"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 19 settembre 2023

Piccolegrandistorie. 55 “Memoriale di Basilio Archita”.


StoriediMigranti”. “Memoriale di Basilio Archita”, racconto dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo riportato nel volume “Italica” di Giacomo Papi alle pagg. 378/385: Io so che significa essere sbranati, ho sentito una volta i denti nella coscia, nel costato, di tre cani feroci come iene. E le unghie delle zampe che strappavano il costume, la maglietta e laceravano le carni.

Ne stringevo forte uno per la gola, lo tenevo lontano dalla faccia e colpivo con la canna gli altri due, che latrando s'erano attaccati alla gamba e al fianco. Avevo voglia di cedere, di buttarmi a terra, e sentivo in bocca un sapore di potassa. Fu d'estate, di fronte a Camarina. Stavo lì sulla spiaggia con una ragazza del Villaggio di cui non ricordo più neanche il nome: di straniere ne cambiavo continuamente. Questa tedesca aveva voluto visitare le rovine sotto il sole del primo pomeriggio e, col libro in mano, non aveva tralasciato pietra colonna muro o tomba. Poi avevamo fatto il bagno alla foce dell'Ippari e c'eravamo spalmati tutto il corpo con quel fango cilestrino che ci faceva sembrare statue di creta o marziani. All'imbrunire, ero salito sopra il terrapieno, m'ero inoltrato fra i maccòni, le dune di sabbia, dove erano le serre (montagne di plastica, immondizie e il puzzo di carogna dei concimi vi stagnava come polvere grassa). Mi stavo abbassando tra gli scheletri delle serre, quando spuntano all'improvviso le bestie, magre, coi denti digrignati. Mi avrebbero sbranato se non veniva un cornuto di padrone o guardiano a richiamarli. Lazzarato, assieme alla ragazza corsi con la Suzuki all' ospedale di Pozzallo. Ché sono di quel paese, di Pozzallo, mi chiamo Basilio Archita e ho vent'anni. Sarebbe lungo raccontare con che mi trovavo imbarcato su quella nave greca. Comunque, c’è di mezzo un macchinista che avevo conosciuto in un viaggio precedente da Ortigia al Pireo. Perché io ho sempre fatto marittimo, tranne un inverno in cui ho tentato di lavorare Milano. Sembrava che a Milano te li dessero a palate, e invece, tra pensione, mangiare, vestiti e qualche divertimento, i soldi squagliavano come sale. Aggiungi che si lavorava senza libretto e pochi giorni in tutto il mese per la pioggia che, quando attaccava, non smetteva mai: come si faceva a montare impalcature su per le facciate? Stavo nella stanza, a fumare sentire nastri, in quella pensione di via Lazzaretto (nell' atrio c'era questa lapide, me la ricordo per le volte che l'ho letta: "Questa casa venne edificata nell'area dell'antico Lazzaretto”: cos'era, un ospizio o la casa di un uomo sbranato dai cani come me a Camarina?). Cosa fare senza soldi? Non potevo più neanche andare al "Notte blu", ché la disco-music è la cosa a cui più tengo. Sono bravo. Una volta si fermarono tutti per guardarmi e alla fine m'applaudirono. E perciò. Avevo visto lì attorno movimento, io capisco, sono uno che ha girato sono stato a New York e a Singapore. Poi uno in Mercedes col telefono e la tele veniva a prendermi fin sotto la pensione. Racconto questo per dire di una cosa quasi uguale che poi capitò sopra la nave. Mi capitò col terzo ufficiale. Sin dal primo momento che misi piede sulla nave, ebbe a dire sui capelli lunghi, sull' orecchino, le collanine e i bracciali che portavo. Li tirava comi volermeli strappare. Io stavo calmo, e a quello gli si spiritavano di più gli occhi, gli si faceva più pallida la faccia, e anche le braccia sembrava che ancor di più gli si accorciasse Ché questi greci quasi sempre hanno le braccia corte in confronto al busto, braccine come quelle dei canguri. Si mise a comandarmi, non mi lasciava respirare. Ero diventato il suo cameriere personale. Su queste navi greche non c'è contratto, turni o rispetto di mansioni. E il cuoco, un uomo enorme col cranio lucido, che parlava un greco incomprensibile anche per i suoi connazionali, quando andavo per la cena in cabina dell'ufficiale, sbatteva nel piatto quei pezzi di montone e urlava e minacciava col coltello. Tutti se la ridevano, e se la rideva di più Filippos, il più maligno e il più figlio di puttana, un segaiolo incallito che leggeva sempre le riviste porno. La storia andò avanti oltre Creta, oltre Cipro e il Canale, fin sul Mar Rosso. Qui un pomeriggio (avevo fatto la doccia, lo shampoo, e m'ero nascosto, come al solito, in un angolo di poppa, tra i cordami e le scialuppe), m'ero messo in costume e steso sulla stuoia, con il walkman, il mangianastri e le cassette di Vasco Rossi e dei Duran Duran; «Cronaca Vera» e «Superman», le Marlboro, due arance e una Coca fredda: ero a posto. Il sole picchiava, ma io lo sopporto, ho la pelle dura. Solo gli occhi, forse perché chiari, vedevano appannato. Vedevano come dietro un velo, tra due scialuppe, uno spicchio di mare e di cielo. Sembravano d'un blu come quello metallizzato delle Alfette. In alto volteggiavano uccelli, in acqua, lontano, passavano navi cisterna, navi da guerra, e vicino schizzavano pesci, affioravano pinne, forse di pescecani. Quella vista mi riportò alle bestie di Camarina e mi tornò il ricordo della paura di quel giorno e il sapore di potassa in bocca. Guardai e toccai con le dita le brutte cicatrici e i graffi sulla coscia e sopra le costole. Affioravano spesso anche i reef e la nave forse per questo andava lentissima, sembrava che si fosse fermata, incagliata tra i coralli e i fondali di sabbia; e mi sembrava che a star ferma si facesse alta e grande come un'isola rocciosa in mezzo a questo mare stagnante, un grande scoglio scavato all'interno, con scale, passaggi e corridoi segreti, e le cabine divenute celle, senza porta e oblò, con solo buchi o bocche di lupo, con dentro il capitano e tutti gli ufficiali, compreso quell'isterico del terzo che mi vessa e comanda, compreso il cuoco, compresi i macchinisti e i marinai, compreso Filippos e i pakistani che ridono falsi e scoprono i denti di ferro. E io solo libero, io, su questo terrazzino sopra la poppa, e forse anche quel cristo di mozzo, quel negro del Kenya. Sbucciavo dunque un'arancia col coltello, sentivo il Vasco che cantava "Voglio una vita spericolata/ Voglio una vita come quella dei film / Voglio una vita esagerata / Voglio una vita come Steve McQueen ... ", quando vedo sopra di me l'ufficiale, pallido, la barba nera e rasposa, gli occhi spiritati e ancora più ingranditi, l'alone del sudore sotto le ascelle. Io non mi mossi, rimasi sdraiato a guardarlo, calmo. Dall' altra parte spuntò la faccia ghignante di quel figlio di puttana di Filippos. L'ufficiale, gridando, prese da terra le mie riviste e le fece volare in mare, poi cominciò a darmi calci, sul fianco, sulle costole. Non ci vidi più, mi si fece tutto nero. Scattai d'improvviso e lo colpii col coltello nel polpaccio. Lo portammo nella cabina, io e Filippos, e lì egli licenziò il marinaio greco dopo avergli imposto il silenzio più assoluto. Mi promise che non mi avrebbe denunziato al capitano, non mi avrebbe denunziato alle autorità una volta sbarcati su al Pireo. Che tenessi però ben presente la ferita e ben presente Filippos, il testimone. Aveva dei denti guasti intartarati. Basta. Da quel giorno cominciò a trattarmi più che bene. Mi diceva che il mio nome e cognome sono greci, come mai? E che so?, io sono nato vicino a Siracusa. Mi diceva che somigliavo a John Travolta, mi chiamava Alchibiàdes, e ancora con un nome americano Billy, Billy Budd (era scemo quello!); nominava poi un altro greco, Kavafis, e recitava poesie come un prete che recita preghiere. Racconto questo per dire che il pazzo scemo mi ricattava, mi teneva sempre contro il collo la lama della denunzia. Ché altrimenti, insomma, per quei negri disgraziati io avrei... Io so che significa essere sbranati. E in mare poi... La lama della denunzia al capitano. Voi non sapete chi era quello. Io non lo vidi mai fino a Mombasa. O almeno, quelle rare volte che metteva il naso fuori dalla cabina e mi capitava di intravederlo da lontano, io svicolavo. Aveva capelli ondulati e lucidi di brillantina, due grandi sopracciglia arcuate e sotto due occhi che guardavano lontano, nel vago, oltre le cose e le persone. Era tarchiato e camminava rigido, come legato. Aveva labbra strette e non scopriva i denti. Tutti sapevano che non parlava mai, che anzi, quando dava ordini agli ufficiali, muoveva appena le labbra, senza emettere suono, e pretendeva che lo capissero. Altrimenti urlava, latrava come un cane. Era un terrore. A parte che anche gli altri ufficiali, il vice, il terzo e il cuoco non scherzavano. E non scherzavano neanche i marinai, compresi i barbuti pakistani. Mi sono accorto, dal primo momento che ho messo piede su una nave, da mozzo, che tutti, qualche giorno dopo l'imbarco, prendono un modo strano di fare e di pensare. Come nelle isole. Come a Lampedusa, dove un inverno con il peschereccio fummo costretti a rifugiarci. Sembravano, gli isolani, o tristi, straniati, o morsi dalla tarantola. C'era poi una donna che stava sempre sul molo a fissare muta l'orizzonte. A Mombasa, dunque, nel porto di Kilindini. Faticammo per tre giorni nella stiva per lo scarico e il carico della merce. Il capitano stava là in alto, affacciato al boccaporto, rigido, col secondo accanto, e dava ordini in quella sua maniera o con cenni della mano. Io non so quali merci si scaricarono e caricarono a Mombasa, vedevo solo containers e sacchi che noi imbracavamo e legavamo alla gru: non me ne importa niente, ho imparato a farmi i cazzi miei, m'interessa solo la paga buona e sicura. L'ultima sera feci doccia e shampoo, misi i Rifle, il bomber di Armani e le Timberland, chiesi al terzo il permesso di scendere a terra: l'ho detto, l'unica mia passione è il ballo. Domandai per un bus verso il centro e mi indicarono l'avenue Kenyatta. Domandai ancora per un locale e mi indicarono il New Florida Night Club: che lusso, era pieno di stranieri, tedeschi inglesi americani giapponesi. Io volevo conoscere qualche bella negra, ma lì c'erano solo negri che facevano i camerieri. C'erano anche tanti italiani e un gruppo mi invitò al suo tavolo. Gente su, dottori o ingegneri, di Milano, di Brescia, di Torino. Le donne erano sulla quarantina, ma belle, eleganti e tutte piene di gioielli. Si divertirono a ballare con me, a turno, e m'offrirono tartine, frutta, champagne. Basta. Alla fine m'accompagnarono pure fino a Kilindini, in colonna con le Land Rover. Partivano anche loro l'indomani per Nairobi, per il safari. Quella che mi si era attaccata e mi sedeva accanto mi diceva vieni pure tu. E come faccio? Comunque mi ha lasciato il suo indirizzo di Milano. Racconto questo per dire che quella notte io ero a terra e non m'accorsi come e quando salirono a bordo i clandestini. Furono scoperti lungo la rotta per Karachi. Fu Filippos ad accorgersene per primo, quel figlio di puttana. Era un bracco, ficcava il naso e gli occhi dappertutto. Scovò nella stiva quei negri e andò personalmente a denunziare la faccenda al capitano. Successe il finimondo. S'alzarono i portelli del boccaporto e tutto l'equipaggio fu lì attorno a guardare giù quella sorpresa. Ci mettemmo in coro a fare urla. Quelli, là sotto, correvano piegati, attaccati a branco, s'infilavano negli stretti spazi tra i containers. Poi si fermarono, incastrati tra i containers, e guardarono in alto con quei loro occhi bianchi. Il capitano volle silenzio e poi cominciò a fare domande in inglese sussurrandole al secondo che le urlava giù da dentro un megafono: chi siete, da dove venite, chi vi ha fatto salire a bordo? E quelli zitti, ansimanti, tutti in mucchio, non si capiva neanche quanti fossero. Erano giovani, e ce n'era uno giovanissimo, di forse quindici anni, esile e alto, che tremava come una palmetta per la brezza. Erano in jeans sfilacciati sui ginocchi o in mutande e magliette strappate con scritte scolorite d'alberghi o di prodotti. Si fece poi venire il mozzo keniota e il capitano disse a lui le domande che le trasmise in swahili. Uno, da giù, rispose solo: «Kula, tafadbali», che vuol dire: mangiare, per favore. Il capitano, furioso, diede ordine di portarli su e chiuderli al sicuro in uno sgabuzzino. Se ne andò nella cabina di comando, con quel suo camminare rigido, seguito dal vice e dallo scimunito che mi recitava le poesie. Filippos, il mongolo del cuoco e tanti altri catturarono e imprigionarono i negri divertendosi come cow-boys con gli indiani. Li chiusero in un ripostiglio fetente vicino alla cambusa, un bugigattolo già pieno di utensili, detersivi e veleni per gli scarafaggi e i topi: c'entrarono tutti e undici all'impiedi a malapena. Tornammo poi tutti al lavoro. La sera, dopo l'afa soffocante del giorno, stanco, me ne andai sul mio terrazzino a rinfrescarmi. Sentivo finanche freddo, avevo brividi. Sembrava che le stelle mi cadessero addosso. Supino, pensavo alla mia vita, a mia madre, a mio padre che ci aveva lasciati ed era scomparso senza dare più notizie. Fu allora che cominciai a sentir i lamenti che venivano giù dalla cambusa e crescevano man mano, lamenti insopportabili. Corsi allora dal terzo. Quello, duro, mi rispose di pensare ai fatti miei, mi ordinò di andare subito a dormire. Ma, anche in cabina, sopra la cuccetta di quell'animale di Filippos che ronfava, entravano dall'oblò i lamenti. Non riuscivo a prender sonno. Mi misi allora alle orecchie le cuffie del walkman e così m'addormentai. Fu l'indomani che successe tutto. Di primo mattino, quei disgraziati riuscirono a sfondare la porta del fetente ripostiglio e si precipitarono, come spinti dall'istinto, in cucina. «Maji; maji!» imploravano, acqua, acqua!, tendendo le mani nere, magre. Quel boia del cuoco e il suo sguattero subito li affrontarono e li respinsero coi coltelli. Suonarono l'allarme. Vennero immobilizzati, i negri, portati sul ponte, vicino alla murata. Arrivò il capitano. Aveva un fucile nelle mani. Questa volta parlò, ululò anzi, ululò in greco come un lupo puntando la canna del fucile. I negri erano atterriti, ma stavano immobili. La loro pelle luceva sotto il sole, gli occhi mostravano di più il bianco e le labbra erano secche, screpolate. Al ragazzino esile scendevano lacrime, ma la faccia era impassibile, sembrava che piangesse in sogno. Il capitano confabulò con gli ufficiali; il secondo comunicò poi a tutti che avrebbero buttato i negri in mare. Alcuni ci ribellammo, urlammo no, no! Il capitano rivolse contro di noi il fucile. Gridò in greco e poi in inglese la sua decisione. Il mozzo keniota la tradusse piano in swahili ai compatrioti. Che rimasero lì fermi e assenti, come prima. Ordinò il capitano che solo gli si dessero giubbetti. Il cuoco sorrideva sotto i baffi mongoli, sorrideva anche il terzo coi denti guasti, ridevano coi denti di ferro anche i pakistani. Ci allontanammo i contrari, io corsi a nascondermi nel mio posto segreto sulla poppa. Mi buttai lì bocconi, mi misi la cuffia e la musica a tutto volume mi rintronò dentro la testa. Eravamo a otto o nove miglia dalla costa, forse di fronte a Mogadiscio, e la nave filava a tutta forza. Strisciando m'infilai fra due lance, guardai il mare. Non avrei mai voluto vedere in vita mia. La chiazza rossa si spandeva a poco a poco. Sono qui ora, in un alberghetto del Pireo, a disposizione dell'autorità giudiziaria. Sono già stato interrogato dal giudice, ma non so quanto abbia capito. Io non sono buono a parlare, mi trovo meglio a scrivere. Ho scritto perciò questo memoriale che consegnerò alla mia ambasciata per farlo trasmettere alla giustizia greca. Un'ultima cosa voglio aggiungere: non so se mi imbarcherò più su una nave greca. Non so se mi imbarcherò più su una nave. Adesso voglio solo andarmene, passare questa estate al mio paese.

Nota editoriale: “Il racconto uscì su «L’Espresso» del 3 giugno 1984 con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! Il 16 maggio «la Repubblica» aveva dedicato un articolo al fatto di cronaca a cui il racconto è ispirato. Il memoriale di Basilio Archita chiude la raccolta Le pietre di Pantalica, pubblicata da Mondadori nel 1988”.

Nessun commento:

Posta un commento