“SempiternaImmarcescibileItalia”. «(…). …più che “di destra” (che sarebbe comunque il segno di una adesione a un campo politico e culturale), la maggioranza degli italiani mi sembra soprattutto indifferente, e ostile a quasi tutto ciò che implica una fatica ulteriore rispetto alla fatica di campare. Non so se questo concetto valga per altri popoli europei (i più facilmente apparentabili a noi per condizioni socio-economiche), sicuramente vale per noi. Si vota, in prevalenza, per chi dà meno fastidio, promette abbastanza e pretende poco: la Dc, in questo, fu maestra impareggiabile, anche se il suo modello paternalista e assistenzialista, oltre a inibire forse per sempre quel poco di orgoglio individuale di cui si disponeva in un Paese da sempre infeudato, ha sfasciato per l’eternità i nostri conti pubblici. Questo governo è sostenuto in modo acceso da una minoranza ideologica (i fascisti, se mi si consente la semplificazione), seguiti da un poderoso codazzo che non vuole rotture di scatole, spera che le tasse rimangano abbastanza facoltative, i migranti non disturbino, la politica non interferisca troppo nelle loro vite. La sinistra invece è faticosa. Parla di cose stravaganti, come l’uguaglianza e la solidarietà, e per giunta è raramente all’altezza delle proprie buone intenzioni. È riuscita a governare quasi solo nella forma, rispettabile ma tutt’altro che popolare, della responsabilità istituzionale (Napolitano docet) e della interminabile emergenza. Non certo per le sue spinte riformiste, molto blande, o per la sua energia innovatrice. Se il quadro è questo, non dobbiamo lamentarci più di tanto. Ben dentro il corpo del Paese ci sono formidabili riserve di generosità e di civismo, direi inspiegabili se non attraverso il criterio del valore individuale. Il paradosso della sinistra italiana, in questo momento, è che può fare conto sugli individui e non sulle masse. In ogni modo, non siamo morti democristiani e non moriremo fascisti: la nostra sola certezza è che moriremo italiani». (Tratto da “Una sola certezza: moriremo italiani” di Michele Serra pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 28 di luglio 2023).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 13 settembre 2023
Lamemoriadeigiornipassati. 41 “Vita dei Giuliani Amati/2”.
Da “il Fatto Quotidiano” del 22 di gennaio dell’anno
2015 “Vita dei Giuliani Amati/2” di Marco
Travaglio: Nella Torino dei primi anni 80 il professorino Giuliano Amato, che
Giampaolo Pansa ed Eugenio Scalfari chiamano il Dottor Sottile per
l’affilatezza delle sue tesi giuridiche e del suo fisico da roditore, può
permettersi di fare l’intellettuale socialista. Tanto, a occuparsi delle
prosaiche cose di questo mondo, comprese le faccende di vil danaro, provvedono
per lui i capatàz della sinistra del Psi subalpino. Il Cartòfago. Li abbiamo
già visti all’opera nella raccolta dei finanziamenti da un miliardo di lire per
fargli conquistare nel 1983 il suo primo seggio da deputato. Uno è Francesco
Coda-Zabet, profumiere e ras delle tessere, che si vanta spesso di riuscire,
volendo, a “far eleggere una pompa di benzina”. È detto “il cartofago”, per
l’abilità con cui a un congresso riuscì a mangiarsi la lista dei candidati di
opposizione per levarseli di torno. L’altro è l’assessore ai Trasporti Giuseppe
Rolando, che di lì a poco finisce in carcere per le mazzette sui “semafori
intelligenti”: la Guardia di Finanza gli trova addosso un pacco di assegni
scoperti e, intercettandogli il telefono, ascolta più di un accenno ai rapporti
fra lui, Coda e Amato. Anche Coda-Zabet finisce dentro nel 1987 (verrà poi
assolto), per un giro di tangenti sugli appalti ospedalieri. E lì, nella sua
cella di isolamento alle carceri Nuove, viene visitato dallo storico cappellano,
padre Ruggero Cipolla. Che finisce pure lui agli arresti per un episodio ai
confini della realtà. Il frate cappuccino, in visita al politico detenuto, gli
consegna – come ammetterà lui stesso – un bigliettino con i “saluti” e gli
“incoraggiamenti” di “alcuni amici, anche politici, socialisti e non”,
interessati ovviamente al suo silenzio. Prima che gli agenti penitenziari
riescano a sequestrarglielo, Coda il Cartofago lo legge, lo memorizza in un
battibaleno, se lo infila in bocca, lo mastica e lo inghiotte. Interrogato sui
nomi dei firmatari, padre Cipolla rifiuterà sempre di rispondere. Gli “amici
socialisti e non” ringraziano. Il primo SalvaSilvio. Nell’ottobre del 1984
Craxi è presidente del Consiglio da un anno e mezzo, e Amato è al suo fianco
come sottosegretario a Palazzo Chigi. Tre pretori – Giuseppe Casalbore di
Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi di Pescara – decidono di far
rispettare la legge che vieta alle tv della Fininvest di Silvio Berlusconi di
trasmettere in contemporanea (“interconnessione”) su tutto il territorio
nazionale, come può fare legittimamente soltanto la Rai. E pongono sotto
sequestro gli impianti fuorilegge. Il Cavaliere potrebbe seguitare a
trasmettere i programmi (tutti registrati su appositi nastri, le famose
“pizze”) a orari scaglionati sulle sue varie emittenti locali consorziate nei
network Canale5, Rete4 e Italia1. Invece decide di oscurarle del tutto, per
poter dare la colpa ai giudici “comunisti” e chiamare il popolo dei Puffi e
delle telenovelas alla rivolta contro l’illiberale tentativo di applicare una
legge dello Stato (nella fattispecie: una sentenza della Corte costituzionale).
Il presidente del Consiglio Craxi, in quel momento in visita ufficiale a
Londra, annulla l’appuntamento con Margaret Thatcher e torna precipitosamente a
Roma per varare in tutta fretta un apposito decreto legge (il “decreto
Berlusconi”) per risolvere politicamente la questione, vanificando il
provvedimento della magistratura. E legalizzando ex post l’illegalità. E anticipando
di tre giorni la convocazione del Consiglio dei ministri (che si riunisce di
sabato) in seduta straordinaria: mai vista tanta urgenza, nemmeno per
l’alluvione del Polesine e i terremoti in Belice, Friuli e Irpinia. L’estensore
della legge vergogna pro B. – la prima di una lunga serie – è il
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato. Il provvedimento
– assicura Palazzo Chigi – è solo temporaneo, per dare tempo alle Camere di
varare un’organica disciplina del Far West televisivo. Balle. Persino il
Parlamento italiano si ribella a cotanto sconcio, e vota a sorpresa per
l’incostituzionalità del decreto. Così i pretori tornano a imporre la legge, e
il Cavaliere a “oscurare” il suo network, con annessa campagna vittimistica di
spot e programmi-piagnisteo. Stavolta Palazzo Chigi minaccia i partiti alleati
di andare alle elezioni anticipate se non verrà salvato Berlusconi. Orgasmo da
Rotterdam. Il tempo stringe, il decreto sta per decadere, la sinistra annuncia
ostruzionismo in Parlamento. Così Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato)
strappa al presidente del Senato (Francesco Cossiga) il contingentamento dei
tempi per i singoli interventi delle opposizioni. Poi, per far decadere gli
emendamenti, pone la questione di fiducia. Tanto, si dice, gli effetti del
decreto scadono il 6 maggio 1985: da quella data Berlusconi non potrà più
trasmettere senza una nuova legge Antitrust: “Sino all’approvazione della legge
generale sul sistema radiotelevisivo – si legge nel decreto – e comunque non
oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, è
consentita la prosecuzione dell’attività delle singole emittenti televisive
private…”. Ma la nuova legge non arriva e l’ultimatum di sei mesi è pura
finzione: Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato) concede all’amico Silvio
un’altra proroga fino al 31 dicembre 1985. Data peraltro fittizia pure quella:
il governo Craxi & Amato stabilisce che il decreto non è “provvisorio”,
bensì “transitorio”. In pratica, eterno. Il 3 gennaio 1986, scaduta la proroga,
basta una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la normativa non
necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che
dice “comunque non oltre sei mesi…”. Silvio è salvo. Nel 2009 l’inviato di
Report Bernardo Iovene gli ricorderà quel trucchetto del decreto “transitorio”
che diventava perpetuo. E lui, anziché arrossire e nascondersi sotto il tavolo,
s’illuminerà d’immenso e d’incenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste
finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un
giurista… Quando discuto attorno a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa
cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’…”. Dev’essere per
questo che oggi è giudice della Corte costituzionale. Il Partito degli Affari. Nel 1985 l’ingegner
Carlo De Benedetti si accorda con l’Iri di Romano Prodi per acquisire il
colosso alimentare Sme, un carrozzone che perde miliardi e accumula debiti. Ma
Craxi non gradisce e si mette di traverso. Amato esegue: “Minacciò – scriverà
Giancarlo Perna su Il Giornale (mai smentito) – il ministro delle
Partecipazioni Statali Clelio Darida di sbatterlo all’Inquirente, se non avesse
bloccato il mercimonio. Darida obbedì. Allora si fecero avanti Barilla, Ferrero
e Berlusconi”. Il pre-contratto con l’Ingegnere fu annullato, poi il
contenzioso civile venne risolto dalla solita cricca dei giudici amici di
Previti. Nel 1986-87, riecco Amato alle
prese con le privatizzazioni: stavolta c’è da vendere l’Alfa Romeo (gruppo
Iri). Si fanno avanti la Fiat e, con un’offerta molto più vantaggiosa,
l’americana Ford. Nel Psi prevale il partito della Ford. Ma Amato rovescia gli
equilibri e li porta sulla Fiat, che si aggiudica per un pezzo di pane l’unica
azienda concorrente rimasta sul mercato interno. Ricorderà Craxi in un fax
molto allusivo inviato nel 1995 ai Cobas dell’Alfa di Arese (parti civili nel
processo di Torino a Cesare Romiti per falso in bilancio e finanziamento
illecito al Psi): “Amato, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio,
si occupò certamente della vicenda, mentre non se ne occupò, che io ricordi,
l’intero partito. Di ritorni economici… a partiti o soggetti singoli non so
nulla. Certamente non ne ebbe il partito…”. Amato, dunque, pro Fiat e altri
socialisti contro: per esempio Giusy La Ganga e Giulio Di Donato. Quest’ultimo
– interrogato dai pm di Torino – dipinge Amato come una sorta di zerbino ai
piedi di Romiti: “La sezione locale e aziendale di Pomigliano d’Arco era
orientata con maggior favore verso la cessione alla Ford. Anche il Pci locale
aveva questa posizione insieme ai sindacati. Poi venni chiamato dall’on. Amato,
che mi disse che la soluzione Fiat era di gran lunga migliore, sotto il profilo
politico, della soluzione Ford”. E Fiat fu. (2 – continua).
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