Sopra. Domenico De Masi (1º di febbraio 1938 – 9 di settembre 2023).
“Più bellezza meno schiavitù”, colloquio del marzo 2023 di Marco Di Vincenzo con Domenico De Masi riportato sul settimanale “L’Espresso” del 15 di settembre 2023: (…). «Per secoli il lavoro non aveva nulla di dignitoso. Nella Grecia antica, gli uomini liberi non lavoravano per definizione: si dedicavano alla ginnastica, alle arti, alla filosofia. E chi doveva faticare per vivere era una persona di poco rispetto. Poi, però, tutto cambia. Ma bisogna aspettare secoli perché la concezione di lavoro venga riabilitata. Prima nel Seicento, con Locke, e poi nell'Ottocento, con Marx. Per quest'ultimo, lavorare diventa addirittura l'essenza, la cosa più nobile per l'essere umano».
Una vera rivoluzione, a cui sono seguite, nel tempo, prima la creazione delle macchine elettromeccaniche, a inizio Novecento, e poi lo sviluppo di quelle digitali, verso la fine del "secolo breve". «E ora c'è l'intelligenza artificiale. È davvero impressionante. Ma impressiona anche la meraviglia di chi la scopre soltanto adesso», (…). È in mezzo a noi da anni, e non ce ne siamo accorti, (…): alla fine, chi di noi usa Siri sul telefono in qualche modo già sperimenta l'intelligenza artificiale», (…). L'intelligenza artificiale ci riporta un po’ a quel mondo antico dove il lavoro pesante lo facevano gli schiavi. Anche oggi le faccende più faticose le sbrigano gli schiavi, solo che sono meccanici e digitali. Torna così all'uomo un'era di attività intellettuale allo stato puro».
Il timore di molti è che l'IA possa eliminare migliaia di posti (…): «Il lavoro creativo, decisionale e affettivo... Ecco questo rimarrà sempre monopolio degli esseri umani».
Dopo l'elezione di Elly Schlein alla segreteria del Pd, si è riacceso il dibattito sull'introduzione del salario minimo anche nel nostro Paese. Ma c'è una forte opposizione da parte di alcuni, (…). «Un'opposizione soprattutto dei sindacati, Per prepotenza, più che altro (…). Perché una legge sul salario sfuggirebbe al loro potere. Oggi il salario dipende dalla contrattazione collettiva tra datori di lavoro e, appunto, i rappresentanti sindacali. Ma non si riesce a eliminare la piaga delle retribuzioni scandalosamente basse: occorre quindi una soglia minima, che in tutta Europa c'è, tranne che qui da noi. Pd e 5 Stelle hanno da anni proposte sul salario. Entrambi sono stati al governo, forse avrebbero dovuto introdurlo all’epoca. (…)».
C'è un dato che fa spavento. È quello del precariato. «Esiste dall'avvento del neo-liberismo, verso la fine degli anni Ottanta. Fino a quella data, avevamo conosciuto una politica economica keynesiana, molto attenta al welfare. Poi, il neoliberismo ha distrutto i diritti. E il più delle volte li ha fatti distruggere proprio dalla sinistra». (…) Come combatterla? Riducendo l'orario di lavoro. In Germania lo fanno già da anni. E i neo-laureati lì trovano lavoro subito».
Insomma, lavorare meno per lavorare tutti. «Esatto. E per ottenere la riduzione dell'orario bisogna fare lotte in cui giovani, proletari e sindacati siano d'accordo. Come nel '68. Che, non a caso, portò allo Statuto dei lavoratori. Ma oggi i sindacati sono molto più arrendevoli. E i giovani preferiscono non lottare».
Interroghiamo il professore su un fenomeno sempre più in circolazione, anche in Italia: le grandi dimissioni. «Ne parlavo già anni fa. In un libro anticipai anche il tema del telelavoro, poi esploso col lockdown».
Ma perché molti scelgono di lasciare il loro posto? «Banalmente, perché ne trovano uno migliore. Ma non è questo il punto. L'aspetto principale riguarda chi lascia un lavoro per uno meno pagato o, addirittura, per non cercarne un altro. Lavorare ha due funzioni. Una è strumentale: serve per mangiare. L'altra è espressiva: lavorando esprimiamo la nostra personalità. Il lavoro organizzato in modo taylorista, come in gran parte delle aziende, spesso opprime propri i bisogni espressivi. Con turni lunghissimi, non ho possibilità di coltivare i bisogni di amicizia, amore, bellezza, gioco, convivialità. Chi si dimette, dunque, fa una scelta: preferire l'autorealizzazione alla schiavitù. Elimina i consumi e, in cambio, coltiva quei bisogni di amore e di bellezza. Perché è necessario coltivare questi bisogni». (…).
“La felicità possibile e il capitalismo”, testo di Piero Bevilacqua pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, venerdì 29 di settembre: (…), De Masi si è sempre distinto per una vocazione mai smarrita: pensare la propria disciplina come una leva per sollevare la condizione umana, indirizzare il gigantesco potenziale produttivo del capitalismo verso fini di generale emancipazione e benessere collettivo. In questo egli ha fatto propria, arricchendola con decenni di studi e lavori sul campo, la grande lezione di Marx. Nel suo Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, 2018) De Masi prefigurava ormai come inevitabile che “il progresso tecnologico, arricchito dall’intelligenza artificiale, e dall’industria 4.0 mirerà alla liberazione del lavoro per lasciare all’uomo le attività propriamente ‘umane’ in cui studio, lavoro e tempo libero finiscono per coincidere”. Ma non era un’utopia proiettata nel futuro: “Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità” (La felicità negata, Einaudi, 2022,) Grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, noi potremmo consentirci “di coniugare il lavoro per produrre ricchezza, con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria”. Non è certo un azzardo teorico. De Masi conosceva bene il gigantesco incremento che la produttività del lavoro aveva realizzato nel secondo 900 e nel nuovo millennio. Ma questa straordinaria potenzialità delle società industriali, che oggi potrebbe offrire all’umanità una ben diversa condizione collettiva, è stata repressa, il corso di una storia possibile è stato deviato. Marx aveva mostrato la capacità del capitale di conculcare queste sue possibilità di emancipazione, denunciando “il paradosso economico che il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale” (Il capitale, I, 1867). Il capitalismo non evolve naturalmente verso la liberazione del lavoro, se non è costretto dal conflitto operaio. E infatti ci son voluti due secoli di lotte operaie per portare la giornata lavorativa a una misura tollerabile. Ma sul finire del 900, questo sentiero “progressista viene deviato e sbarrato. Le rivendicazioni operaie anziché finalizzate all’accorciamento della giornata lavorativa vengono indirizzate a richieste salariali, rese sempre più necessarie da bisogni indotti. Gli operai e le loro donne vengono assorbiti nel lavoro per soddisfare i desideri crescenti inventati dalla società dei consumi. Come ha ricordato Gary Cross, “Il consumismo non costituisce uno stadio inevitabile dello sviluppo industriale, quanto piuttosto una scelta” (Tempo e danaro, il Mulino, 1998). Negli Usa questa deviazione ha assunto forme parossistiche. Per soddisfare un consumismo sempre più vorace, la giornata lavorativa si allunga indefinitamente, fino a generare quel fenomeno che negli anni 90 viene definito workaholic, “alcolismo da lavoro”. Gran parte dei sindacati occidentali si lasciano trascinare da questa deriva, che indebolisce gli operai, abbrutisce l’etica pubblica, spinge l’economia al saccheggio delle risorse della Terra. E tuttavia non è stata solo responsabilità del movimento operaio. De Masi ricorda quello che ancora sfugge a molti: “La delocalizzazione ha permesso alle società transnazionali di svincolarsi dalle leggi dello Stato-nazione, di svuotare quest’ultimo di significato per sottometterlo alle leggi dello Stato mondiale del capitale” (Lavorare gratis, lavorare tutti, Rizzoli, 2017). La possibilità che il capitale ha guadagnato negli ultimi decenni di sfuggire al conflitto operaio, trasferendosi altrove, ha spento il potente motore che garantiva il continuo “progresso” delle società industriali, la redistribuzione della ricchezza e del tempo di vita di tutti. Tale depotenziamento del conflitto ha un esito pernicioso sempre più evidente, anche perché, ricorda De Masi, “entro il 2025 robot e software creeranno 13 milioni di posti di lavoro, ma ne distruggeranno 22 milioni. Già oggi sono milioni i posti di lavoro – cassieri, operai, commessi, contabili, centralinisti, bancari, agenti di Borsa – inglobati dai software e dai lettori ottici. Un supermercato, per ogni posto di lavoro che crea, ne distrugge sette” (Una semplice rivoluzione, Rizzoli, 2013) L’automazione sta investendo anche mansioni di natura intellettuale, creando inedite potenzialità di liberazione, ma di fatto imponendo una disoccupazione strutturale. È dalla fine del XX secolo che gli operai, nel timore di rimanere disoccupati, accettano in silenzio l’accelerazione dei ritmi di lavoro, gli straordinari obbligatori, gli incidenti e le morti sul lavoro. Come ha ricordato André Gorz, la disoccupazione è diventata “un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese”. Questa mutilazione alla radice del conflitto dà il tono a una intera epoca. La decadenza della politica ha qui le sue origini. Un po’ per scelta, un po’ per necessità, i partiti cessano di rappresentare gli interessi collettivi dei ceti popolari, si autodeprivano della loro forza, trasformandosi in ceto che amministra l’esistente, impegnato a riprodurre se stesso. In un mondo sempre più ricco avanza l’infelicità collettiva.
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