia comprensione. Le sue foto sembravano uscite dal mondo di una popstar: spassose, seducenti, spensierate. Un ballo in maschera dell'essere. Non lo conoscevo personalmente, ma quasi tutte le persone che volevo incontrare a Kiev sì, cosicché, all'improvviso, mi ritrovai circondata dal lutto. «Perché non l'abbiamo difeso?». Nella prima foto che vidi al mio arrivo a Kiev Artur indossava la giacca di un capitano di lungo corso. Era stata scattata in un locale leggendario, l'Efir. Domandai a S., il suo fondatore, come mai tutti amassero tanto Artur. Mi rispose: «Per il suo coraggio. La sua vita era una performance totale». Di notte si mise a piovere, qualcuno scrisse: «Anche il cielo piange, il cielo di Kiev». Ci furono due attacchi aerei, e poi un altro ancora, molto presto. Era la festa nazionale russa e per questo bombardavano Kiev con le armi più pesanti, ecco la logica della festa russa. La pioggia non cessava, come se i missili avessero perforato la membrana del cielo e tutta l'acqua si riversasse su di noi, come alla fine dei tempi. E noi eravamo come avviluppati in quella sensazione di lutto che di volta in volta avevamo sempre respinto, per continuare a vivere. «Adesso dobbiamo imparare a concederci al lutto», mi disse A., che è incinta per la terza volta e che ha appena prodotto un disco dal titolo Death in June, un mix di conversazioni quotidiane, rumori della città, ninne nanne e funerali senza fine. Smise di piovere e uscimmo a fare una passeggiata. Le campane della cattedrale Volodymyr'skyj rimbombavano piano, con un suono profondo. Per chi suonavano? Vidi dei giovanissimi boyscout ucraini che, disposti in due ali, aspettavano la salma. Attraversai il centro, osservando la folla estiva per la strada. Gli uomini mi sembravano condannati, destinati alla morte, e tentai di contenere quella sensazione opprimente. «Dopo due giorni passati a ballare, Arturéìk mi ha fatto un taglio di capelli che mi ha cambiato la vita». «Un uomo così bello! Femminile e maschile al tempo stesso; provavo per lui invidia, rispetto e desiderio, tutto insieme!». «Non sapevo che ancor prima di questa guerra avesse già un grado, un nome di battaglia, Snickers». Artur era stato uno dei primi della nostra cerchia a essere mobilitato: lo avevano preso per strada a Leopoli e portato al distretto militare. Molti avrebbero voluto aiutarlo, e non si sa se non ce l'hanno fatta o se lui aveva cambiato atteggiamento (forse entrambe le cose?), ma a un certo punto aveva scritto che li dov'era finito si trovava bene. Su Facebook assicurava che era tutto «okay», che si trattava di un «esperimento», l'ennesimo della sua vita, e che gli amici «per favore» la smettessero di volerlo «liberare» dall'esercito. Non voleva perdersi nulla. Se quello fosse il suo destino, resta un interrogativo aperto, per tutti noi. Volevo vedere vari amici e così andai al commiato organizzato per Artur - adesso si fa così se si vuole incontrare "tutti". E nel locale c'erano in effetti quasi tutti: l'intera scena artistica. Ci mostrarono un film, qualcuno si arrampicò sul tetto, un paio piangevano in un angolo abbracciati, qualcun altro cercò di convincerci a ballare, ma senza successo. N. raccontò che tutti avrebbero voluto truccarsi com'era sempre truccato Artur, e così lui lasciava i suoi cosmetici nella cassetta di un supermercato, e tutto il quartiere si passava la chiave. Un'amica parlò della sua kindness, di più non poteva dire: «Abbiamo sempre solo ballato». Anche L., che è impegnato a evacuare le collezioni dei musei dell'Ucraina centrale, era presente. Al funerale di Artur a Temopil aveva portato una torta enorme, di quelle che piacevano a entrambi. Un musicista ci raccontò dell'ultima canzone di Artur. Artur era la festa fatta persona. Qualcuno gli aveva eretto un altare fatto di piume bianche e di lustrini. Un uomo in divisa ci portò sigarette e un mucchio di cibo per tutti. Continuava a ripetere che dovevamo smetterla di essere tristi. Qualcuno gli chiese dell'omofobia nell'esercito - Artur dava nell'occhio -, ma l'uomo rispose che non esisteva, che là c'era solo fraternità e solidarietà. Artur era impavido, raccontò l'uomo, pronto di riflessi, non andava mai nel panico ed era diventato subito l'anima della loro unità. Non senza un piccolo party: poco tempo fa aveva ritirato alla posta un pacco gigantesco e si era messo a distribuire mutande a uomini al fronte che per lui erano perfetti sconosciuti: «Non c'è nulla di peggio che stare seduti in trincea con le mutande sporche». Artur era rimasto ucciso durante un attacco di mortaio nei pressi di Nova Aleksandrovka, in una battaglia che non è ancora finita. «Rest in Rave, Artur», scrisse D. sotto la sua foto luccicante. Quella morte, ma anche l'incapacità di trovare le parole giuste, mi avevano toccato. Molte persone sono morte, mi disse A., eppure i necrologi sono tutti inadeguati. Più tardi mi misi a piangere, forse anche lei.
N.d.r. Il testo sopra riportato è apparso nella rubrica dell'autrice sulla “Frankfurter Allgemeinen Sonntagszeitung”. Arthur Snitkus ha perso la vita combattendo sul fronte, nella regione del Donetsk, nel mese di giugno ultimo.
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