“La lezione
del Gandhi italiano”, testo di Goffredo Fofi – in “memoria” di Aldo
Capitini – pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di
ottobre 2024: (…). Capitini (Aldo Capitini, 1899-1968 n.d.r.)
visse negli anni del fascismo e del nazismo, di Stalin e di Pio XII, e di un
capitalismo risorto dalle ceneri della Prima guerra mondiale più aggressivo
abile imponente che mai. Portarono, quegli anni, a Auschwitz e a Hiroshima, e
dopo di allora parlare di pace, come a sinistra pur si faceva, aveva qualcosa
di non convinto né convincente, e il sospetto verso quei discorsi si faceva più
acuto quando a farlo erano i portatori di un pensiero che si voleva di fondo
religioso, non solo politico. Capitini fu visto con sospetto o con ironia,
anche a sinistra, perché parlava di politica e di cultura a partire da un'idea
di "persuasione" (…) che non distingueva tra politica, cultura,
pedagogia. E pedagogia era per lui, come dovrebbe sempre essere, la formazione
delle nuove generazioni - guardando più in generale all'educazione anche come
un processo di auto-formazione di un popolo, stimolato da interventi esemplari,
pur minoritari, dentro la società, da una pratica evidente e sia pure di pochi
del buono, del giusto, del vero. Rileggere oggi certe sue pagine contro
"l'assoluto del benessere" (il modello capitalista occidentale) e
"l'assoluto dello Stato" (il modello imposto a tanti popoli
dall'Unione Sovietica) e sulla necessità di mettere in discussione le "'
ideologie dello Stato alla pari di quelle del consumo - che vanno spesso di
pari passo - è ancora fortemente istruttivo, nonostante l'epoca sia cambiata:
non accettando le proposte di vita che da quei modelli discendono e che
ossessivamente vengono ribadite. Tanto più quando quei modelli mettono in forse
la stessa sopravvivenza del genere umano, della natura... Per cosa lotta il
"persuaso" se non per il riscatto dell'uomo dalla limitatezza, dalla
morte, dalla violenza, per la liberazione di tutti e per il rispetto della
natura, quella natura "che tutti in sé confederati estima"? Per agire
a questo fine occorre proporre e difendere "l'omnicrazia", e cioè
"il potere di tutti". E si chiamò non a caso Il potere è di tutti
l'ultimo giornale o bollettino che Capitini diffuse, quattro facciate scritte
quasi soltanto da lui. L'ultimo numero, poco tempo prima che egli morisse,
volle dedicarlo (siamo agli inizi del '68) al movimento degli studenti, in
difesa del "potere assembleare" e contro le ricorrenti tentazioni di
egemonia di un gruppo sugli altri, contro i vagheggiamenti della violenza, e
contro il potere leaderistico in fortissima difesa del potere assembleare. Per
Capitini, insomma, si tratta ogni volta o di accettare o di non-accettare la
realtà per come ci si propone, come ci viene proposta dalle culture dominanti e
dalla loro politica. Si tratta di accettare o non accettare il mondo così com'è
- la società e finanche la natura... (la creazione è imperfetta, ripeteva Anna
Maria Ortese, e sta a noi intervenire per cambiarla). Il pensiero di Capitini
si è certamente nutrito di quello di altri maestri, europei e non - da Francesco
d'Assisi a Leopardi, da Mazzini a Kierkegaard, da Tolstoj a Gandhi, e
ovviamente da Gesù al Buddha. Non accettare la realtà, intervenire nella
realtà, cambiare la realtà. Una impresa enorme, ma che è forse l'unica che
meriterebbe la nostra adesione, riportando a essa la nostra pur minima azione.
Affermando la nonviolenza come la strategia fondamentale e unica, non come un
mezzo tra altri ma come una linea di fondo: contro il potere e contro la morte,
contro la distanza tra le creature. Capitini vede la nonviolenza come lo
strumento che può rompere il cerchio dannato della storia, il circolo vizioso
che sostituisce un potere a un altro senza cambiare le regole del gioco, senza
liberare dal dominio di nuovi poteri, di nuove oppressioni, di nuove violenze.
Quando la tensione rivoluzionaria si trasforma in istituzione, essa è destinata
a produrre un nuovo potere e a mantenere le disparità di fondo. Il ricorso alla
violenza finisce per preparare la strada a nuove ingiustizie; l'utopia che si
pretende di realizzare ricorrendovi finisce per essere negazione dell'utopia
egualitaria e socialista. Non violenza, però, è qualcosa di più che un metodo,
di uno strumento in quanto tale. Del provvisorio ricorso a metodi di lotta
nonviolenta è piena la storia, anche quella del movimento operaio; e a questi
metodi, ma in chiave più rigorosa e appunto non strumentale, Capitini ha
dedicato un aureo libretto, Le tecniche della nonviolenza (dell’anno
1967, appena ripubblicato dall’editore Manni, 176 pagine 17 euro n.d.r.). La
nonviolenza è un fine in sé, è il rifiuto di veder disgiunti i fini dai mezzi,
è un modo di rapportarsi alla vita in tutti i suoi aspetti, agli
"altri" anche i meno vicini (compresi gli animali, di qui la scelta
del vegetarianesimo). C'era nella stessa piccola voga della nonviolenza degli
anni in cui egli la andava predicando, qualcosa che Capitini non apprezzava:
l'aspetto di mera testimonianza, di mero perfezionamento individuale; Capitini
tollerava ma non amava questo modo di essere non violenti insistendo invece su
un'idea fortemente attiva della nonviolenza. La nonviolenza non può e non deve
proporre un piccolo giro di "salvati" in un mondo nemico e ha senso
solo in quanto apertura e dialogo, apertura e azione. Sul modello di Gandhi, ma
con radici profondamente italiane ed europee, Capitini ha insistito sulla
nonviolenza come strategia e non solo tattica, contro la riproposizione delle
logiche del potere e della violenza. Dall'individuo al gruppo e alla comunità,
al "potere di tutti". Tantissimi limiti possono essere abbattuti,
l'importante è dire "non accetto". Ma è ancora attuale il pensiero di
Capitini? Sull'attualità di Capitini io non ho alcun dubbio, ma ne ho invece
molti sulla nostra, di attualità... L'epoca è quella che è, la sua confusione,
il suo conformismo, i suoi opportunismi sono sotto gli occhi di tutti, e
l'accettazione del presente e delle sue regole è diventata così generale e
collettiva - senza domande sui perché e sui come e sui dopo - da lasciare assai
pessimisti sul futuro di ogni possibile alterità. Ci caratterizza
l'accettazione del presente, delle cose così come sono o come si evolvono, o
ancora meglio di come le portano a evolversi i vecchi e i nuovi padroni, la
banca mondiale, l'industria o quel che ne resta da noi più onnipresente e
distruttiva ricattatrice che mai (mi chiedo spesso come avrebbe reagito
Capitini alle ossessive notizie di incidenti di lavoro, alle tante morti che ne
seguono). Nessuno mette in discussione questo modello di sviluppo e non ci sono
forze teoriche o organizzate che tengano testa, sia pure "nel loro
piccolo", a questi poteri e alla loro prepotenza. I piccoli e benemeriti
gruppi ambientalisti e gli ancor più ristretti gruppi nonviolenti sembrano a
volte preoccupati più di farsi ascoltare o accostarsi ai poteri vigenti
accettando per starci anche condizioni inaccettabili, talvolta fino a negare la
loro stessa ragion d'essere, mentre altri piccoli gruppi, i più abili,
finiscono per insediarsi in piccoli spazi ai margini delle istituzioni e per
non dare fastidio a nessuno, una variante fra tante nella pluralità delle
proposte "democratiche". Quanti sono coloro che osano, anche di
fronte all'inaccettabile, affermare "non ci sto", "non
accetto", "cerco altro"; quel "no" indispensabile che
è alla base - necessariamente individuale, prima che di gruppo - di ogni
risposta attiva (preferibilmente nonviolenta) all'ordine che ci è imposto? Non
credo che oggi Capitini apprezzerebbe molto i pochi che dicono di avere
imparato da lui, credo invece che cercherebbe per quanto gli fosse possibile di
mettere in crisi il loro quieto vivere, la loro accettazione delle "regole
del gioco" detto democratico. Sembrerebbe inattuale, Capitini, mentre è
più che mai attuale. Non è attuale, perché dal suo pensiero è molto raro che vi
sia chi ricavi davvero le indicazioni fondamentali per intervenire nella realtà
sociale e politica del tempo, anche se talvolta - peraltro molto raramente - è
citato da qualche associazione pacifista, o che si dichiara nonviolenta ma è
poco più che "buonista". Eppure il suo pensiero, con le indicazioni
concrete che se ne possono ricavare è più che mai impressionante, a tanti anni
dalla sua morte. Alcuni suoi amici hanno lamentato il
"provincialismo" di Capitini: quanto avrebbe potuto incidere il suo
pensiero se avesse girato l'Europa, se non fosse stato così condizionato dal
piccolo ambiente umbro! Egli era un educatore, come don Milani per esempio, che
si fermava su una cosa e ne ricavava il massimo, dovunque fosse; era un
pensatore di vastissimo orizzonte, aveva bisogno di spaziare, e le sue idee
avrebbero potuto avere un'influenza sulla storia del pensiero filosofico e
religioso come su quella dei movimenti di contestazione politica se solo avesse
voluto (più che saputo) uscire dal suo guscio - che era in parte, ora ce ne
rendiamo meglio conto, anche una forma di nevrosi, conseguente a una ricerca di
sicurezza. Oggi possiamo lamentare l'opportunismo e la povertà del pensiero
nonviolento venuto dopo di lui. E abbiamo scoperto e amato anche altri maestri,
per esempio quel Gunther Anders, partito dalla battaglia contro l'atomica come
perno della sua azione perché cosciente della radicale trasformazione che
l'atomica aveva portato nel mondo, dell'atomica come fine della storia e
possibile "fine del mondo". Non era nonviolento, Anders, e diceva che
bisognava assolutamente fermare le mani che avrebbero potuto dar l'ordine di
lanciarla, davvero un "punto di non ritorno", e denunciò l'incapacità
dei movimenti nonviolenti di reagire efficacemente all'esistenza stessa dell'atomica
e alla costante, ossessiva aggressione verso la natura. Né ci sembra del tutto
irragionevole la proposta di "ritiro" che sembra venirci da più
parti, da chi, crescendo nel mondo di oggi, si disgusta della sua insensatezza
e decide semplicemente di starne fuori, di non cercare affatto il dialogo con
la politica, con le rappresentanze organizzate, di dichiarare chiusa la partita
e di fare banda a parte, e per quel che può di "non partecipare". Di
tenersi ai margini della storia per non contribuire al disastro, inventandosi
spazi e modi di sopravvivenza confusamente marginali. E questi modi, difronte
al massiccio non-pensiero della cultura e della politica ufficiali, sono
destinati a crescere, mentre tanti gruppi che fanno meritoriamente cose utili al
prossimo più trascurato dal potere (e dalla democrazia), si lasciano usare, pur
di sopravvivere, da poteri sempre più cinici. "Recupero" e
"integrazione" caratterizzano quasi tutta la recente storia del
volontariato e del terzo settore. Dentro i canoni che il potere stabilisce,
dentro i miseri margini che esso concede, avvantaggiandosene a protezione del
proprio egoismo e opportunismo. Ma proprio per questo Capitini è attuale,
perché il suo "non accetto" può ancora esserci di stimolo e di modello
per il nostro tempo. C'è una molla su cui far leva, prima di ogni precisazione
teorica e di ogni proposta di azione collettiva, che pure potrebbe avere
quantità di modi di intervento singoli, di gruppo e di movimento. Il punto di
partenza che Capitini ci indica è di non accettare le menzogne e gli
opportunismi del potere, dei poteri. E basterebbe partire dal suo rifiuto della
menzogna, dalla sua proposta della non-menzogna singola e di gruppo, con le sue
conseguenze di non-collaborazione. Non-menzogna e non-collaborazione col potere
e le sue logiche sono corollari fondamentali della nonviolenza, sono punti dai
quali si dovrebbe e potrebbe partire anche per arrivare alla nonviolenza. La
prima molla, il primo passo sono quelli del "volontarismo etico", del
"non accetto" individuale, e Capitini direbbe della
"persuasione". Ma quanti sono oggi i "persuasi", nel flusso
addormentante per i più e inquietante per i meno delle accettazioni, singole e
di gruppo, che caratterizzano questo nostro tempo e questo nostro Paese così
spaventosamente "consenzienti"?
Nessun commento:
Posta un commento