“StoriediMigranti”. “Memoriale di Basilio Archita”, racconto dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo riportato nel volume “Italica” di Giacomo Papi alle pagg. 378/385: Io so che significa essere sbranati, ho sentito una volta i denti nella coscia, nel costato, di tre cani feroci come iene. E le unghie delle zampe che strappavano il costume, la maglietta e laceravano le carni.
Ne stringevo forte uno per la
gola, lo tenevo lontano dalla faccia e colpivo con la canna gli altri due, che
latrando s'erano attaccati alla gamba e al fianco. Avevo voglia di cedere, di
buttarmi a terra, e sentivo in bocca un sapore di potassa. Fu d'estate, di
fronte a Camarina. Stavo lì sulla spiaggia con una ragazza del Villaggio di cui
non ricordo più neanche il nome: di straniere ne cambiavo continuamente. Questa
tedesca aveva voluto visitare le rovine sotto il sole del primo pomeriggio e,
col libro in mano, non aveva tralasciato pietra colonna muro o tomba. Poi
avevamo fatto il bagno alla foce dell'Ippari e c'eravamo spalmati tutto il
corpo con quel fango cilestrino che ci faceva sembrare statue di creta o
marziani. All'imbrunire, ero salito sopra il terrapieno, m'ero inoltrato fra i
maccòni, le dune di sabbia, dove erano le serre (montagne di plastica,
immondizie e il puzzo di carogna dei concimi vi stagnava come polvere grassa).
Mi stavo abbassando tra gli scheletri delle serre, quando spuntano
all'improvviso le bestie, magre, coi denti digrignati. Mi avrebbero sbranato se
non veniva un cornuto di padrone o guardiano a richiamarli. Lazzarato, assieme
alla ragazza corsi con la Suzuki all' ospedale di Pozzallo. Ché sono di quel
paese, di Pozzallo, mi chiamo Basilio Archita e ho vent'anni. Sarebbe lungo
raccontare con che mi trovavo imbarcato su quella nave greca. Comunque, c’è di
mezzo un macchinista che avevo conosciuto in un viaggio precedente da Ortigia
al Pireo. Perché io ho sempre fatto marittimo, tranne un inverno in cui ho
tentato di lavorare Milano. Sembrava che a Milano te li dessero a palate, e
invece, tra pensione, mangiare, vestiti e qualche divertimento, i soldi
squagliavano come sale. Aggiungi che si lavorava senza libretto e pochi giorni
in tutto il mese per la pioggia che, quando attaccava, non smetteva mai: come
si faceva a montare impalcature su per le facciate? Stavo nella stanza, a
fumare sentire nastri, in quella pensione di via Lazzaretto (nell' atrio c'era
questa lapide, me la ricordo per le volte che l'ho letta: "Questa casa
venne edificata nell'area dell'antico Lazzaretto”: cos'era, un ospizio o la
casa di un uomo sbranato dai cani come me a Camarina?). Cosa fare senza soldi?
Non potevo più neanche andare al "Notte blu", ché la disco-music è la
cosa a cui più tengo. Sono bravo. Una volta si fermarono tutti per guardarmi e
alla fine m'applaudirono. E perciò. Avevo visto lì attorno movimento, io
capisco, sono uno che ha girato sono stato a New York e a Singapore. Poi uno in
Mercedes col telefono e la tele veniva a prendermi fin sotto la pensione.
Racconto questo per dire di una cosa quasi uguale che poi capitò sopra la nave.
Mi capitò col terzo ufficiale. Sin dal primo momento che misi piede sulla nave,
ebbe a dire sui capelli lunghi, sull' orecchino, le collanine e i bracciali che
portavo. Li tirava comi volermeli strappare. Io stavo calmo, e a quello gli si
spiritavano di più gli occhi, gli si faceva più pallida la faccia, e anche le
braccia sembrava che ancor di più gli si accorciasse Ché questi greci quasi
sempre hanno le braccia corte in confronto al busto, braccine come quelle dei
canguri. Si mise a comandarmi, non mi lasciava respirare. Ero diventato il suo
cameriere personale. Su queste navi greche non c'è contratto, turni o rispetto
di mansioni. E il cuoco, un uomo enorme col cranio lucido, che parlava un greco
incomprensibile anche per i suoi connazionali, quando andavo per la cena in
cabina dell'ufficiale, sbatteva nel piatto quei pezzi di montone e urlava e
minacciava col coltello. Tutti se la ridevano, e se la rideva di più Filippos,
il più maligno e il più figlio di puttana, un segaiolo incallito che leggeva
sempre le riviste porno. La storia andò avanti oltre Creta, oltre Cipro e il
Canale, fin sul Mar Rosso. Qui un pomeriggio (avevo fatto la doccia, lo
shampoo, e m'ero nascosto, come al solito, in un angolo di poppa, tra i cordami
e le scialuppe), m'ero messo in costume e steso sulla stuoia, con il walkman,
il mangianastri e le cassette di Vasco Rossi e dei Duran Duran; «Cronaca Vera»
e «Superman», le Marlboro, due arance e una Coca fredda: ero a posto. Il sole
picchiava, ma io lo sopporto, ho la pelle dura. Solo gli occhi, forse perché
chiari, vedevano appannato. Vedevano come dietro un velo, tra due scialuppe,
uno spicchio di mare e di cielo. Sembravano d'un blu come quello metallizzato
delle Alfette. In alto volteggiavano uccelli, in acqua, lontano, passavano navi
cisterna, navi da guerra, e vicino schizzavano pesci, affioravano pinne, forse
di pescecani. Quella vista mi riportò alle bestie di Camarina e mi tornò il
ricordo della paura di quel giorno e il sapore di potassa in bocca. Guardai e
toccai con le dita le brutte cicatrici e i graffi sulla coscia e sopra le costole.
Affioravano spesso anche i reef e la nave forse per questo andava lentissima,
sembrava che si fosse fermata, incagliata tra i coralli e i fondali di sabbia;
e mi sembrava che a star ferma si facesse alta e grande come un'isola rocciosa
in mezzo a questo mare stagnante, un grande scoglio scavato all'interno, con
scale, passaggi e corridoi segreti, e le cabine divenute celle, senza porta e
oblò, con solo buchi o bocche di lupo, con dentro il capitano e tutti gli
ufficiali, compreso quell'isterico del terzo che mi vessa e comanda, compreso
il cuoco, compresi i macchinisti e i marinai, compreso Filippos e i pakistani
che ridono falsi e scoprono i denti di ferro. E io solo libero, io, su questo
terrazzino sopra la poppa, e forse anche quel cristo di mozzo, quel negro del
Kenya. Sbucciavo dunque un'arancia col coltello, sentivo il Vasco che cantava
"Voglio una vita spericolata/ Voglio una vita come quella dei film /
Voglio una vita esagerata / Voglio una vita come Steve McQueen ... ",
quando vedo sopra di me l'ufficiale, pallido, la barba nera e rasposa, gli
occhi spiritati e ancora più ingranditi, l'alone del sudore sotto le ascelle.
Io non mi mossi, rimasi sdraiato a guardarlo, calmo. Dall' altra parte spuntò
la faccia ghignante di quel figlio di puttana di Filippos. L'ufficiale,
gridando, prese da terra le mie riviste e le fece volare in mare, poi cominciò
a darmi calci, sul fianco, sulle costole. Non ci vidi più, mi si fece tutto
nero. Scattai d'improvviso e lo colpii col coltello nel polpaccio. Lo portammo
nella cabina, io e Filippos, e lì egli licenziò il marinaio greco dopo avergli
imposto il silenzio più assoluto. Mi promise che non mi avrebbe denunziato al
capitano, non mi avrebbe denunziato alle autorità una volta sbarcati su al
Pireo. Che tenessi però ben presente la ferita e ben presente Filippos, il
testimone. Aveva dei denti guasti intartarati. Basta. Da quel giorno cominciò a
trattarmi più che bene. Mi diceva che il mio nome e cognome sono greci, come
mai? E che so?, io sono nato vicino a Siracusa. Mi diceva che somigliavo a John
Travolta, mi chiamava Alchibiàdes, e ancora con un nome americano Billy, Billy
Budd (era scemo quello!); nominava poi un altro greco, Kavafis, e recitava
poesie come un prete che recita preghiere. Racconto questo per dire che il
pazzo scemo mi ricattava, mi teneva sempre contro il collo la lama della
denunzia. Ché altrimenti, insomma, per quei negri disgraziati io avrei... Io so
che significa essere sbranati. E in mare poi... La lama della denunzia al
capitano. Voi non sapete chi era quello. Io non lo vidi mai fino a Mombasa. O
almeno, quelle rare volte che metteva il naso fuori dalla cabina e mi capitava
di intravederlo da lontano, io svicolavo. Aveva capelli ondulati e lucidi di
brillantina, due grandi sopracciglia arcuate e sotto due occhi che guardavano
lontano, nel vago, oltre le cose e le persone. Era tarchiato e camminava
rigido, come legato. Aveva labbra strette e non scopriva i denti. Tutti
sapevano che non parlava mai, che anzi, quando dava ordini agli ufficiali, muoveva
appena le labbra, senza emettere suono, e pretendeva che lo capissero.
Altrimenti urlava, latrava come un cane. Era un terrore. A parte che anche gli
altri ufficiali, il vice, il terzo e il cuoco non scherzavano. E non
scherzavano neanche i marinai, compresi i barbuti pakistani. Mi sono accorto,
dal primo momento che ho messo piede su una nave, da mozzo, che tutti, qualche
giorno dopo l'imbarco, prendono un modo strano di fare e di pensare. Come nelle
isole. Come a Lampedusa, dove un inverno con il peschereccio fummo costretti a
rifugiarci. Sembravano, gli isolani, o tristi, straniati, o morsi dalla
tarantola. C'era poi una donna che stava sempre sul molo a fissare muta
l'orizzonte. A Mombasa, dunque, nel porto di Kilindini. Faticammo per tre
giorni nella stiva per lo scarico e il carico della merce. Il capitano stava là
in alto, affacciato al boccaporto, rigido, col secondo accanto, e dava ordini
in quella sua maniera o con cenni della mano. Io non so quali merci si
scaricarono e caricarono a Mombasa, vedevo solo containers e sacchi che noi
imbracavamo e legavamo alla gru: non me ne importa niente, ho imparato a farmi
i cazzi miei, m'interessa solo la paga buona e sicura. L'ultima sera feci
doccia e shampoo, misi i Rifle, il bomber di Armani e le Timberland, chiesi al
terzo il permesso di scendere a terra: l'ho detto, l'unica mia passione è il
ballo. Domandai per un bus verso il centro e mi indicarono l'avenue Kenyatta.
Domandai ancora per un locale e mi indicarono il New Florida Night Club: che
lusso, era pieno di stranieri, tedeschi inglesi americani giapponesi. Io volevo
conoscere qualche bella negra, ma lì c'erano solo negri che facevano i
camerieri. C'erano anche tanti italiani e un gruppo mi invitò al suo tavolo.
Gente su, dottori o ingegneri, di Milano, di Brescia, di Torino. Le donne erano
sulla quarantina, ma belle, eleganti e tutte piene di gioielli. Si divertirono
a ballare con me, a turno, e m'offrirono tartine, frutta, champagne. Basta.
Alla fine m'accompagnarono pure fino a Kilindini, in colonna con le Land Rover.
Partivano anche loro l'indomani per Nairobi, per il safari. Quella che mi si
era attaccata e mi sedeva accanto mi diceva vieni pure tu. E come faccio?
Comunque mi ha lasciato il suo indirizzo di Milano. Racconto questo per dire
che quella notte io ero a terra e non m'accorsi come e quando salirono a bordo
i clandestini. Furono scoperti lungo la rotta per Karachi. Fu Filippos ad
accorgersene per primo, quel figlio di puttana. Era un bracco, ficcava il naso
e gli occhi dappertutto. Scovò nella stiva quei negri e andò personalmente a
denunziare la faccenda al capitano. Successe il finimondo. S'alzarono i
portelli del boccaporto e tutto l'equipaggio fu lì attorno a guardare giù
quella sorpresa. Ci mettemmo in coro a fare urla. Quelli, là sotto, correvano
piegati, attaccati a branco, s'infilavano negli stretti spazi tra i containers.
Poi si fermarono, incastrati tra i containers, e guardarono in alto con quei
loro occhi bianchi. Il capitano volle silenzio e poi cominciò a fare domande in
inglese sussurrandole al secondo che le urlava giù da dentro un megafono: chi
siete, da dove venite, chi vi ha fatto salire a bordo? E quelli zitti,
ansimanti, tutti in mucchio, non si capiva neanche quanti fossero. Erano
giovani, e ce n'era uno giovanissimo, di forse quindici anni, esile e alto, che
tremava come una palmetta per la brezza. Erano in jeans sfilacciati sui
ginocchi o in mutande e magliette strappate con scritte scolorite d'alberghi o
di prodotti. Si fece poi venire il mozzo keniota e il capitano disse a lui le
domande che le trasmise in swahili. Uno, da giù, rispose solo: «Kula,
tafadbali», che vuol dire: mangiare, per favore. Il capitano, furioso, diede
ordine di portarli su e chiuderli al sicuro in uno sgabuzzino. Se ne andò nella
cabina di comando, con quel suo camminare rigido, seguito dal vice e dallo
scimunito che mi recitava le poesie. Filippos, il mongolo del cuoco e tanti
altri catturarono e imprigionarono i negri divertendosi come cow-boys con gli
indiani. Li chiusero in un ripostiglio fetente vicino alla cambusa, un
bugigattolo già pieno di utensili, detersivi e veleni per gli scarafaggi e i
topi: c'entrarono tutti e undici all'impiedi a malapena. Tornammo poi tutti al
lavoro. La sera, dopo l'afa soffocante del giorno, stanco, me ne andai sul mio
terrazzino a rinfrescarmi. Sentivo finanche freddo, avevo brividi. Sembrava che
le stelle mi cadessero addosso. Supino, pensavo alla mia vita, a mia madre, a
mio padre che ci aveva lasciati ed era scomparso senza dare più notizie. Fu
allora che cominciai a sentir i lamenti che venivano giù dalla cambusa e
crescevano man mano, lamenti insopportabili. Corsi allora dal terzo. Quello,
duro, mi rispose di pensare ai fatti miei, mi ordinò di andare subito a
dormire. Ma, anche in cabina, sopra la cuccetta di quell'animale di Filippos
che ronfava, entravano dall'oblò i lamenti. Non riuscivo a prender sonno. Mi
misi allora alle orecchie le cuffie del walkman e così m'addormentai. Fu
l'indomani che successe tutto. Di primo mattino, quei disgraziati riuscirono a
sfondare la porta del fetente ripostiglio e si precipitarono, come spinti
dall'istinto, in cucina. «Maji; maji!» imploravano, acqua, acqua!, tendendo le
mani nere, magre. Quel boia del cuoco e il suo sguattero subito li affrontarono
e li respinsero coi coltelli. Suonarono l'allarme. Vennero immobilizzati, i
negri, portati sul ponte, vicino alla murata. Arrivò il capitano. Aveva un
fucile nelle mani. Questa volta parlò, ululò anzi, ululò in greco come un lupo
puntando la canna del fucile. I negri erano atterriti, ma stavano immobili. La
loro pelle luceva sotto il sole, gli occhi mostravano di più il bianco e le
labbra erano secche, screpolate. Al ragazzino esile scendevano lacrime, ma la
faccia era impassibile, sembrava che piangesse in sogno. Il capitano confabulò
con gli ufficiali; il secondo comunicò poi a tutti che avrebbero buttato i
negri in mare. Alcuni ci ribellammo, urlammo no, no! Il capitano rivolse contro
di noi il fucile. Gridò in greco e poi in inglese la sua decisione. Il mozzo
keniota la tradusse piano in swahili ai compatrioti. Che rimasero lì fermi e
assenti, come prima. Ordinò il capitano che solo gli si dessero giubbetti. Il
cuoco sorrideva sotto i baffi mongoli, sorrideva anche il terzo coi denti
guasti, ridevano coi denti di ferro anche i pakistani. Ci allontanammo i
contrari, io corsi a nascondermi nel mio posto segreto sulla poppa. Mi buttai
lì bocconi, mi misi la cuffia e la musica a tutto volume mi rintronò dentro la
testa. Eravamo a otto o nove miglia dalla costa, forse di fronte a Mogadiscio,
e la nave filava a tutta forza. Strisciando m'infilai fra due lance, guardai il
mare. Non avrei mai voluto vedere in vita mia. La chiazza rossa si spandeva a
poco a poco. Sono qui ora, in un alberghetto del Pireo, a disposizione
dell'autorità giudiziaria. Sono già stato interrogato dal giudice, ma non so
quanto abbia capito. Io non sono buono a parlare, mi trovo meglio a scrivere.
Ho scritto perciò questo memoriale che consegnerò alla mia ambasciata per farlo
trasmettere alla giustizia greca. Un'ultima cosa voglio aggiungere: non so se
mi imbarcherò più su una nave greca. Non so se mi imbarcherò più su una nave.
Adesso voglio solo andarmene, passare questa estate al mio paese.
Nota editoriale: “Il racconto uscì su «L’Espresso» del 3 giugno 1984 con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! Il 16 maggio «la Repubblica» aveva dedicato un articolo al fatto di cronaca a cui il racconto è ispirato. Il memoriale di Basilio Archita chiude la raccolta Le pietre di Pantalica, pubblicata da Mondadori nel 1988”.
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